Filippo Bottegal
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Classe 1981 e risiedo nel trevigiano da sempre.
Dopo una laurea specialistica in statistica economica, ho trovato occupazione come impiegato in campo assicurativo.
Alla staticità routinaria del mio lavoro, fa da contrappeso la varietà delle mie passioni fra cui volontariato (clownterapia e pulizia ambientale), sport, lettura, teatro e naturalmente la scrittura, a cui mi dedico ormai da più di sei anni.
Se all’inizio era soltanto un hobby per fuggire dalla monotonia della vita quotidiana, ora la considero una parte integrante della mia vita nonché la fedele espressione della mia versatile immaginazione.
Il mondo della clownterapia mi ha ispirato a scrivere fiabe e racconti che uniscono la fantasia della mio ego bambino, all’ironia naif dell’età adulta.
Orti dei Dogi
-Narrativa-
L’ARCIPELAGO ARCOBALENO
Tanto tempo fa, ubicate da qualche parte negli oceani, esistevano sette isole sconosciute, piccole, vivaci e disposte in cerchio. Erano così vicine fra loro, che da lontano sembravano quasi una sola. Ognuna possedeva una caratteristica peculiare che le altre non avevano e di cui si pavoneggiava. Tutte quante inoltre, prendevano il nome da uno specifico colore e per questa ragione, le case e le vesti dei suoi abitanti erano tutti della stessa tinta.
Ad esempio, l’isola Rossa con gli abitanti vestiti di rosso, possedeva gli armenti migliori; l’isola Blu vantava invece l’acqua più limpida, mentre l’isola verde abbondava di prati e alberi. In virtù di queste loro qualità, ognuna si credeva superiore alle altre e nonostante la prossimità, non comunicavano fra loro né condividevano mai i loro beni.
Su ognuna delle sette isole vivevano sette anziani saggi che la governavano con sapienza e buon senso. Dovete sapere che tutti questi saggi si riunivano annualmente in territorio neutrale per discutere e stabilire quale delle sette fosse l’isola migliore. Il posto designato dove si incontravano, era un isolotto rotondo che spuntava al centro esatto del cerchio formato dalle isole stesse. Era talmente piccino che tutti i quarantanove saggi stretti assieme ci stavano a malapena e pure per poco, visto che dopo alcuni minuti di discussione sulle impareggiabili virtù delle rispettive lande, finivano per litigare e tornarsene a casa indispettiti con un nulla di fatto. Si trattava di una futile disputa che andava avanti ormai da cento anni esatti.
I contendenti erano concordi solamente su una cosa: dato che tutte le isole ospitavano egual numero di cittadini, fatto più unico che raro, quella che per volere divino ne avesse acquisito anche solo uno in più, sarebbe stata eletta la migliore. Peccato però che essendo ignote, nessuno al mondo conoscesse la loro collocazione e quindi non sarebbe mai giunta in visita anima viva.
Scoppiò un giorno una terrificante tempesta, la più spaventosa che a memoria d’uomo si ricordasse. Flagellò gli oceani per settimane, affondando senza pietà tutte le imbarcazioni che avevano la sfortuna di incrociare il suo cammino e gettando gli sfortunati marinai fra le onde implacabili e alte tanto quanto una quercia. Forse per un miracolo o forse per puro caso, uno di essi fu però risparmiato dalle acque. Spinto alla cieca deriva dalle maree, approdò esanime sull’isolotto, proprio il giorno prima dell’ennesimo annuale dibattito dei saggi.
Quest’ultimi, al loro giungere, lo trovarono privo di sensi sulla costa. Malgrado l’ospite fosse emaciato e coperto solo da stracci laceri, senza batter ciglio, i saggi cercarono di accaparrarselo e portarselo via, per guadagnare quell’abitante in più che avrebbe infine decretato la vittoria della rispettiva isola. Fra strattoni e spintoni, il diverbio su chi avesse più diritto di adottarlo si protrasse piuttosto a lungo. Tutto quel putiferio finì per destare il marinaio dal suo torpore e prima ancora d’aver il tempo di capire dove fosse finito e chi fossero questi bizzarri figuri vivaci che lo circondavano, fu investito da una valanga, o meglio, da uno tsunami di spiegazioni sull’origine delle isole e del dibattimento in corso.
