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Isabella Lanzafame
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Isole della Laguna - narrativa
Secondo classificato
Isole della Laguna
-Narrativa-
Dal 2016 navigo per la Laguna di Venezia: inizialmente su di un sandolo a remi, dotato di vela al Terzo.
Da qui la passione per questo modo di girovagare,mi ha permesso di scoprire le numerose isole del nostro territorio, spesso disabitate e sconosciute ai più.
Quest’anno ho acquistato un topo da un pescatore, che l’ha dovuta cedere a causa dell’età avanzata.
Mi alterno quindi nel tempo libero, su tre barche veneziane, che possiedo.
Sono una maestra elementare e di fatto i ponti, le festività, i fine settimana, li trascorro a bordo, dormendoci, mangiandoci, anche d’inverno: sempre esplorando,veleggiando, vogando, regatando, compiendo viaggi da un capo all’altro della Laguna, anche per più settimane senza sbarcare (Grado, Barbana, Punta Sdobba, Montiron, Casse di Colmata, ecc )
Isole della Laguna
-Narrativa-
IL MIELE DI SANT’ ERASMO E DI SAN MICHELE          





Questa è una storia che non dovrei raccontare, perché narra di un qualcosa di illegale che è stato fatto. Eppure a volte esistono casi nei quali la morale umana va al di sopra di ogni legge scritta e trascendere le norme crea un bene maggiore che aderirvi.
Ho serbato a lungo queste vicissitudini dentro di me, ma oggi, dopo tantissimi anni ormai, qualcosa mi spinge a tirarle fuori. Forse a causa di questa giornata particolare, in cui vedo celebrato il Giorno della Memoria, attraverso frasi commuoventi ed immagini strazianti. Non voglio dare un’immagine terribile di ciò che accadde, ma trasmettere solo la parte più dolce: quello che l’amore e l’amicizia delle persone può fare.
Ogni venerdì pomeriggio, prendo il vaporetto e mi reco a San Michele, per raggiungere una modesta tomba e adagiarvi un fiore. Poi per un po’, mi piace smarrirmi volutamente all’interno dell’isola, visitare la splendida chiesa rinascimentale, vedere il suo soffitto a cassettoni, con fiori dorati, che ogni volta mi lascia a bocca aperta…
D’estate sento protezione e frescura all’interno della Cappella Emiliani, circondata completamente dal marmo. Poi…cammino sotto le arcate del chiostro, mi siedo tra le sue colonne, a riposare e a pensare. Penso a quanto è stato fin da sempre importante il dar un degno luogo di sepoltura e celebrare il “passaggio” dei propri cari per credo gran parte del genere umano. Penso alla meraviglia del sarcofago “Degli sposi” etrusco, la cui forza dell’amore coniugale giunge a noi. Mi viene in mente il pianto di Priamo, per la morte del figlio, quando si spoglia di ogni regalità e si getta supplicando ai piedi di Achille, per chiedere almeno il corpo da seppellire. E’ un vecchio ormai, ma affronta ogni rischio entrando nell’accampamento nemico, pur di avere un luogo dove poter versare le sue lacrime e garantire il passaggio nell’aldilà a Patroclo, con il rito funebre della pira.
E’ una cosa indispensabile anche ai giorni nostri: quel bisogno di sapere che non tutto scompare con la morte, ma esiste almeno un marmo, una frase, un’immagine, un luogo dove recarci e che permetta di poter sentire anche fisicamente vicino, chi non c’è più e di poterlo andare a trovare.
