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Giacomo Giannecchini
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Secondo classificato
Orti dei Dogi
-Racconti-
Nato a Massa, scrivo e racconto da sempre ma arrivo da una formazione cinematografica.
Ho già partecipato all’Edizione 2021 di Lagunando.
Già presente edizione:






Orti dei Dogi
-Narrativa-
Con altri occhi





Eppure, è proprio così.
Intendiamoci, non è che voglio scrivere un pamphlet sull’importanza dell’elettronica nelle nostre vite o fare un discorso da manuale di elettrotecnica, è solo che la mia lavatrice mi prende per il culo. Ogni volta che provo a uscire per controllare a che punto è il ciclo di lavaggio, la trovo ferma. Mi spiego meglio: a mano a mano che mi avvicino al terrazzo, luogo in cui la mia lavatrice dovrebbe svolgere le sue funzioni, non sento alcun rumore. Nessun tonfo, scroscio, muggito né sibilo, nemmeno un fiato. Ma appena apro la porta e mi affaccio direttamente sul terrazzo, lei parte a tutto spiano a far girare il cestello! E non è l’unica in casa a farmi fesso: anche la lavastoviglie mette in atto di queste strategie. Quando lancio il lavaggio, aspetto di sentire il ronzio che accompagna la presa dell’acqua necessaria e poi, tranquillo e fiducioso, me ne vado in salotto a leggere. Totalmente immerso nelle mie letture non sento più nulla per ore, ma anche in questo caso, appena entro in cucina per controllare lo stato delle cose, la lavastoviglie si rimette subito in moto emettendo suoni infernali. La riprova della sua malafede ce l’ho quando vado a verificare l’esito del lavaggio direttamente sui piatti: ci sono sempre dei rimasugli e delle macchie. L’ho riferito al tecnico e mi ha detto che prima di metterli in lavastoviglie li devo sciacquare accuratamente, magari anche con del detersivo. Ma se devo lavare i piatti prima di metterli nel cestello, la lavastoviglie esattamente cosa farebbe?
Secondo me ci prendono per il culo con tutte queste innovazioni imperdibili: hanno inserito dei sensori che permettono alle macchine di sfotterci, ve lo dico io. La mia ex lavava i piatti a mano perché, secondo lei, venivano puliti meglio. Ecco perché dopo che ci siamo lasciati ho comprato la lavastoviglie. Vedere una pila di piatti sporchi mi fa venire in mente lei, di spalle, all’acquaio, che canticchiava le canzoni di Battisti. Un odore acuminato di limone e i suoi capelli così lisci da spostare per baciarle il collo.
Purtroppo, però, era una testa di cazzo. Non ce l’ho con lei perché si è sposata con un altro ma, davvero, non ha mai capito che eravamo fatti per stare assieme. Ahimè la mia anima gemella è custodita in un corpo bellissimo, ma guidato da un cervello da cretina. È colpa mia? No. È colpa sua? Nemmeno tanto. È una donna concreta che riesce a fare mille cose in una giornata e crede solo a quello che vede. Sapeva anche amare a fondo, ma lo faceva prevalentemente con il corpo e pensava che fare l’amore fosse bello perché si infilava un coso dentro un’altra cosa e ci si muoveva. Non le è mai venuta in mente la possibilità che ci siano delle anime che si toccano, che si liquefanno a una certa gradazione di contatto e diventano una cosa sola. Una sfera di luce celeste che rimbalza nel tempo.
Lei era convinta che fossero grandi scopate le nostre, non fughe dalla materia. E che le potevo dire? Mi potevo imbarcare in spiegazioni di questo tipo? No. Certe questioni non passano per il cervello, le devi sentire, e lei, seppure la sua anima vivesse quelle esperienze e cercasse di suggerirle il da farsi, non le sentiva abbastanza. Il suo cervello faceva troppo rumore.
Ora ha una casa, un cane, due figli, e un terzo figlio che lei chiama marito. L’ho incontrata al supermercato qualche giorno fa ed era ancora bella, molto bella. Mentre scambiavamo qualche parola di convenienza lei mi guardava, e io sentivo che si stava accorgendo anche lei di com’era diverso perfino il supermercato quando ci andavamo assieme: i colori delle merendine, la musica in sottofondo, l’odore dei meloni, le persone che sembravano trasparenti, gli oggetti che non pesavano e tutta l’aria che brillava.
