Vai ai contenuti
Loredana Losi
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Gran parte della vita dedicata all’impegno politico/amministrativo.
Per diversi mandati amministrativi ho avuto l’incarico di Assessora all’integrazione sociale, alla cultura e
alla pubblica istruzione.
Sono stata anche Presidente del Consiglio Provinciale di Lodi.
Particolarmente impegnata in progetti, anche internazionali, su pari opportunità e contro la violenza di genere.
Attualmente impegnata nel volontariato sociale.
Già presente edizione:







Orti dei Dogi
-Narrativa-
C’ERA UNA VOLTA UN RE                               

      



1 – RACCONTAMI UNA STORIA

C’era una volta un Re seduto sul sofà che chiedeva alla sua nonna  - raccontami una storia -  e la storia incominciò:
C’era una volta un Re seduto sul sofà che chiedeva alla sua nonna  - raccontami una storia -  e la storia incominciò ….
Tutti ricordiamo questa antica filastrocca che va avanti all’infinito e che fa tanto ridere i bambini quando la nonna di turno la inizia a recitare cambiando tono di voce ogni volta.
Come facevo io da piccola anche il mio nipotino ad un certo punto cominciava a protestare.
Voleva andassi avanti nel racconto: qual’era la storia, la fiaba.
La stessa voglia di racconto che bimbi ed adulti esprimevano nelle sere d’inverno, riuniti nella stalla riscaldata dal fiato degli animali, al fabulatore del  piccolo paese di campagna che li intratteneva.
E a intrattenerli non era un semplice cantastorie che si limitava a narrare una storia era proprio un affabulatore cioè una persona in grado di affascinare con la sua narrazione seducente raccontando favole, oppure storie inventate, oppure cronache di tempi passati.
Non inventava nulla, però, quando raccontava le origini del Paese in cui molti dei presenti erano nati, come i loro padri, nonni, bisnonni.
Parlava di popoli antichi come gli Etruschi, i Galli, i Liguri. Diceva loro che erano stati i primi abitanti delle terre in cui vivevano, che avevano lasciato molte tracce del loro passaggio, alcune buone, come la costruzione degli argini, a cura dell’ingegneria etrusca, che proteggevano dalle piene del grande fiume Po che scorreva li vicino, altre cattive come le distruzioni ed il terrore quando dominavano i Galli.
Parlava poi dei Romani che avevano portato un periodo di tranquillità.  
Raccontava che, dove si incrociavano le strade per Lodi e Milano e per Pavia e Piacenza, c’era l’antica Stazione “Ad Rotas” e, vicina a questa, l’importante città romana di Quadrata Padana di cui si erano perse completamente le tracce.
Nei dintorni di questa perduta città, però, e questo lo dicevano gli scritti dell’epoca,  la gente di allora si riunì in piccoli villaggi . Così nacque Senna e in questo paesino fu costruito un piccolo ospitaletto, un piccolo ostello per accogliere i pellegrini e i viaggiatori che percorrevano la vicina strada che portava a Roma.
Finalmente nel lontano 1516, dei Conti molto ricchi (i conti Balbi) fecero grandi donazioni ai monaci Benedettini che gestivano il piccolo rifugio e la chiesetta/cappella vicina, con l’obbligo, però, di costituire nel villaggio la Parrocchia, una chiesa col campanile, di dispensare due volte al giorno la minestra ai poveri.  In questo modo venne alla luce un nuovo Paese, indipendente da Senna che sarà chiamato molto tempo dopo Ospedaletto Lodigiano.
Quella persona che sapeva tanta cose, straordinarie agli occhi della gente semplice del luogo, era mio nonno Luigi.