Avevo 12 anni e abitavo a Venezia, nel quartiere del Ghetto, quando tante cose improvvisamente cominciarono a mutare: da un giorno all’altro non si poteva più andare a scuola e dovevamo indossare la stella, cucita sul petto. Io piansi al pensiero di non poter continuare a vedere le mie compagne di classe, alle quali ero tanto affezionata, ma i miei genitori mi dissero che in quel momento non c’erano soluzioni, forse tutto sarebbe tornato come prima, col tempo. Poco dopo dovetti separarmi da loro. Mia madre mi spiegò che erano costretti ad allontanarsi da Venezia, ma compiere quel viaggio tutti assieme, sarebbe stato troppo pericoloso. Per quanto mi volessero bene, dovevamo dividerci, altrimenti avremmo rischiato la vita. Per me fu un trauma: che cosa stava accadendo? Eravamo sempre stati così uniti! Mio padre cercò di rincuorarmi: avrei dovuto prendere tutto come una bella vacanza: mi avrebbero portato da una coppia di amici a Sant’Erasmo, solo per un po’ dovevo del tutto scordare il mio vero nome: per chiunque sarei stata Evelina.
Ci abbracciammo per l’ultima volta, poi un signore, con la barca mi venne a prendere.
Aveva un vecchio cappello a tesa larga, una camiciola a quadretti e delle mani sproporzionate con il resto del corpo magro. Mi rivolse un sorriso aperto :“Piacere, sono Giuseppe, ma mi puoi chiamare Beppe. Ora faremo questo gioco dove tu per un po’ sarai Evelina, la principessa di Sant’Erasmo. Vedrai è un posto bellissimo e ti ci troverai bene”. Vogando con calma mi raccontava tantissimi aneddoti: mi parlava del loro cane Anselmo, di sua moglie Grazia, ma soprattutto delle sue api. “Sono un apicoltore, ti insegnerò ogni trucco del mestiere”. Scesi dall’imbarcazione, camminammo lungo un vialetto che ci condusse ad una casa di campagna. Quello che riconobbi come Anselmo, uno spinone di color nero, con folti peli che gli coprivano gli occhi, mi corse incontro scodinzolando con la lingua fuori, curioso e fiducioso. “Ciao, io sono Grazia, hai fatto un buon viaggio?” Mi chiese una donna, smilza come il marito, con un lungo grembiule che le arrivava fino a terra ed i capelli raccolti dietro, sulla nuca. Aveva gli occhi azzurri, un po’ arrossati. Mi diede una mano nel prendere la mia valigia :“Vieni, ti faccio vedere la tua camera”.
Mi portò all’interno della casa: una grande cucina occupava tutto il pian terreno. Le credenze e le mensole di legno erano dipinte di bianco e di verde. “Ti piacciono questi mobili? Pensa, li ha fatti tutti Beppe, con le sue mani, ha fatto anche quelli delle stanze di sopra”. Si ammutolì, salimmo le scale e la donna si fermò un istante prima di girare il pomello di una porta; tirò un sospiro e l’aprì. Entrai incuriosita: era una bella cameretta, pulita ed in ordine: il letto rifatto, un orsacchiotto di peluche adagiato accanto al cuscino, un piccolo tavolinetto davanti ad una finestra che dava sul cortile. Tutto era molto semplice, ma carino: “Mi piace tanto!” esclamai girandomi a guardare la donna. Lei mi stava fissando in quel momento come se fosse trasognata, poi si scosse e mi disse di disfare con calma le mie cose. “Non ti preoccupare se ti manca qualcosa, molti vestiti li troverai dentro all’armadio, li puoi indossare senza problemi, credo che ti andranno bene”.