Ma oramai mi confonde con il ricordo di un passato più leggero, con meno impegni, senza figli da accudire, né conti da fare o pranzi da preparare. Mi rimpiange, forse, ma come si rimpiange la gioventù: non perché abbia capito davvero che io sono il suo pezzo mancante.
A volte, quando penso a noi due mi sento molto fortunato per aver provato certe emozioni e certi stati dell’essere, ma tra i fortunati sono senza dubbio il più sfortunato… Trovare il vero amore celeste che ti fa uscire dalla materia e intuire il Tutto, e dover fare i conti con il raziocinio della persona che custodisce dentro di sé quel pezzo mancante per te insostituibile. È proprio sfiga. Oramai è passato molto tempo da quando ci siamo lasciati, e non ho più voluto nessuna dopo di lei. Ogni tanto, quando guardo fuori dalla finestra per vedere se piove, sforzo lo sguardo contro il muro di mattoncini rossi della casa di fronte: il contrasto con il rosso cupo dei mattoni mette in evidenza anche la pioggia più sottile.
In certe serate estive mi sembra di vedere delle gocce finissime cadere rapide ma, mettendo la mano fuori dalla finestra, mi rendo conto che quella pioggerella non esiste… la vedo solo io. Quella pioggia fantasma ogni volta sprigiona anche un odore che non riesco a definire, seppure lo senta chiaro e tondo. Non viene da fuori e non è nemmeno qualcosa che viene da dentro casa, probabilmente viene da dentro le mie vene. Una volta ho provato ad annusare tutto quello che avevo intorno, ma non ho trovato nulla che nemmeno gli somigliasse. In quei momenti, quando sento quell’odore e vedo quella pioggia finissima, ho la sicurezza che un giorno la ritroverò, in un altro tempo e in altri corpi, e a quel giro non le lascerò possibilità di scelta: me la prenderò e basta. Se non capirà, saranno cazzi suoi.
Non è che abbia deciso di non mettermi con nessun’altra perché ho sofferto troppo o sono fragile o non credo che ci siano persone che possano rendermi felice. No, non è per questo. La mia non è stata una libera scelta: è come se fossi un pezzettino di un puzzle da un miliardo di pezzi con un solo incastro. Una volta che hai provato l’incastro perfetto, guardi tutti gli altri 999 milioni 999 mila e 999 pezzi e li trovi anche carini, ma già sai che non si incastreranno in quel modo.
Ecco perché credo che gli elettrodomestici ci prendano davvero per il culo: alla fine stiamo qui, convinti di fare cose e di portare avanti carriere e imperi, e invece siamo solo in una grande sala d’attesa in cui bisogna essere pronti a cogliere le occasioni che ci porteranno fuori. E gli elettrodomestici lo sanno, eccome. Essendo tipi che ragionano con la propria testa, di certo non si fanno condizionare dalle mode, e li facciamo solo ridere con la nostra cieca fede nella meccanica.

S’il est vrai, Chloris, que tu m’aimes,
Mais j’entends, que tu m’aimes bien,
Je ne crois point que les rois mêmes
Aient un bonheur pareil au mien.

Que la mort serait importune
De venir changer ma fortune
A la félicité des cieux!

Tout ce qu’on dit de l’ambroisie
Ne touche point ma fantaisie
Au prix des grâces de tes yeux.

Una sera gliel’avevo dedicata suonandogliela al pianoforte e mentre le cantavo, al limite delle mie capacità vocali e della mia pronuncia francese, che tutto quel che si è detto di meraviglioso sull’ambrosia nei secoli era niente al confronto della grazia dei suoi occhi, lei mi disse che era davvero carina, ma al momento aveva da fare. Forse anche la Chloris originale, a cui il musicista l’aveva dedicata, era una testa di cazzo? Mi permetto questo giudizio aspro perché, a questo punto, mi sembra che il mondo si divida in due: da una parte ci sono quelli che vivono dentro, nell’intimo, e dall’altra quelli che vivono fuori, tra le cose. Entrambe le specie sono costruite con gli stessi elementi, con le stesse potenzialità, ma la comunicazione profonda, quella che non si esprime in concetti, parole o pensieri, diventa impossibile tra i due gruppi. Spesso quand’ero con lei mi sembrava di capirla al volo e viceversa, pensavo ci fosse una specie di comprensione profonda tra noi, e invece erano solo fraintendimenti: come un pollo che si confessava con un delfino. Non è questione di intelligenza, non c’entra nulla.