2  -  LA STALLA GALEOTTA

Nonno Luigi era nato il 23 gennaio del 1876 e i suoi genitori si chiamavano Giuseppe e Domitilla.
Faceva il sarto e amava leggere e documentarsi ma, soprattutto, amava perdersi nelle sue fantasie.
Di famiglia povera aveva imparato il mestiere dal padre Giuseppe che era anche barbiere ed all’occorrenza  cavadenti. Di bella presenza, non molto alto con folti capelli e baffi castani, aveva magnetici occhi verdi ed un sorriso dolce e sapeva parlare.
La stalla in cui la gente si riuniva era di proprietà di una famiglia agiata del paese. Non erano contadini ma gestivano il servizio di trasporti del territorio. Avevano  una carrozza per il trasporto di persone, dei carri per le merci, perfino un’ambulanza e un carro cisterna per lo spegnimento degli incendi.
Nella stalla venivano ricoverati i cavalli, oltre ad una mucca per il fabbisogno del latte della famiglia, un asino e animali vari da cortile.
Nelle serate gelide degli inverni di fine ottocento nella bassa padana potersi riunire per chiacchierare, ricamare, rammendare al calduccio era una manna del cielo, se poi c’era quel bel ragazzo che raccontava così bene attingendo spesso dalle Favole de le mille e una notte…
I padroni di casa o, meglio, della stalla erano una coppia gentile, già un poco anziana (per quell’epoca avere poco più di 40 anni era un traguardo), non avevano avuto figli ma avevano accolto in famiglia una bella bambina, affidata a loro da una Signora di Milano.
Intorno a questa figura si mantenne sempre un riserbo tale da sfociare in un alone di mistero e leggenda.
La bimba, divenuta una bella signorina, piccolina di statura ma ben proporzionata, capelli castani e dolci occhi dello stesso colore, aveva conseguito il diploma di maestra e oltre ad insegnare nella scuola del paese, si adoperava per aiutare gli adulti analfabeti a leggere lettere o a scrivere messaggi .
La Luigina, così si chiamava, era quasi sempre presente negli incontri in stalla dove poteva prestare il suo sostegno con tranquillità.
Luigi e Luigina: due occhi verdi magnetici di un giovane uomo e un sorriso dolce di fanciulla -  come evitare un romantico incontro.
Eravamo però nel 1896 e la distinzione in classi sociali era ancora forte anche se già c’erano sentori di mutamento.
La media borghesia voleva distinguersi dalla classe operaia e un piccolo artigiano che non possedeva altro che il suo lavoro era visto come un semplice operaio.
Per la famiglia affidataria di Luigina, il cui ruolo sociale era sancito anche dall’aver ottenuto dalla Curia la facoltà di sedersi  nel coro della chiesa oltre il transetto, spazio destinato ai cantori e al clero durante le funzioni liturgiche,  consentire un matrimonio con un semplice sarto non era considerato opportuno.
D’altro canto, però, la felicità della giovane donna molto amata e la consapevolezza che l’avrebbero affidata ad un giovane ben voluto da tutto il paese e ritenuto, a ragione, un gran lavoratore , fecero  cadere le barriere sociali.
Forse un peso lo ebbe anche il fatto che il tutore di Luigina, non avendo figli maschi a cui affidare l’azienda, contava di avere un supporto  dall’onesto giovane.
In un piccolo paese di campagna, dove le maldicenze non mancano mai, alla notizia del fidanzamento, non si fecero attendere frasi sussurrate del tipo: <<cosa potevano pretendere i “Signori” per la loro pupilla? Con quei natali così incerti…>>.
<<Certo al simpatico sarto è andata bene, andrà ad attaccare il cappello al chiodo>>.
Tutto questo non intaccò minimamente la serenità dei due giovani.
Il giorno delle nozze, l’8 dicembre del 1896 si fece una bella festa a cui partecipò tutto il piccolo paese, anche le malelingue, e la coppia si sistemò in un’ala della grande casa padronale proprio adiacente alla stalla “galeotta”.


3  -  VITA DURA NELLE CAMPAGNE

Erano tempi agitati quelli: la vita nelle campagne era durissima, sia per “l’obbligato” legato al fondo dal contratto annuale che per “l’avventizio” cioè il bracciante che viveva alla disperata e che veniva chiamato per i lavori stagionali.  
Vivevano in tuguri che non si potevano chiamare case; talvolta non erano neanche abitazioni in quanto si dormiva nella stalla.
Quelle condizioni di vita così misere e le notizie di rivolte dei più umili provenienti da varie zone della  regione non poteva che sfociare in atti di ribellione. Gli scioperi nelle campagne infiammarono gli animi e l’atteggiamento dei proprietari, che era per una netta chiusura nei confronti delle richieste dei lavoratori, provocò la nascita delle Leghe contadine.
Nel 1882 il padronato domandava <<che l’autorità mettesse l’armi al braccio per essere pronta a tutelare eventualmente le persone e le proprietà>>
Viste le precarie condizioni igieniche  la vita media non superava i 35 anni e la mortalità infantile era altissima. Basti pensare che su 1.000 bambini nati, 500 non superavano i 5 anni di età.
A tutto questo si aggiunse la piaga del colera che imperversava anche in quelle zone.
Le lotte dei contadini si chiudevano di frequente con sconfitte, talvolta con risultati meschini.
Il “patto colonico” stipulato in quegli anni venne presto disatteso e le rappresaglie padronali determinarono una rovinosa caduta di credibilità nelle strutture associative.
In molte parti i lavoratori della terra rifiutavano di ascoltare gli attivisti camerali e persino li insultavano e minacciavano.
A rincarare la dose di sfiducia, una lettera molto esplicita dei Vescovi Lombardi contenente indicazioni nei confronti delle azioni rivendicative del mondo contadino: << Allo sciopero, scrivono i vescovi, pur se legittime le domande, non può essere lecito il ricorso quando non siano esperite tutte le vie pacifiche, ed anche in questo caso estremo, è assoluto dovere l’astenersi dalle offese della proprietà.>>
Solo le organizzazioni cattoliche, molto presenti e forti, riuscirono a radicarsi stabilmente. E’ quanto avviene nel lodigiano.