Passai dei mesi sereni; mi mancavano moltissimo i miei genitori, ma Beppe e Grazia facevano di tutto per essere cordiali con me e non farmi mai annoiare. Lei mi insegnava a fare le torte, l’aiutavo nello stendere il bucato e mi portava con sé quando si recava da qualche vicina a scambiare due chiacchiere. Ben presto conobbi gli altri ragazzini abitanti dell’isola: ci trovavamo per fare le cose più disparate: costruivamo archi con i rami flessuosi degli alberi, per giocare agli indiani e mi insegnarono a tirar con la fionda. Nelle belle giornate di sole facevamo tuffi dalla riva, gareggiando a chi riuscisse a sollevare più schizzi d’acqua. Beppe mi portava con lui dove teneva le arnie, in un angolo dell’immenso giardino, dove crescevano dei tigli. All’inizio ero molto spaventata e non volevo avvicinarmi. Lui lo faceva indossando una specie di tuta gialla, dei guantoni sempre dello stesso colore ed un copricapo con una retina per poter vedere. Lo faceva sembrare goffo, grasso e molto buffo. Dopo un po’ di giorni presi più coraggio ed indossai anche io quegli strani paramenti. Le api brulicavano dentro al telaio che Beppe estrasse dall’arnia e mi porse. Non avevo mai visto una cosa del genere: sembravano camminare le une sulle altre senza uno scopo “Sono esseri molto intelligenti, guarda, questa con quel puntino è l’ape regina! E’ importante come lo stai diventando tu qui, so che ti stai facendo in breve tanti amichetti ed amichette nuovi. La principessa di Sant’Erasmo!” Mi sorrise, con affetto ed incominciai a provarne anche io per lui. Imparai come è fatto un favo, come affumicare le api senza far loro del male, per intontirle ed estrarre il miele, quando questo è poco e loro proprio non ci stanno a farselo portare via. Grazia mi insegnò a lavorare la cera, per creare candele, che poi vendevamo assieme al miele, quando ci si recava in quello che, mi sembrava davvero minuscolo, come mercato. La donna, alla sera, quando uscivamo a raccogliere le uova nel pollaio, si attardava a camminare nel giardino: finivamo sempre nello stesso punto, nel lato più estremo, accanto alla siepe. Lì amava sedersi, a volte parlavamo, altre stavamo in un silenzio senza imbarazzi, ad ascoltare il canto delle cicale. In qualche occasione, le ginocchia raccolte tra le braccia, si intristiva, fino ad avere gli occhi lucidi e velati. Poiché avevo preso a volerle del bene, cercavo di raccontarle tutto quello che mi veniva in mente della mia vita di prima, a Venezia, ma non sempre funzionava. Un giorno eravamo io e suo marito, come spesso ormai avveniva, nell’angolo dove il ronzio degli insetti era una dolce musica lieve e costante, intenti a lavorar sulle arnie. Arrivarono d’improvviso tre soldati tedeschi, senza che quasi ce ne fossimo accorti, troppo concentrati nelle nostre attività e con il rumore delle api che aveva coperto il loro sopraggiungere. Il cuore mi saltò sul petto, non so se avevo più paura, perché lo sapevo benissimo che loro erano i cattivi, o rabbia: a causa loro, da tempo non avevo più notizie della mia famiglia. “Evelina, vai a chiamare la mamma” mi disse Beppe. Feci cenno di sì. “Non ce bisogno, ci hanno detto che voi produrre del miele e siamo venuti a prendere, perché il nostro Capitano non trova da nessuna parte. Gli serve per Milk, per colazione, ma non trovare proprio da nessuna parte. Solo qui ci hanno detto essere” Avevano un accento duro, antipatico. Si fecero accompagnare fino al magazzino e oltre al miele, portarono via tutto quello che riuscirono a prendere, poi se ne andarono rapidamente come erano arrivati.
A parte quell’episodio il resto del tempo scorse senza incidenti. Ero come in una bolla di sereni giorni che si susseguivano con tanti odori, colori e cose che non avevo mai visto. Tutto era uno stimolo costante ad imparare da un mondo che pensavo non così distante dalla mia scuola, dalla mia casa, dalle calli e dalle botteghe che conoscevo nel Ghetto, eppure tutto era così diverso. Molte giornate, le passavamo anche in barca a pescare, talvolta anche Grazia si univa a me e a Beppe, reggendo la togna.
Mi sembrava di essere sospesa nel tempo.
