Giovanni Angiolo Rubino
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Isole della Laguna - narrativa
Autore di romanzi e racconti. Molta poesia.
Vincitore del Primo Premio di Poesia anno 2019 Giulio Stolfi città di Pignola.
Romanzi Pubblicati: Treno - Terra di Luna - Vacanza in Basilicata - L’Orcodimonio - Sposi in Love…
Isole della Laguna
-Narrativa-
Avventura veneziana
Si respira aria di ferie. Siamo a giugno. L’anno scolastico è passato in un battibaleno. Gli indiani vengono a scuola con fatica. Non basta essere vecchi per dare la sensazione di trascinare l’esistenza.
La mia adorata continua a far parte del mio sangue. E’ una fiamma che si mantiene inalterata. Compare e scompare nei sogni. E’ nebbia che si addensa e si frastaglia. Mi è giunta l’ennesima illustrata. I saluti, puntini di reticenza che mi sembrano altrettanti ammiccamenti, il bacio e l’arrivederci a presto. Speriamo che non si traduca in addio con la sua perennità.
La mia tenuta morale vacilla. Sono arrivato al punto che vado parlando solo per le stanze. Mi arrabbio con gli oggetti, con i pipistrelli, con le falene e con le ombre.
In compenso, mi sto facendo una mezza cultura astronomica. Mi sono procurato un rudimentale telescopio e trascorro intere notti sul mio punto di avvistamento. Il comignolo della cornacchia.
Quante cose si possono vedere di notte, oltre alle stelle e alla luna!
Il paesaggio in tenera penombra, le luci dei casolari, il nastro d’argento del Melaggine. Quando ho fortuna, riesco a rinvenire anche presenze alate che volteggiano. Ma sono i miei occhi. O la mia fantasia ch’è maestra insuperata nel figurarsi cose improbabili.
Giro indifferentemente di giorno e di notte. Il ruscello è alberato e pescoso. Quasi tutti i pomeriggi mi reco lì e osservo la corrente. La limpidezza è tale che la confronto con quella che riflettono le pupille di Simonetta. Mi scalzo, rimbocco i pantaloni e faccio lunghi tratti di letto. Se non inciampo nelle pinze dei granchi, mi diverto ad irretire col piccolo guadino gli spinelli. L’assoluta libertà, l’assenza di occhi indiscreti mi consentono rilassanti orinate. Il pisello è un guanto funereo. Meglio un capitone in mezzo ai ciottoli. Langue. Come se per lui fosse caduto il vento. L’osservo con la smorfia che ci prende di fronte alle cose insignificanti. O ributtanti. E’ come se non fosse del mio convento e non avessi niente da spartire con lui. Lo sollevo e gli faccio il doppler. E’ un corpo inerte. E’ di giada - mi dico. Penso ai suoi decorsi, agli encomi, all’indeclinabilità e ne sono spaventato. Mi affretto a riporlo. Niente è più insignificante dell’insignificanza d’un uccello. Un peso inutile.
Attraverso il canale e cerco radure, piccole boscaglie in cui la luce penetra discreta e il silenzio è tombale. A meno che non ci sia un merlo cantatore. L’erba risente della frescura dell’acqua ed è lucente.
Sembra irrorata. Mi stendo sotto un albero e penso. Mi perdo in supposizioni e correlazioni. Fino a quando anche i pensieri non invertono senso di marcia e battono strade più salutari.
M’interrogo: credi davvero che Simonetta t’abbia voluto bidonare ricorrendo all’astuzia del viaggio? E se si fosse messa in rotta per soppesare l’intensità del suo amore dalla nostalgia più o meno grande?
Un collaudo fuori dal proprio parallelo? Succede.
Stavo provocando il silenzio della cornacchia con l’ira dei miei scatti quando è venuto Angiolino a portarmi l’illustrata.
E’ stato come uscire da un bagno d’idiozia. Mi sono sentito un’aquila che vede tutte le cose in grande, dall’alto.
Simonetta è giunta a Venezia. Lo prevedevo. Le lunghe notti veneziane che con la loro tenerezza fanno vibrare anche l’indifferenza più ostinata e proterva sono nei mille fiumi delle vene del mio amore.
Eccola all’ultima stanza d’una suite tutta protesa sulla Giudecca.
La luna si specchia nell’acqua. Fossimo a Napoli, i mandolini e le serenate a Lucia, a Carmela si sprecherebbero. Qui tutto è tranquillo.
Perfino le gondole non hanno aria festosa. Sembrano bauli che occultano qualcosa di sconvolgente. Da un momento all’altro una schiena ferita potrebbe emergere dal gorgo. Una Ofelia potrebbe vagare sulla corrente.
Ma lei si è addormentata presto. Era stanca. Sestieri e Campi con le loro luci cimiteriali le infondevano una strana paura. Non è bella la città lagunare di notte. Si salvano San Marco e la Salute. Forse la famosissima Cà d’Oro.