4 -  GLI ANNI PASSANO

Pur attenti a quanto avveniva intorno a loro, i giovani sposi iniziano  serenamente il loro cammino di vita.
Luigi affianca il  suocero nella sua attività e Luigina si adopera per allargare la famiglia.
Saranno dodici i figli nati dalla loro unione ma, come avveniva  frequentemente all’epoca, solo cinque sopravvissero ai primi anni di vita.
Giuseppe, Fernando, Ernesta, Battista e infine a distanza di 20 anni dal primogenito, Carolina Domitilla Virginia - la mia mamma nata il 12 ottobre del 1918.
Nel frattempo le tensioni sociali,  gradatamente, si allentavano grazie all’affermarsi nel territorio del peso delle industrie tessili, soprattutto nel settore cotoniero.
L’industrializzazione permetterà a tante famiglie contadine di integrare il proprio bilancio con altre fonti di entrate. Negli ultimi anni dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale si assisterà a un lento ma costante miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie rurali della zona.
Indice di tale miglioramento è il fatto che la pellagra sparirà (gli ultimi casi di pellagra si riscontrano intorno al 1906) perché evidentemente le famiglie cominciarono a differenziare la loro alimentazione, a mangiare più spesso frutta, verdura, latte e carne.
Anche il comparto alimentare si stava trasformando. Verso la fine dell’800, nel lodigiano, si assiste ad una progressiva industrializzazione del settore e nella prima decade del 1900, grazie al miglioramento delle conoscenze tecnologiche, si verificherà una  costante modernizzazione dei processi produttivi con sviluppi positivi anche sull’occupazione.

Gli anni passano, alla gioia del veder crescere i figli si affianca la tristezza per la perdita dei genitori affidatari di Luigina che, non avendo altri eredi, lasciarono tutto il loro patrimonio a quello che ritenevano a tutti gli effetti loro genero Luigi ed alla amata Luigia.
L’azienda di famiglia deve fare i conti con i nuovi mezzi di trasporto. Nonostante questo, grazie alla stazione ferroviaria, inaugurata nel 1868 sulla linea  Pavia Cremona, che porta commercio, gente nuova,  sviluppo, il lavoro non mancherà.
Purtroppo però la ferrovia porta  anche notizie.
Nelle serate d’inverno, riuniti nella stalla, di rado si raccontano favole, quello che si sussurra è la paura della guerra.