Ora, è dato di fatto che gli uomini di mare siano gente furba, specie se dediti al commercio abusivo, come guarda caso accadde in questa storia. Quel che di cultura difettava, il superstite usava colmar con l’arguzia degna del contrabbandiere più stagionato. Dopo averci ragionato un po’ su, proruppe con tali pompose parole da lasciar impressionato l’uditorio. “Amici miei, di prodighe virtù assai son colme le vostre isole, che invero non saprei qual prediligere. E se quantunque per una vertessi, di vergogna morrei per il dispiacere arrecato alle altre”. Stupefatti da tanta eloquenza, gli anziani annuivano all’unisono. “Da profondo pensiero, amici miei, mi sovviene un’unica soluzione: ch’io trascorra un egual periodo di tempo in ciascuna isola, affinché possa goderne delle virtù et indi decidere quale di esse prevalga sulle altre”. I saggi, che in quel momento tutt’altro che saggi parevano, continuavano a dire di sì come merli indiani. “Facciamo un anno a testa e non se ne parla più”, aggiunse infine l’astuto naufrago.
Seguì un’altra furibonda lite fra il concistoro, per stabilire quale isola avrebbe avuto il privilegio di accogliere per prima il prezioso ospite. Quest’ultimo, stanco di quei futili diverbi e ancor più, affamato dopo parecchi giorni di digiuno e disgrazie, si offrì di decretare egli stesso l’ordine. In verità scelse completamente a caso, ma ormai era così tanta la stima tributatagli dagli anziani, che costoro accettarono senza fiatare il suo responso. Decise dunque che sarebbe toccato prima all’isola Rossa e poi all’Arancione, quindi Gialla, Verde, Blu, Indaco e infine, all’isola Viola.
I sette anni che trascorse in quelle terre furono i migliori della sua vita. Gli ospitanti, a turno, lo trattarono come un sovrano, circondandolo di tutti gli agi immaginabili e destinandogli il cibo più buono, i doni più pregiati e le donne più belle. Il popolo rosso lo rimpinzò di succulente carni provenienti dal miglior bestiame mai visto. Nell’isola Arancione godette della delicatezza dei frutti più succosi sulla faccia della Terra. Presso i gialli isolani, senza pari nella coltivazione del grano e dei cereali, gustò pane e dolci di una fragranza inimitabile. Gli artigiani dell’isola Verde gli costruirono la casa e la barca di legno più grandi e resistenti del mondo, in virtù alla solidità dei loro maestosi alberi. Le fresche dolci acque dell’isola Blu invece, detersero la sua pelle sino a ringiovanirla di dieci anni. Il popolo indaco lo intrattenne meglio di chiunque altro avesse mai fatto prima, grazie alla sua abilità nelle arti della musica, della danza e del teatro. Nella ricca isola Viola infine, fu sommerso da oro, gioielli e pietre preziose.
Pasciuto e arricchito, ma ormai stanco di quella vita di ozio e priva di avventure, il contrabbandiere decise che fosse arrivata l’ora di riprendere la via del mare e dopo sette anni, si congedò da tutti quanti. S’imbarcò sulla nave edificata dai verdi, caricando ori, gioielli e cibarie in abbondanza e si portò via persino sette donne, una per popolo, con le quali aveva generato sette figli, uno ogni anno, lasciando così immutata la differenza nel numero di cittadini delle isole.
Alla notizia dell’improvvisa partenza, i vecchi saggi restarono di sasso. Sin dall’inizio speravano che il naufrago si sarebbe trattenuto indefinitamente presso la loro dimora. “Almeno pronunciati su quale isola sia la migliore”, gridò uno degli anziani rossi mentre l’ospite salpava dalla costa dell’isola Viola. Dimentico della disfida originale, l’uomo di mare venne colto alla sprovvista, ma con l’arguzia che gli era caratteristica seppe svicolarsi con destrezza, dando una risposta di convenienza. “Non c’è isola che saprei decretar vincitrice, giacché nessuna supera le altre in virtù. Le loro ricchezze sono così diverse che non si possono paragonare le une alle altre, ma sol completarsi le une con le altre”. E detto questo salutò, sparendo per sempre inghiottito dall’orizzonte.