Poi, un giorno arrivarono i miei genitori, apparvero come in un sogno e mi riportarono a casa, fra abbracci e saluti generali. Qualche decennio dopo, non pensavo più a quegli avvenimenti da tempo, quando mi recai al Cimitero di San Michele con mia madre, per portare dei fiori ad un’amica di famiglia, che era mancata da poco. Dopo la preghiera sulla lapide, mia mamma invece di imboccare il vialetto d’uscita, si diresse verso un’altra piccola tomba, non molto distante. Tolse via alcuni fili d’erba che erano cresciuti intorno, con delicatezza. Nel marmo, una foto in bianco e nero mostrava una ragazzina con delle lunghe trecce, vestita di un semplice grembiulino che ci fissava seria, seria: “Evelina, 1932-1944”
“Ricordi?” mi chiese mia madre. Quel nome mi riportò di un balzo indietro nella memoria. Mi raccontò che Beppe e Grazia avevano perso la loro unica figlia a causa della polmonite. Era il periodo in cui i tedeschi facevano anche qui da noi i rastrellamenti e portavano via le persone. Pur distrutti dallo strazio, avevano fatto una scelta che ha dell’incredibile. Siccome la giovane era spirata in casa, non avevano dichiarato da nessuna parte la sua morte e l’avevano segretamente, tumulata in giardino. Questo per tenere i documenti e poter dar salvezza a qualche povera ragazzina ebrea come me, che potesse spacciarsi per lei. Credo che sia un’enormità, perché sfidarono tutte le leggi: razziali e non.
Dovettero, per far questo, rinunciare a far fare la messa per la persona che più dovevano aver amato sulla terra …  Loro che erano stati così semplici, umili e sembravano esseri sottomessi a tutto. Camminando, ora, che sono vecchia, nel viale che porta alla tomba di Evelina, ci penso ogni volta: forse i suoi genitori pensarono di trovar sollievo nel dolore, sapendo che la sua morte non era avvenuta invano, ma per salvare un’altra vita.
Col tempo, poi, in qualche modo, passato quel periodo tremendo, i miei genitori riuscirono a farla seppellire qui, a San Michele per darle un degno luogo di riposo.
Vedo tutte quelle foto che circolano sull’Olocausto e rabbrividisco, ripensando ogni volta, a cosa sono scampata. Io sento il bisogno ogni settimana di venirla a salutare e ringraziare. I suoi occhi mi guardano: per un po’ io sono stata lei e sento che parte di lei continua a vivere in me.
Quando il sole tramonta in giornate particolari, l’acqua, l’isola del Cimitero ed il cielo, assumono il color del miele: penso che sia il modo di Evelina, di ricambiare il mio saluto.
Orti dei Dogi
-Narrativa-
I RACCONTI DELLA LUNA                                                                                





Questa notte la luna è uno spicchio orizzontale: mi ricorda molto la mezzaluna sulle cime delle moschee musulmane. Mi piace stare qui seduto ad osservarla, nel silenzio e nella pace della sera: le incombenze del giorno sono terminate, il rumore dell’andirivieni di imbarcazioni che percorrono il canale verso Burano cessa. Cessa il chiacchierio dei turisti che sono sbarcati, hanno visitato l’isola e sono ripartiti, portati verso altre mete da un barcone, il suono delle loro risate sempre più fievole, allontanandosi. Cessa il fragore dei barchini impennati sull’acqua, veloci come razzi, a dar sfoggio dell’abilità di un’incoscienza tipica dell’adolescenza. Cessa persino il frinire delle cicale, che ha fatto da nota musicale di sottofondo per tutta la giornata. Il campanile batte gli ultimi ritocchi e mi godo un momento tutto mio, seduto accanto all’ultimo cipresso, tra quelli disposti lungo il vialetto di ghiaino, che scortano il viandante sino al nostro monastero.
Quante cose mi ha raccontato la Luna in innumerevoli serate come questa, mentre osservo la leggera e piacevole brezza che increspa l’acqua della Laguna. A volte piena, traboccante nel cielo, mi ha narrato di giovani amori impossibili; in altri momenti rossa, minacciosa,mi ha raccontato di cruente battaglie tra uomini a cavallo. La falce piena,color latte mi ha parlato del lavoro nelle campagne, del calore nelle stalle tra le mucche; dorata mi diceva invece della fatica dei contadini sudati a trebbiare il grano, in paesi lontani.