5 -  GUERRA, EPIDEMIA, FASCISMO

La prima guerra mondiale porterà via giovani vite, porterà disperazione e fame.  E, alla fine, quando l’umanità è ormai esausta e prostrata,  aprirà la strada alla terribile epidemia del 1918 la “spagnola”.
Si diffuse ovunque e fu capace di uccidere, nel giro di pochi mesi, decine di milioni di persone in tutto il mondo.
Non più incontri serali nella stalla, imposta la quarantena e la chiusura delle scuole e delle chiese.
Rare le famiglie risparmiate.
Quando i mendicanti bussavano alla porta per l’elemosina, Luigia depositava qualche soldo su una lunga pala di legno che faceva poi passare attraverso la finestra per evitare qualsiasi contatto.
Nelle cascine intere famiglie soccombevano. Morì giovanissima anche la mamma di due piccoli bambini, uno dei quali diventerà il mio papà.
La Spagnola imperversò ovunque  e, dopo aver seminato morte e disperazione, finì assieme alla guerra scomparendo nello stesso modo in cui era apparsa.
Fortunatamente i miei nonni e i loro figli sopravvissero a tutto questo.
Il lavoro, pur se con difficoltà, non mancava, ma quella serenità che aveva accompagnato l’inizio della loro storia insieme si affievoliva ogni giorno di più.
La guerra con il suo carico di morte e fame e la terribile epidemia non potevano che provocare profonde tensioni sociali, rivendicazioni, disordini e violenze e soprattutto vastissima disoccupazione.
Specie intorno al 1919-1920 si assistette a un gran numero di agitazioni (anche violente), scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche.
In questo contesto si concretizza l’ascesa e il relativo aumento del consenso al movimento fascista visto come forza sostitutiva di quello Stato giudicato “assente” e in grado di porre fine a questo tipo di violenze.
Probabilmente, senza questo tipo di consenso, in parte pieno, in  parte critico, il fascismo sarebbe rimasto solo squadrismo, non avrebbe raccolto tante simpatie, connivenze, aiuti, avrebbe fatto meno proseliti, non sarebbe diventato un fatto politico.
Ci volle la strage del Teatro Gaffurio a Lodi del 13 novembre 1919 per far capire a tanti cosa in realtà fosse il fascismo.
Giunti a Lodi  per un comizio, una sessantina di  camerati armati che scortavano il relatore, trovando  all’interno del teatro numerosi socialisti venuti per contestare, iniziano a sparare al grido “Arditi, a noi”.
Tre i morti: due operai di anni 27 e 25 e un muratore di anni 24. Molti i feriti.
«Tocca ai fascisti, agli arditi, ai volontari di guerra: tocca ai cittadini tutti che non sono indegni della qualifica di cittadino, spezzare il giogo di questa violenza. Compito duro ed ingrato, ma necessario. Bisogna assolverlo a qualunque costo, con qualunque mezzo» scrive Benito Mussolini su «Il Popolo d’Italia» il 2 novembre 1919; e ancora, il 5 novembre: <<I Fasci di combattimento, insieme con gli Arditi e i Volontari di guerra, sono decisi a non subire violenze, sono decisi, se qualcuno sognasse di sabotare i nostri comizi, a sabotargli la pelle con argomenti ultra-persuasivi e già sperimentati. >>
Meno di tre anni più tardi, all’indomani della marcia su Roma (28 ottobre 1922), Benito Mussolini riceve dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il nuovo governo.
Nell’aprile del 1924 i fascisti stravincono le elezioni, il 10 giugno, dopo aver denunciato irregolarità nelle elezioni, il deputato socialista Giacomo Matteotti viene ucciso. Le forze di opposizione escono dal parlamento. Il Re non interviene.
Alla fine del 1925, molte libertà degli italiani (come stampa ed associazione) sono ormai soppresse grazie ad una serie di misure per la ‘sicurezza nazionale’. Ad ottobre Confindustria stringe un patto con i sindacati fascisti, escludendo tutti gli altri.
Nel 1926 viene proibito lo sciopero, le contrattazioni di lavoro sono direttamente gestite dallo stato. Nel 1928, alle elezioni i cittadini possono ormai soltanto accettare (o rifiutare, ma senza segreto di voto) i candidati proposti dal PNF.
Nel 1929 i Patti Lateranensi sanciscono l’appoggio del Vaticano al regime.
Viene istituzionalizzata la repressione del dissenso politico; viene reintrodotta la pena di morte e vengono istituiti la Polizia segreta OVRA e il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato.

6  -  “SE POTESSI AVERE MILLE LIRE AL MESE”

Quale fosse il pensiero della nostra famiglia in quegli anni non è ricordato, certamente però facendo parte della media borghesia si può ritenere che l’idea di una forza in grado di mantenere l’ordine e garantire sicurezza non fosse sgradita.
Gli anni passavano e i primi  due  figli maschi, fattisi grandi, più che all’attività di famiglia mostravano interesse per la vita di città ai loro occhi moderna e piena di fascino. Milano era il loro sogno.
Quanto alla sorella Ernesta, diventata una bella signorina, fu presto chiesta in sposa, con sua grande soddisfazione, da un giovane ricco commerciante della vicina cittadina.
Nel luglio del 1937 nonno Luigi finì la sua avventura in questa vita e se ne andò dolcemente come aveva vissuto.
La nonna, rimasta sola, non ebbe la forza di contrastare il desiderio dei figli maggiori di volare verso altri destini. Chiesto quanto spettava loro dei beni di famiglia, se ne andarono a vivere a Milano lasciando quanto restava dell’azienda al fratello più giovane. Lasciavano anche la giovane sorella minore che, a quei tempi essendo femmina, non poteva avanzare diritti.
Vivere nella grande città, per i due giovani, significava emanciparsi da abitudini e regole giudicate arretrate.
Nelle città negli anni trenta le condizioni di vita, rispetto ai primi anni del novecento, erano decisamente migliorate. Comodità come luce elettrica, acqua corrente, e riscaldamento erano sempre più diffuse.
“Se potessi avere mille lire al mese”, iniziava una notissima canzone dell’epoca, segnale che la popolazione guardava al futuro con speranza.
Erano pronti i due fratelli ad affrontare le novità e la frenesia della nuova vita?  Forse si, ma anche forse no.
Soldi in tasca ne avevano, non molti, ma sufficienti a far credere loro di appartenere ad un livello sociale più alto.
Il primogenito Giuseppe, bel giovanotto, conobbe una elegante signorina italo/tedesca di famiglia bene, sempre accompagnata dalla severa istitutrice tedesca che, però, non riuscì ad evitare il nascere di una romantica storia d’amore.
La giovane fraulein introdusse il nostro Giuseppe nel suo mondo fatto di cene eleganti, rilassanti periodi alle terme e pomeriggi al “Camparino” in galleria.
Fernando, invece, non ebbe stessa fortuna. In lui fece breccia il demone del gioco.  La dipendenza dal gioco lo vide girare fra casinò e sale clandestine. Qualche volta vinceva, spesso, sempre più spesso perdeva.
Perse tutto il suo patrimonio. A salvarlo l’incontro con una donna determinata che lo spronò a trovarsi un lavoro onorevole anche se faticoso.