L’altro giorno, per esempio, ha iniziato a starmi sui coglioni un fiume: con l’automobile cercavo il modo di attraversarlo, ma non c’erano ponti. Ho fatto almeno quindici chilometri risalendo il suo corso dalla foce verso monte, ma niente, nemmeno un misero ponticello. Visto che, a quel che dicono i miei amici, non sono un tipo molto paziente, mi sono fermato in uno slargo erboso a lato della strada e sono sceso sull’argine di quel cazzo di fiume.
Se mi girano le palle lo attraverso a piedi, e vediamo un po’ chi comanda.
Così mi dicevo, mentre scendevo uno stretto viottolo. Pensavo anche ad Alessandro Magno che, quando arrivò sulla riva del Gange dopo aver conquistato mezzo mondo, si rese conto di avere di fronte un destino più grande. Forse anche lui si sentì un moscerino davanti a quel fiume sacro, a quella cultura che aveva diversi millenni di vantaggio su quella greca, a quei territori incredibilmente estesi, a quelle montagne che toccavano il cielo, a quegli alberi così diversi da quelli visti fino a quel momento. Povero Alessandrino.
La riva era sabbiosa, e così ho deciso di togliermi le scarpe per affondarci bene i piedi. Scendeva un venticello da monte che sembrava in grado di rinfrancare anche lo spirito più tormentato. Arrivato all’acqua non ho provato nemmeno a resistere alla tentazione di infilarmici dentro: il tempo di arrotolarmi un poco i pantaloni sopra le caviglie ed ero già un animale acquatico fino a mezzo polpaccio. Su entrambe le sponde si stagliavano i classici, immensi, pioppi che costeggiano quasi tutti i fiumi della penisola italica; alberi che nei secoli hanno ricevuto tantissimi elogi dai migliori poeti della storia, per il suono evocativo emesso dalle loro foglie e per i sottili giochi di luce che sono in grado di creare quando vengono scossi dal vento. Eppure, non hanno mai ceduto alla vanità. Stavo appunto considerando quanto tutto il creato ci suggerisca continuamente un atteggiamento più modesto, più umile, meno protervo, quando, girandomi verso l’altra riva, mi sono reso conto di non essere il solo fruitore di quel venticello sottile.
Attraversavo il fiume lentamente, sottovento rispetto al pescatore che sembrava dipinto nel paesaggio a bella posta. Ho risalito la sponda e mi sono avvicinato a quella canna immobile.
«Si pesca?» ho chiesto fingendomi gioioso e simpatico.
«Oramai sarà difficile, visto che hai terrorizzato tutti i pesci» mi ha risposto con tono sepolcrale.
«Ah, scusa non volevo.»
«Non c’è problema. Ho del tempo da perdere e la paura nei pesci dura poco. Siediti, no?»
Il mio nuovo amico mi indicava un sasso a lato, abbastanza piatto. Niente a che vedere con quello su cui era seduto lui che, a confronto, sembrava un trono. Il mio era più piccolo, più basso e leggermente indietro rispetto al suo. Sedendomi mi rimanevano le ginocchia all’altezza del petto: sembrava una seggiolina per i bambini delle elementari. Era un uomo che poteva avere tra i sessantacinque e i settantacinque anni, i capelli quasi del tutto bianchi e appena movimentati da qualche ciocca color argento. Un paio di jeans, una maglia a maniche corte e un gilet sportivo: di quei gilet che sono delle specie di uniformi per cacciatori, pescatori e fotografi.
«Come mai da queste parti?» mi ha chiesto incuriosito.
«Non trovavo un ponte per passare dall’altra parte e mi sono fermato.»
«Il ponte più vicino è a una decina di chilometri più verso monte» e mi ha indicato con il suo tozzo indice un punto in lontananza che doveva essere proprio dietro le mie spalle. E a quel punto siamo rimasti in silenzio per un po’. Sentire l’acqua che mi passava così vicino, il vento che mi attraversava mentre gli alberi rumoreggiavano era qualcosa che faceva bene all’anima. Mi sentivo felice, e seduto su quel piccolo sasso mi ritrovavo bambino.