I saggi tanto per cambiare annuirono, quindi si ritirarono sull’isolotto neutrale a deliberare. Non erano mica tanto sicuri di cosa intendesse il marinaio, ma per una volta, esortati e persuasi da un giudizio esterno, per quanto fraudolento, furono unanimi nel convenire a condividere beni a saperi privati su larga scala. E ci misero pure ben poco tempo nel giungere a un accordo. Quale stupefacente miracolo!
Per prima cosa, ogni delegazione scelse il saggio più anziano fra i loro sette, di modo da costituire un consiglio supremo che favorisse il governo, la comunicazione e i buoni rapporti fra le isole. Scoprirono in seguito che riunirsi in sette sull’isolotto anziché in quarantanove era molto più agevole. Se non altro potevano fare i loro bisogni in libertà e con una discreta privacy: era decisamente più facile far voltare sei teste che quarantotto.
Organizzarono commerci di materie prime e passaggi di conoscenze su agricoltura, arte, manovalanza e artigianato. Tanti cittadini che migravano di isola in isola per insegnare il loro mestiere, si avvidero che in fin dei conti non era poi tanto male stare all’estero per un periodo, se così si può dire. Questi scambi divennero così frequenti, che a poco a poco i viaggiatori iniziarono a non voler tornare più a casa loro, stabilendosi definitivamente nell’isola ospitante. Vuoi per pigrizia o vuoi per orgoglio, l’integrazione col popolo locale avveniva però abbastanza lentamente. Per non perdere del tutto contatto con le proprie origini difatti, l’artigiano, il contadino o il musicista di turno, manteneva le vesti e le mura domestiche del colore originale della sua terra nativa.
Questa tendenza finì per tramutare la monotonia monocromatica di ogni singola isola, in una briosa festa di tonalità. In capo a dieci anni, forse anche meno, esse divennero indistinguibili e nessuno ormai sapeva più donde provenisse questa o quell’altra persona. Svanita la connotazione tonale originaria, i nomi delle isole persero di conseguenza significato. Urgeva dunque trovare una nuova denominazione al territorio, una che fosse efficace e rappresentativa.
Il consiglio supremo si riunì un’altra volta nel solito mini isolotto. Alcuni dei saggi erano ormai decrepiti e necessitavano di attendenti che li trasportassero su lettiga. Certune loro funzioni vitali primarie s’erano affievolite e necessitavano di lenti per la vista, corni per l’udito e pitali per le urgenze evacuative. Cionondimeno la loro capacità di scegliere e discernere si era conservata intatta. Deliberarono per tre giorni e tre notti, trascorrendo il tempo per lo più mangiando e dormendo. Dato che oramai tutte le singole isole brillavano di sette colori e i loro abitanti erano maestri di ogni arte e mestiere, decretarono che fosse assurdo cercare ancora di distinguerle singolarmente e pertanto sancirono di considerarle come un unico paese unito che battezzarono col nome di Arcipelago Arcobaleno.
La novità piacque a tutti i popolani, i quali celebrarono la fondazione dell’arcipelago con canti e balli che si protrassero per una settimana esatta. In aggiunta, al centro dell’isolotto, ora che serviva meno spazio per le riunioni del consiglio, fu forgiata una statua in oro e argento, raffigurante quel generoso marinaio che parecchi anni addietro, grazie alla sua leggendaria saggezza, seppe porre fine alla loro disputa centenaria. Il simulacro divenne oggetto di culto nei secoli a venire e la sua storia si tramandò di generazione in generazione. Da quei giorni di festa in poi, gli abitanti dell’Arcipelago Arcobaleno vissero tutti felici e contenti.
O meglio, quasi tutti. Ricordiamoci anche del marinaio furbacchione: quale fu il suo destino dopo aver levato l’ancora? Si narra che sia ben presto fuggito dalla sua situazione e si sia costituito alle autorità della marina militare. Ve ne starete chiedendo il motivo, probabilmente. Ebbene, provate voi a compiacere sette donne contemporaneamente! “Meglio la galera” si disse. Povero marinaio, ne passò di tutti i colori. Mai espressione fu più azzeccata.