7 – MARIO E CAROLINA

Nel frattempo, la sorella minore era diventava una splendida signorina.
Capelli ondulati di un caldo color castano e profondi occhi verdi ereditati dal padre.
Un sorriso dolce e un carattere vivace, facevano di Carolina Virginia Domitilla una ragazza che non passava certo inosservata.
Erano diversi i giovanotti che cercavano di farsi notare ma uno in particolare  aveva attirato la sua attenzione.
Era il fratello maggiore di 2 fratelli e 4 sorelle con le quali Carolina aveva stretto amicizia: occhi azzurri e sorriso da furbetto, si pavoneggiava con la sua bicicletta con la quale partecipava alle gare ciclistiche della zona.
Insieme ai suoi due fratelli era conosciuto in zona per appartenere ad una famiglia in odore di antifascismo.
Il padre Carlo, molto noto ed apprezzato nel territorio per il suo lavoro di casaro, si era sempre rifiutato di iscriversi al partito.
Sceso dalle montagne bergamasche insieme al fratello dopo la tragica morte dei genitori nell’incendio che distrusse la loro casa, nonno Carlo si stabilì nel basso lodigiano e, grazie all’esperienza maturata in montagna nella produzione dei formaggi, non ebbe difficoltà a farsi apprezzare.
Il fratello morì giovanissimo insieme a tanti, troppi ragazzi nella Grande Guerra.
Sposatosi con la bellissima Santina, ebbe da lei due figli maschi: Francesco e Mario.
Santina se la portò via la “Spagnola”  giovanissima. Lasciava i suoi due bimbi di 3 e 2 anni.
Di carattere forte, non si lasciò sopraffare dalle tragedie famigliari, si risposò con Luigia una giovane ragazza padovana che, oltre a prendersi cura con amore dei due piccoli, consolidò la famiglia con altri 5 figli: un maschio e 4 femmine.
I tempi non erano certo facili, chi non si piegava al regime rischiava forte.
Un tardo pomeriggio, mentre rientrava a casa sul suo calesse, un manipolo di camicie nere lo bloccarono e scaraventarono lui e il calesse nella vicina roggia.
Ferito, ma non certo spaventato, il nonno Carlo non si lasciò domare e la tessera del fascio non la prese mai.
I suoi 3 figli maschi, Francesco, Mario e Pino insieme alle 4 sorelle Santina, Maria, Teresa e Modesta crebbero nell’assoluto rispetto per il padre e per le sue idee liberali.

Innamorarsi di Mario per Carolina non fu difficile. Difficile fu far accettare dai suoi fratelli un possibile fidanzamento.
In un pomeriggio invernale i fratelli Giuseppe e Fernando, ormai apostrofati come i “milanesi”, arrivarono in paese con l’intenzione di <<fa cambià el cu>> (far cambiare la testa) al giovane Mario e a Carolina.
Il fratello Battista aveva cercato di avvisarli che l’impresa non sarebbe stata facile vista la nomea del ragazzo e dei suoi fratelli ma a nulla valse il consiglio.
Si trovarono nell’unica osteria del paese e dalle parole si giunse ai fatti: i “milanesi” maggiori di età di oltre 15 e 11 anni, si ritrovarono a ruzzolare nella neve alta.
Nel frattempo Carolina si era rifugiata in casa di Mario accolta a braccia aperte dalle sorelle amiche.
Giudicando che tutto sommato questo fidanzamento non era poi così male e che, comunque, a loro ormai importava poco di ciò che avveniva nel paesello natio, i “milanesi” se ne tornarono in città.