La Mia si è messa a letto nella speranza di sprofondare in un sonno di montagne. Le riesce. Naviga con Morfeo fino alla mezza, poi si sveglia di soprassalto, cerca l’interruttore della veilleuse, si sistema a mezzobusto e ascolta. La finestra è semiaperta e la tenda sfarfalla al vento che sale dalle calli. Nel silenzio cresciuto di tonalità c’è lo sfrego d’un cerino. Piove lontano dalle parti di Mestre e Iesolo. C’è rischio che il rovinoso temporale arrivi fin qui e le acque di marea salgano fino a coprire piazza San Marco. Pensa a tante cose brutte, compreso all’improbabile Dracula e alla sua mantella nera, anche a pierrots lunari e all’intera scuola pittorica del cinque e seicento.
Col Tiziano in testa. Poi i Tiepolo, i Tintoretto, i Canaletti assemblati nella Scuola di San Rocco. La seconda Sistina. Esce dal soffocamento infertole dalla paura e si mette a leggere il più veneziano romanzo d’appendice:” Il Ponte dei Sospiri”. Il dramma di Rolando Candiano le strappa via pianto e pietà come una pelle. Corre con la mente al passato immemoriale. Immagina segrete e fortificazioni.
La chiusura mentale e la cattiveria del cardinale Bembo, la forza irresistibile di Scalabrino alter ego del Jean Valjean di Victor Hugo.
Non può fare a meno di porre il parallelo con un altro volume più celebre, non fosse altro perché scritto da Dumas padre: Il Conte di Montecristo. Edmont Dantes, l’abate Faria(la talpa per eccellenza), carceri e tradimenti sembrano dello stesso poppatoio.
Si alza per andarsi a prendere una bibita dal frigo. La lunga vestaglia di raso le si spalanca. La passera sbuzza come una castagna dal riccio.
Anche quando è in viaggio non perde occasione per andarsene senza le mutande. Lo fa per sentirsi disinibita, per accelerare eventuali preliminari. Vezzi da Sharon Stone.
Sorbisce la limonata in poltrona. I lampi zigzagano e la paura sopita prende di nuovo corpo. Diventa maiuscola come le paure d’atmosfera.
Sconvolta, riversa la testa all’indietro e dilata le pupille. L’oscuro regista è pronto per il ciack. Si gira un film dell’orrore con Asia e Dario Argento.
Suonano. C’è una cameriera che va in giro, di notte. E’ un gatto che infila le stanze. Finisce col rovistare quelle delle ospiti incaute. Dà la voce e si fa riconoscere. E’ della Certosa. E’ inutile sospettare.
Simonetta la fa entrare. Pensa che le ha portato il dring col ghiaccio.
Lo ha visto fare nei films e lo considera un capitolo bello e ineludibile. Ne potrà parlare.
Invece, deve ricredersi. La cameriera se n’è venuta con una fotografica illusoria e deve fare clic. Comincia a guardarla con avidità lesbica dalle gambe, sale lungo le cosce, fa cenno di aprire le persiane perché deve fare l’ingrandimento. Deve dilatare linee curve dettagli, lavora per la Benetton e tifa per Oliviero Toscani, vuol farsi strada. La Mia guarda inebetita la yashika inesistente e pensa alla favola di Andersen “I vestiti dell’imperatore”. Dove tutto è fatuo. La cameriera dev’essere una grande illusionista o una gran mignotta. Apre con rumore di specchiera un armadio, gira la chiavetta nella tirettiera e caccia una bottiglia di wisky. Dice:” Se non dovesse bastare, c’è un intero armamentario clandestino di vodke e rhum. Sa come mi chiamano qui?
Beona. Ma non è vero. Bevo un goccio soltanto quando stringo certe amicizie”. Simonetta la blocca per dirle che non si conoscono e che non intende, ma quella va avanti con assoluta autonomia. Ha studiato la situazione nei minimi dettagli. La Mia vorrebbe gridare per fare accorrere ben altro personale che questa pazza malata; ma l’energumena le ha già staccato il citofono. I fili del telefono sono barbe al vento. Ha pensato a tutto. Così, è costretta a seguire l’onda di marea. Speriamo che non l’uccida.
Simonetta è terrorizzata. Sa quali sono i preliminari cannibaleschi e come si procede agli assaggini: prima gli orecchi, il naso, le labbra fino alle frattaglie. Ma quando uno è già morto.
Deve ricredersi. La cameriera non è di stirpe sassona. Appartiene a quella erotica. Viziosa viziosissima, ma erotica. Presto diventa preda indifesa del suo sguardo. Si lascia frugare e dominare. Aspetta d’essere iniziata al rito settario. La belva è consapevole dei suoi poteri, del suo flusso e viene incontro alla Mia con passi calcolati che vorrebbero essere incerti. Fosse una tigre, uno strappo di reni e
Simonetta già sarebbe nelle sue grinfie. Si ferma. Si solleva sulle gambe ben salde. S’inarca. Si tira leggermente indietro perché vuole essere spettacolare. Siamo al suo numero eccezionale. Non lo usa per tutte. Eccola strapparsi le vesti con le unghie e ringhiare. Si trasforma in una pantera dal corpo flessuoso, dagli occhi di ghiaccio. Le spalle, smosse dal suo respiro, hanno una sicurezza atletica di lottatore, le mammelle sono turgide con neri capezzoli e buio alone. Non sono quelle d’una donna, ma d’un animale cresciuto nell’abbandono. Quelle d’una capra di montagna.