Stanotte mi porta in luoghi ancora più esotici e mi fa pensare a come, noi uomini, siamo comunque tutti molto vicini, quando simultaneamente da luoghi diversi, alziamo lo sguardo per ammirare rapiti la nostra comune Luna. Mi porta distante, fino alle mie misteriose origini, delle quali ho deciso di scrivere. Sono stato fortunato, poiché mi è stato affidato uno dei compiti più belli ed importanti: quello di poter utilizzare la penna. Negli anni ho potuto tradurre dal greco, dal latino, dall’armeno, numerosi manoscritti che mi sono passati per le mani e apprendere una moltitudine di conoscenze e di informazioni: descrizioni di erbe medicinali e di come dosarle per creare decotti e unguenti, antiche preghiere su testi sacri, atti notarli e contabili che narrano di commerci, compravendite, viaggi in altri Paesi. Tiro fuori la mia stilo e un piccolo quadernetto di appunti.
Col tempo  e con le svariate letture, ho compreso come la penna possa essere un’arma, peggiore di uno stiletto: con una denuncia, con una condanna, si può distruggere un uomo. Può divenire scalpello, incidendo tratti dell’animo umano o pennello, descrivendo finemente le sembianze delle persone…
Fra’ Girolamo ha gli occhi azzurri, piccoli e vicini. La sua bocca è larga come lo è il suo cuore e sempre propensa al sorriso. I pochi capelli gli ricrescono ancora castani, nonostante la mezza età, molto oltre le tempie. Il collo è taurino, solcato da pieghe. La sua corporatura denota il suo unico peccato: la gola. Non poteva che essere il nostro cuoco. Alla mattina scende  nell’orto per scegliere con cura le verdure che ci servirà in refettorio. In cucina è ingegnoso e alacre. Scambia allegre battute con chiunque di si affacci un attimo dentro per un saluto o una comunicazione. Se qualcuno del nostro ordine è malato o intristito, o ricorre quel giorno il suo compleanno, ecco che compare il piatto preferito del frate in questione.
Frà Lorenzo è evanescente come l’aria, alto, con la barba, i capelli neri folti e ricciuti e gli occhi dietro ad un paio di occhialini tondi color rame. Passeggia nell’ombra degli alti cipressi, con un libro in mano, oppure le mani dietro alla schiena, perso in profondi pensieri. Si capisce che sta sempre rimuginando su qualche dubbio: una profonda ruga verticale gli attraversa la fronte, fino alla congiunzione con le sopracciglia. Procede; poi si ferma a raddrizzare i rami di un oleandro; prosegue. Pare che non faccia altro tutto il giorno: suo è il compito di manutentore del giardino: tagliare l’erba, potare le piante, annaffiarle nei giorni di torrida calura estiva. Tutto in effetti è sempre perfettamente in ordine. Ci chiediamo come faccia, perché è proprio un mistero, regna sempre il silenzio, non si ode alcun rumore e vediamo solo la sua figura intenta nelle sue congetture camminare serenamente e lentamente. Siamo arrivati a credere che sia San Francesco stesso a dargli una mano per sbrigare tutto.
Frà Paolo accoglie con la sua magra e dritta persona i turisti che suonano la campana per accedere al convento e visitarlo. E’ un dotto, conosce meglio di tutti la storia dell’isola e nessuno come lui, riesce a raccontare ai visitatori aneddoti sempre nuovi che la riguardano. Li accompagna nel chiostro più recente, rispondendo con dovizia di particolari ad ogni domanda: si intuisce quanto ami questo luogo, per come ne descrive sfaccettature mai ripetitive, nonostante la quantità di persone, che soprattutto con la bella stagione, sbarcano qui per un paio di ore. Ha corti capelli brizzolati, occhi castani profondi, riesce ad avere un portamento elegante, pur dentro al saio.