8 – L’ITALIA ENTRA IN GUERRA

Siamo negli anni trenta, i mezzi di comunicazione di massa come il cinema e la radio diffondono messaggi rassicuranti controllati dal regime ma la situazione politica in Europa è sempre più difficile.
Nel 1933 la Germania esce dalla Società delle Nazioni, l’Italia ha bisogno dell’appoggio delle potenze Europee e tenta all’inizio di fare da mediatore fra Hitler e il resto d’Europa. Mussolini appoggia la Francia e l’Inghilterra.
La situazione però precipita, nel 1935 l’Italia attacca l’Etiopia e l’anno successivo la Società delle Nazioni la sanziona.  Mussolini si riavvicina alla Germania nazista e nel 1939, dopo l’annessione dell’Albania firma il Patto d’acciaio.
Nel settembre dello stesso anno la Germania darà l’avvio alla II guerra mondiale.  
Il 10 giugno 1940 Mussolini dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra con un discorso pubblico pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia, di fronte a una folla osannante.

Mario, soldato di leva classe 1915, viene “chiamato alle armi” nell’aprile 1936. Finito il servizio di leva torna a casa sperando di poter iniziare il nuovo percorso di vita insieme alla sua giovane Carolina.
Ma le cose precipitano. Nell’agosto 1939 viene richiamato alle armi.
Il 26 dicembre 1939 in occasione del Natale ottiene una breve licenza e sposa Carolina Virginia Domitilla.
Passeranno solo un notte di luna di miele,  la guerra incombe e già a giugno dello stesso anno Mario è in territorio dichiarato in stato di guerra sul fronte francese.
Dal fronte francese viene spostato sul fronte jugoslavo e poi pochi mesi dopo il 3° Rgt. Bersaglieri, di cui fa parte, viene mandato in Russia.
Le condizioni sul fronte russo per il corpo di spedizione italiano sono drammatiche.
Scarsi i rifornimenti e, al sopraggiungere dell’inverno russo, ci si rende conto di quanto sia inadeguato il vestiario dei soldati.
Mario assiste alla morte di molti suoi commilitoni ed amici. Il gelo è insopportabile e costringe ad azioni tremende che turberanno il suo sonno per molti anni a venire.
Nel novembre del 1941 in un’azione di guerra rimane ferito ad un piede, non è in grado di camminare e perde il contatto con il suo reparto.
Capisce che, come è successo per altri suoi compagni, la fine per congelamento è vicina.
Viene salvato, già privo di conoscenza, da dei contadini russi che lo trasportano su un carretto nella loro isba.
Qualche giorno dopo, ripresosi leggermente, riesce a convincere il contadino a trasportarlo all’ospedale da campo più vicino dove viene ricoverato.
Rimpatriato nel febbraio 1942 viene dichiarato guarito nel maggio 1942 e nell’agosto dello stesso anno viene assegnato al 5° Rgt Bersaglieri. Dopo un breve periodo passato al centro di addestramento viene rispedito in zona di guerra in Africa – Tunisia.
Come Caporal Maggiore motociclista porta ordini da un campo all’altro. Perde il suo Capitano falciato dalle mitraglie nemiche in sella alla sua moto. Ricorderà per sempre il corpo dimezzato stretto alla moto che ancora corre.
Viene fatto prigioniero dai Gollisti alla fine di marzo del 1943 e successivamente consegnato alle forze anglo-americane.
Il 13 maggio 1943 l’Armata Italiana  sul fronte dell’Africa Settentrionale, esaurite le munizioni e priva ormai di ogni riferimento si arrende alle forze anglo americane.
Mario verrà spedito nei campi di concentramento in America come prigioniero di guerra.
Lo aspettano insulti, pestaggi e lavoro forzato ad accatastare tronchi nel fango.
Quando scoprono che sa fare il pane (ha visto farlo molte volte dalla madre e dalle sorelle), lo spostano in cucina dove ha modo di incontrare un ufficiale medico dentista italo/americano che si lamenta di non trovare assistenti per aiutarlo a curare i soldati americani di colore.
Gli infermieri bianchi si rifiutano perché dicono che i neri puzzano.
Esagerando un poco la sua infarinatura di pronto soccorso si offre volontario.
Tornerà in patria solo nel febbraio 1946.