E’ la volta delle scarpe. Vengono scagliate lontane. Sarà un’impresa recuperarle a lavoro ultimato.
Si arresta di nuovo. Sa che dovrebbe dichiarare le sue intenzioni, che le sue provocazioni sono giunte al punto che piacciono all’adescata, sa che tutto l’albergo potrebbe agitarsi come alla minaccia d’un massacro.
Sempre potrebbe uscire un grido lamentevole. Ci potrebbe essere il classico contrattempo. Anche la venuta d’un ladro. Che fare? Sotto l’imponente massa dei suoi seni, ogni grido può considerarsi spento, ogni evento è improbabile. Eppoi, quand’è presa dal godimento, non è più lei. Diventa un’orsa inasprita.
“Bevi” - dice a Simonetta. Come se le concedesse l’ultimo desiderio.
Siccome la Mia va alla caccia d’un pietoso monologo davanti al bicchiere, la cameriera le allunga una mano e l’accarezza nei capelli, la bacia sul collo, nello sparato del petto. Queste esternazioni non sono i preliminari dell’amore, ma una ricetta collaudata, una coscienza e una fede. Sete di possesso dagli alluci in su.
Simonetta nelle sue mani accentua la respirazione, freme come un passerotto sorpreso fuori dal nido, si sente la vittima designata per il sacrificio. Pensa ad Isacco, ad Ifigenia e ad altri esempi illustri di persone che vengono immolate sull’àra sacrificale perché devono purificare con la loro vita.
La cameriera si libera dell’intimo tranne delle mutande. Queste sono rosse e trasparenti. La debole luce della veilleuse accentua la penombra e rivela l’insenatura.
“Ma che fa? Che le salta in mente?” Vorrebbe gridare Simonetta. E’ alla caccia di un’energia che non ha, che non si sa dare. Finisce per calmarsi e per andare incontro agli eventi. Si accerta che l’orsa delle nevi non ha pugnale. Pretende di conoscersi e di capirsi ingollando un paio di bicchieri di wodka. Ubbidisce alla mano forte e decisa, d’una crudeltà persuasiva di chi è padrona della situazione.
“Bevi, ti farà bene” fa la donnaccia. Sembra calzare un colletto d’acciaio. Simonetta manda giù. Il caldo la fa sentire dentro una giacca attillata. Le acque dolci del suo mare si sollevano con pauroso rigurgito di spume e spruzzi.
Dove sono? Con chi sto? Balbetta. L’altra la fissa col nero pupillare delle belve che hanno a lungo conosciuto la cattività. Le strappa i vestiti, la sottana, il body, impazzisce letteralmente quando anche le mutande calano e si arrotolano sulle ginocchia. Un fioco clandestino riverbero di passera traspare. E’ un ricciolo di burro, un cirro, un fiocco, ha l’appetibilità della bruschetta cosparsa di marmellata. Due mani temono la rivelazione e pudicamente la ricoprono. Gesto involontario. Succedeva anche durante la visita di leva. La cameriera non vuole veli. Il peso della sua autorità glielo consente. Allontana le tapparelle.
Ora, sono tutt’e due nude. Due diversi profili. Entrambe belle. La sola coscienza diversa.
La cameriera è una prestigiatrice oscena e reietta; Simonetta è un birillo senza alcuna autorità.
“Sdraiati sul letto” scandisce la lesbica a Simonetta.” Ti farò vedere se non sono geniale!”
Simonetta è docile, pacata, impossibilitata a dare un ricambio alla sua intelligenza, acconsente. La cameriera recita, divaga, dribbla, si arresta, ha degli intuiti, monologa,dardeggia.
“Ahi, mi fate male!” Boccheggia il mio eden. La belva è facilmente feribile e impone il silenzio. Nell’abbazia sono iniziate le funzioni e non si parla. L’organo suona lo Stabat. La tastiera è un balocco nelle mani del pianista. Le note si rincorrono, si arrestano, singhiozzano, ridono, piangono, si solleticano. La musica ondeggia, s’alza, s’abbassa, è incerta, poi rassicurata, aumenta di volume, si perde nella cavatina.
E’ tardi quando la lesbica soddisfatta va via dalla suite. Simonetta ha fatto la fine del fringuello nelle grinfie del falco. Per un miracolo non è rimasta eviscerata. Io ritorno a lei mentalmente. La sua ombra lunga e pietosa è di cerva che ha subìto pedinamenti e ferite. E’ viva per miracolo.
Via. Me la vorrei portare via sulle braccia. Nuda scempiata insozzata è un angelo biondo dalle grandi ali spuntate. Come si fa a non provare tenerezza!
Ma lei vuole attendere. Aspetta di vedere Venezia alla luce mattinale, libera degli umidori e delle caligini della notte. Ci terrà a farsi servire la colazione in terrazzo.