«Ma hai già preso molti pesci?»
«Stamani no, ma in passato molti.»
Rideva quel signore tanto pittoresco da sembrare finto, rivelando così tutta la cavernosità della sua voce. La faccia piuttosto larga e rotonda, le labbra ben marcate e l’occhio marrone e limpido non facevano altro che rafforzare la sua aria temprata. Non staccava quasi mai lo sguardo dalla punta della sua canna da pesca, ma qualche volta iniziava a tambureggiare con la gamba come fanno le persone particolarmente stressate. Eppure, non c’era traccia di tensione in lui: era sicuro della sua buona fortuna.
«Che lavoro fai?»
«Muratore.»
Non so di preciso perché gli ho mentito così spudoratamente, ma non avevo voglia di dirgli che sono un dermatologo. Appena lo dico le persone iniziano a mostrarmi strani nei nelle più svariate zone del corpo e, soprattutto, cambiano atteggiamento verso di me. Essere un medico, di questi tempi, sembra essere qualcosa di più di un mestiere. La gente crede nella medicina molto più di quello che sarebbe giusto e quando incontra un dottore, di qualunque specializzazione sia, lo tratta in maniera poco autentica. Non volevo questo dal mio amico pescatore. E poi, vantaggio non da poco, fare il muratore mi permetteva di essere più simpatico e alla mano. Di fronte a un muratore non ci si sente minacciati, mentre sotto lo sguardo indagatore di un medico scatta subito l’allerta e ci si sente giudicati, valutati, pesati, controllati.
«Abbiamo appena finito un cantiere e mi sono preso un giorno di ferie, visto che c’era questa bella giornata» ho detto grattandomi il naso.
«Hai fatto bene. Uno lavora un giorno dopo l’altro e poi finisce che sei vecchio e non importa più se c’è il sole o no.»
Il mio amico, nel frattempo, aveva richiamato a sé l’esca avvolgendo rapidamente il filo sul mulinello con grande perizia. Almeno, a me sembrava molto bravo.
«Non mi piace lavorare. Non vedo l’ora di mettermi anch’io su un fiume a pescare, dalla mattina alla sera» ho ammesso con una punta di provocazione.
«Ma sai pescare?» mi ha chiesto mentre rilanciava l’esca nel solito punto.
«Ho pescato da piccolo. Ma s’impara, no?»
«Ah, certo. S’impara sì» mi ha detto ridacchiando nelle sue tonalità gravi. Per la prima volta da quando mi ero seduto si è girato verso di me, mi ha squadrato bene e mi ha sorriso compiaciuto. Aveva davvero un’aria serena e piuttosto distante da tutto. Il fiume scorreva lentamente e il sole cominciava a bruciare sulle braccia, avrei voluto alzarmi e muovere qualche passo, giusto per sciogliermi un po’, ma avevo paura di spaventare i pesci ancora una volta. Per rompere quell’immobilità ho iniziato a raccontare qualche episodio di lavoro al cantiere, qualche stupido incidente inventato di sana pianta basandomi sulle conoscenze acquisite nei giorni in cui dei veri muratori mi avevano ristrutturato il bagno. Il mio amico pescatore rideva di gusto.
«Sei sposato?»
«No.»
«Come mai?»
«Be’, ero fidanzato, ma non è andata.»
«Non è andata?» mi ha chiesto lui mentre, per un attimo, ha spostato lo sguardo dalla punta della sua canna per puntarlo su di me.
«Sì: lei era bellissima e quando stavamo insieme mi sembrava di volare. Ci siamo voluti davvero molto bene. Almeno, io gliene ho voluto più che a tutte le altre donne del mondo messe insieme e moltiplicate per mille.»
Ho cercato di sintetizzare, ma facevo ampie pause mentre fissavo lo sguardo sulle tasche posteriori del gilet del mio pescatore. Da una di esse sbucava un pacchetto di sigarette.
«E cosa è successo?»
«È successo che lei non capiva un cazzo.»
Il mio amico si è girato ancora verso di me, ma questa volta mi ha guardato dritto negli occhi, con tristezza.