9 – CAROLINA

E Carolina ?
A Carolina, come a tutte le donne di quell’epoca, la consuetudine e soprattutto il regime fascista aveva assegnato due compiti ben definiti: dedicarsi alle faccende domestiche, crescere i figli e curare gli anziani.
La guerra però, irrompendo nella vita della gente, aveva cambiato tutto.
Il primo ostacolo da superare per Carolina fu l’autosostentamento .
Dieci giorni prima della dichiarazione di guerra era già stato razionato il sapone duro quello da bucato: 200 grammi a testa al mese. Sono le prime avvisaglie delle difficoltà che la gente dovrà affrontare.
Nell’ottobre del 1940 viene istituita la tessera annonaria. Era un cartoncino grigio, con un numero, il nome e tanti tagliandini che corrispondevano a una certa quantità di pasta, riso, olio, burro, zucchero.
Nel 1941 viene razionato il pane: le dosi acquistabili erano definite e uguali per tutti: la razione giornaliera di pane per persona a cui la tessera dava diritto era stata definita nel 1941 in 200 grammi e nel 1942 in 150 grammi. Piano piano tutto viene regolamentato: anche la vendita delle patate, delle uova, del latte, del formaggio, dei legumi.
Carolina, vivendo in campagna, non soffrirà troppo la fame anche grazie alla famiglia di Mario che aveva, bene o male, di che vivere.
Seguendo l’esempio delle cognate, durante la stagione della coltivazione del riso si impegna come mondina: a  testa in giù immersa nell’acqua e fango fino alle ginocchia  per 12 ore al giorno in compagnia di serpenti, topi, sanguisughe e insetti , a poco più di 14 lire e un chilo di riso al giorno.
Serviva una occupazione più stabile e continuativa.
In quel periodo le fabbriche del territorio, vista la scarsità di mano d’opera maschile a causa della guerra, aprirono le porte alle donne. E’ così che Carolina diventa cappellaia.
Figli non ci sono ancora. Nel febbraio del 1942 giunge la notizia del rimpatrio del marito, con treno attrezzato, diretto all’ospedale militare di Rimini.
Trasferito in luogo di cura territoriale, Mario viene ricoverato all’ospedale militare di Milano con licenza di convalescenza di 60 gg.
Carolina lo incontra finalmente dopo tanti mesi e si illude che il congedo venga trasformato in definitivo.
Come sappiamo non sarà così.
Nell’agosto del 1942 Mario viene rispedito in zona di guerra e Carolina non lo rivedrà sino alla fine del conflitto nel 1946.
Il 21 maggio 1943 nasce la piccola Maria Luisa (Marisa) non pesa neppure un Kilo e le donne che assistono Carolina disperano che possa sopravvivere.

10  -  ITALIA NEL CAOS

La vita quotidiana è sempre più difficile. Il regime fascista scricchiola e fra la gente si diffonde un misto di sollievo e preoccupazione.
Dopo il 25 luglio 1943 con l’arresto di Mussolini la situazione precipita: mancano accordi con gli alleati, manca una decisa rottura coi nazisti. Quella che è evidente è l’incapacità politica di affrontare l’avanzata anglo-americana, con l’incubo dei tedeschi sempre più numerosi e prepotenti in casa.
Nel Lodigiano, lungo la via Emilia e la linea ferroviaria, la gente osservava con paura la grande quantità di automezzi, materiale bellico e uomini che la Germania inviava verso Sud. Si capiva la volontà di rafforzare la presenza militare per contrastare l’avanzata anglo-americana.
La piccola Marisa sopravvive nonostante tutto ma, dopo il drammatico annuncio dell’armistizio fra italiani e angloamericani firmato il 3 settembre e annunciato alla radio la sera dell’8 settembre 1943, cominciarono venti mesi di sofferenze ancor più gravi di quelle provate nei tre anni precedenti di guerra.
La preoccupazione maggiore era per l’atteggiamento che la Germania nazista avrebbe assunto nei confronti del Paese: si temeva che avrebbe sfogato la propria violenza, incattivita contro la popolazione inerme.
Furono in molti, giovani e meno giovani, a incappare nelle maglie della rete tedesca gettata per pescare, nello sbandamento seguito all’8 settembre, il più possibile manodopera coatta da inviare in Germania nei campi di concentramento da dove sarebbe stata reclutata per le esigenze produttive delle fabbriche e delle campagne tedesche.
La tensione si fece ancora più grave nei giorni seguiti all’8 settembre 1943, quando i tedeschi già dal pomeriggio del 9 settembre presero possesso di Lodi e degli altri centri del Lodigiano e il mattino del 10 liberarono dal carcere di Lodi i fascisti che vi erano stati rinchiusi dopo il 25 luglio.