Frà Stefano cura l’orto, chiacchiera con Frà Girolamo quando questi vi accede per prelevare qualche cipolla o cespo d’ insalata e poi torna a zappare o a seminare, a seconda della stagione. Col topo fa la spola verso altre isole, per vendere i nostri prodotti o approvvigionarci di ciò di cui necessitiamo. E’ sempre felice di muoversi sull’acqua tenendo salda la barra del timone, mentre la tonaca gli svolazza indisciplinatamente.
Ecco, mezza pagina e descritta quasi per intero la nostra minuscola serena e semplice comunità.
Io mi occupo di gestire i rapporti con il mondo esterno, ma in ogni istante libero, appunto, mi dedico nel tradurre libri antichi che giungono dall’Isola degli Armeni, o da altre svariate parti. Come dicevo è una cosa che mi affascina e mi ha dato molto. Ogni tanto scrivo per me, per buttare fuori i miei sentimenti, i miei ricordi o le immagini, quando si fanno troppo pressanti nella mente. Non scriverò mai un libro: credo che mettendo assieme tutte le sequenze di parole che ogni abitante della Terra possa aver prodotto, di non aver nulla di nuovo, originale o sapiente da poter tramandare. Ma mi diletto così, come stanotte.
A fatica si scorgeva un solo fioco chiarore della Luna piena,nel gennaio di 36 anni fa, poiché una folta nebbia aveva intessuto una trama impalpabile ovunque. Dal lato del canale ove di consuetudine si può ormeggiare, non si arrivava a scorgere l’altra sponda. Dopo la preghiera, nella piccola cappella del Santo,i monaci si accingevano a riunirsi per la cena. Fu proprio Frà Paolo, già abitante del monastero a quei tempi, essendo il più giovane di tutti, che si offrì di uscire per controllare che l’acqua della fontanella, che da sempre adorna il sentiero e offre ristoro d’estate, fosse stata ben chiusa. Uscì nell’oscurità, armato di una torcia, ma arrivato alla fontanella, udì un debole sciabordio. Si sforzò di guardare attraverso la cortina densa e umida, ma davvero era impossibile scorgere alcunché. Attese fermo, quindi, finchè non cominciarono a profilarsi due remi, mossi all’unisono da un’ombra. Pian piano apparve alla vista anche la sagoma di un’imbarcazione. Il fraticello si avvicinò all’anello di ormeggio, per aiutare nell’attracco chiunque si stesse avvicinando: come pensare di negare ospitalità e ricovero con un tempo ed un freddo come quelli? Nessuno si era arrischiato a farsi vedere in Laguna già dal primo pomeriggio, proprio per le condizioni proibitive ed ogni frate aveva continuato a svolgere ciascuno la propria attività, attendendo con gioia il momento di potersi riunire nel calore del refettorio, quando in serate come quella, ci si poteva concedere un mezzo bicchiere di vino e si conversava, prima di recarsi ciascuno nella propria cella. Illuminato sul volto dalla luce del giovane religioso, il rematore, giunto alla riva, tirò giù il cappuccio che in buona parte ricopriva il suo capo. I capelli e la barba lunghi, nerissimi, erano umidi e pendevano imperlate di gocce d’acqua. Gli occhi pure erano più scuri di tutto ciò che vi era attorno. Frà Paolo si districava nel cercar di comprendere se aveva davanti, in quel momento, un Santo o un Demone:” Buona sera”disse, “L’aiuto a scendere”. L’uomo rispose con una parola incomprensibile.