«Lo credi davvero?»
«Sì. Io ho fatto di tutto per farle capire che eravamo nati per stare insieme. L’ho trattata come una regina. Ogni porta che voleva oltrepassare la trovava già aperta perché ci avevo pensato io. Forse le ho dato troppo e troppo in fretta.»
«Forse» ha detto lui alzandosi, e recuperando ancora una volta la lenza.
«È che le persone sono troppo impegnate a far finta che siamo vivi per vivere davvero.»
Lui ha rilanciato con un gesto rapido l’esca proprio nel mezzo del fiume, è tornato a sedersi, poi si è girato verso di me e con il suo registro basso mi ha detto: «Scusami, non ho mica capito.»
«No. Niente. Dicevo che siamo tutti presi dal via vai della vita, che poi finisce che ci dimentichiamo delle cose importanti. Un po’ come dicevi tu prima sul fatto che si lavora tanto per un domani e poi, quando arriva questo domani, oramai è tardi per tutto.»
«Ecco, giusto… Non bisogna pensare troppo al domani, perché non è mica sicuro che ci sia.»
«Be’ Chiara era sempre con la testa al futuro, a cosa pensassero gli altri, a com’era più giusto comportarsi per figurare meglio, a cosa cucinare il giorno dopo, a controllare se il cancello era chiuso… e tutte scemenze simili.»
«Non sono proprio scemenze.»
Il mio pescatore sembrava un tipo troppo quadrato per non allearsi con Chiara sotto questo punto di vista.
«Non saranno scemenze, ma in confronto a quello che provavo per lei, tutto il resto sembrava molto più piccolo. Solo che lei non se ne accorgeva» provai a insistere.
«Quant’è che vi siete lasciati?»
«Sono quindici anni.»
«Davvero?»
Si è girato di scatto verso di me, come ad assicurarsi che non gli stessi raccontando una frottola. Ha sgranato gli occhi per un attimo e poi è tornato subito con lo sguardo, quasi imbarazzato, alla punta della sua canna.
«Davvero. Lei ha già fatto in tempo a sposarsi e fare due figli, di cui il primo credo abbia già più di dodici anni.»
«E tu?»
«E io niente, sono qui sul fiume.»
«Capisco.»
Non so perché stessi facendo tutta quella confessione al pescatore, ma forse avevo solo bisogno di buttare fuori un po’ di rancore verso Chiara e il suo modo di stare al mondo. A un certo punto però il pescatore, dopo quasi mezz’ora che nessuno dei due parlava, mi ha messo una mano sul ginocchio, mi ha guardato ben dritto negli occhi e mi ha detto con un tono non facile da descrivere: «Mi dispiace, ragazzo mio.»
Quegli occhi sinceramente commossi e umidi, quel tono triste, quella semplice frase di uno sconosciuto, sospeso a una canna da pesca, mi hanno rimesso in pace con tutto. Mi hanno liberato da ogni peccato. Quell’uomo aveva sentito davvero che ero incastrato, bloccato, inaridito, svuotato, incompleto. Non lo aveva capito con l’intelligenza, anche perché avevo confuso stronzate e realtà in una sciocca mescolanza, ma lo aveva già capito prima del mio racconto, quando mi aveva offerto di sedermi accanto a lui.
È la vicinanza. La compassione: com-passione, la capacità di provare la stessa sofferenza.
Io avevo una passione da digerire che ancora mi occludeva lo stomaco… e lui l’aveva sentita. Forse aveva iniziato a distruggere tutti i ponti su quel fiume, la mattina presto mentre indossava il gilet. Poi si era messo sulla sponda ad aspettarmi con una finta canna da pesca in mano. Sennò non si spiega perché non abbia preso nemmeno un pesce. Mi ha fatto fermare su quello spiazzo e scendere sulla riva opposta, per poi farmi arrivare da lui grazie all’aiuto del vento e del suono delle fronde dei pioppi. Quando mi ha visto attraversare il fiume forse avrebbe voluto piangere per me, ma si è fatto forza e ha aspettato. Con pazienza, ha aspettato che gli raccontassi tutto. Poi, alla fine, mi ha sfiorato e mi ha guarito.
Ora, anche la lavatrice dovrà guardarmi con altri occhi.







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