“Scusi, non ho ben capito: è da queste parti?” Il forestiero questa volta, disse una frase,in un’altra lingua, che il monaco non comprese. A parte per lo strano aspetto e per la strana serata in cui questo personaggio era apparso come in un sogno, il fatto che parlasse un’altra lingua, invece non sorprese il giovane: Venezia, fin dai suoi albori brulicava di umanità, proveniente da ogni parte del mondo. Ogni storia, ogni situazione era plausibile in quell’intreccio cosmopolita che da secoli sussisteva. Condotto all’interno del convento, passato il primo chiostro, il pellegrino, o uomo smarritosi che fosse, fu condotto all’interno del secondo chiostro,molto più antico, del ‘400.
“E’ appena arrivato, ma non ho compreso il suo nome, anzi, non credo di aver capito neanche il resto” disse Frà Paolo ai commensali, che già seduti a tavola si girarono simultaneamente verso di lui ed  il nuovo venuto. Fu fatto prontamente posto e aggiunto un piatto per servire la zuppa ancora fumante. Il Padre Superiore cercò di intavolare un discorso: “Da dove venite?”
Ma lo straniero non pareva appartenere a nessuna delle etnie conosciute dai religiosi, la sua risposta rimase incomprensibile a tutti. Aveva la pelle molto scura, da forte esposizione al sole, solcata da migliaia di piccole rughe, seppur l’età non pareva essere così avanzata. La cosa singolare per tutti, come fu fatto racconto del suo arrivo, è che sapesse vogare perfettamente alla valesana, una prerogativa tipica delle nostre località. E poi: da dove poteva aver preso la barca? Dove era diretto? Furono tutte domande senza risposta. Tutti i frati provavano una sensazione di  inquietudine, guardando negli occhi lo strano figuro. Erano neri, lampeggianti come dei tizzoni ardenti, quando li alzava, per comunicare, ormai a gesti, una qualche risposta e si illuminavano alla luce delle fioche lampade. Penso che nessuno, spinto dalla curiosità, riuscisse a capire se davanti a loro era giunto il Demonio in persona, nero come la pece, dall’animo corrotto o un penitente provato da chissà quali fatiche. Quell’essere ambiguo dava spazio a pensare a tutto ed al contrario di tutto. Ognuno tentò di mettere in campo le proprie abilità linguistiche, ma senza grandi risultati. Non fu una cena allegra come al solito, tra il tentativo di includere l’ospite nelle conversazioni e la frustrazione del non riuscirci. Prima che il Padre Superiore potesse offrirgli una cella per la notte, l’uomo si alzò deciso, senza dar spazio alle varie insistenze per farlo rimanere, si congedò stringendogli la mano e mormorando, guardando tutti gli astanti, altre parole incomprensibili. Cercarono di scortarlo fuori, nell’aria pungente, trasudante microscopiche particelle di acqua, goccioline minuscole impregnavano ogni cosa: abiti e corpi. Accodati, per illuminargli almeno la via,tutti quasi correvano per tenere il suo passo. Balzò sulla barca, mollo’ la cima d’ormeggio, mentre ancora increduli, i frati, cercavano di scrutare la nebbia dove in capo ad un paio di vogate egli scomparve del tutto. Fu allora che il lume di Frà Paolo illuminò per caso un fagotto nell’erba. Gli altri gli si fecero attorno. Il Padre Superiore lo svolse: dentro c’era un neonato dagli occhi neri, che contraccambiava sicuro e solenne i loro sguardi: ero io. Fu proprio per l’eccezionalità del mio arrivo in convento, che col tempo sono stato tenuto sempre più in considerazione e crescendo, mi è stato affidato l’incarico che tanto amo.
Poggio la penna e osservo rapito i riflessi argentei di questa Luna storta, estiva davanti a me, così diversa ora, da quella di quella notte. Sta danzando sull’acqua un ballo esotico, scomponendosi e ricompattandosi dentro le onde, ipnotizzandomi. I miei sono umili scritti, da modesto religioso, ma quante cose grandiose invece racconta la Luna, per chi ha voglia di soffermarsi ad ascoltarla e a prestarle la giusta attenzione. Stanotte ha sussurrato di me, facendomi stare seduto qui, nell’isola di San Francesco del Deserto, a scrivere.


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