11 – ODIO, DISPERAZIONE, BOMBARDAMENTI

L’esercito occupante ci mette poco a far conoscere come intende rapportarsi con la popolazione: il proclama del comandante delle truppe germaniche, datato 14 settembre 1943, affisso  sui muri di tutti i comuni del Lodigiano imponeva il coprifuoco notturno, la consegna di tutte le armi e munizioni, la presentazione di tutti i militari già in servizio, il divieto di ogni riunione.
Molte furono le tragedie seguite a questo proclama.
Poco lontano dalla casa di Carolina una donna uscita in strada alla disperata ricerca del figlio neppure quindicenne viene falciata dai mitra tedeschi e lasciata a morire in terra fino al mattino come monito agli altri abitanti.
Una sera un gruppo di soldati tedeschi entrano di forza nella casa di Carolina, forse cercano militari italiani in fuga, forse semplicemente intendono sfogare odio e rabbia.
Carolina con  la piccola Marisa è al piano superiore a letto; la bambina non sta bene, piange in continuazione.
Una vicina di casa è presente e con estremo coraggio impedisce ai militari di salire. Entra un ufficiale tedesco e, sentendo il pianto della piccola, ordina ai suoi uomini di uscire.
La cosa finisce con un grande spavento e con un pensiero di riconoscenza per lo sconosciuto ufficiale.

Intanto la vicina Milano  tra il 1942 e il 1944 subisce i maggiori bombardamenti che una città dell’Italia settentrionale abbia mai subito durante la seconda guerra mondiale.
Le incursioni aeree inglesi e americane sulla città furono oltre 60 dall’entrata in guerra nel giugno 1940. Al termine del conflitto risultano più di 600 gli edifici distrutti, 250 mila i senza tetto, oltre 300 mila gli sfollati e circa 2.000 le persone uccise.
Diversissimi gli obiettivi colpiti: strade, edifici popolari, chiese, fabbriche, snodi ferroviari, scuole, edifici ospedalieri, il carcere di San Vittore, il teatro alla Scala e il “Corriere della Sera”.
Alle ore 11,29 del 20 ottobre 1944 l’incursione aerea americana colpisce i quartieri di Gorla e Precotto e le rispettive scuole elementari. Vengono sganciate 170 bombe. Nonostante sugli edifici scolastici fosse issata la bandiera della Croce Rossa una bomba cade sulla scuola elementare “Francesco Crispi” di Gorla uccidendo 184 alunni, 19 maestre più altri 18 bambini del quartiere e 400 civili della zona di Milano Nord.  
I fratelli di Carolina, con le rispettive famiglie, sopravvivono a questo inferno ma, con le abitazioni distrutte, sono costretti a sfollare.
Trovano rifugio dalla sorella che li accoglie nonostante la sua situazione non sia fra le migliori.
Fortunatamente può contare sulla famiglia di Mario che, grazie al lavoro di papà Carlo, stanno un poco meglio di tanti altri.
La convivenza però si presenta subito difficile. Le esigenze alimentari dei “milanesi” sono  più alte. In città si faceva ricorso abbastanza regolarmente alla borsa nera che era un mercato parallelo, illegale ma di  cui molti si servivano. Le due famiglie  non comprendono come si possa vivere senza quel poco di latte in più, l’uovo fresco per i bimbi. Chiedono più zucchero, carne e formaggio, chiedono pane bianco.
Carolina non è in grado di accontentarli, se ne vergogna e chiede sempre più spesso aiuto al Suocero.
A un certo punto però la situazione diventa insostenibile e, pur comprendendo il disagio della nuora, Carlo interviene chiarendo la situazione alle due famiglie pregandoli, nel contempo, o a limitare le esigenze o a spostarsi in altro luogo.
Poco dopo troveranno un’altra abitazione vicina a Milano e vicina ai luoghi di lavoro dei capifamiglia.

12 – NONOSTANTE TUTTO MARIO TORNA A CASA

Il tempo passa ma la fine della guerra è ancora molto lontana.
Durante tutto il 1944, mentre gli alleati avanzano faticosamente, i tedeschi si riorganizzano lungo quella che verrà chiamata Linea Gotica e il loro atteggiamento nei confronti della popolazione civile peggiora ogni giorno di più.
Nei quasi due anni che intercorsero tra l’armistizio e la Liberazione, vi furono oltre 5.500 episodi di violenza omicida perpetrata dalle forze naziste e fasciste, che portarono alla morte di più di 23mila persone. In questi numeri vengono considerate le uccisioni dovute ai rastrellamenti, alle esecuzioni “esemplari”, alle rappresaglie sui civili e agli omicidi per motivazioni razziali avvenuti sul suolo italiano.
Più della metà delle vittime furono civili, la parte restante fu composta soprattutto da partigiani attivi nella Resistenza, da esponenti antifascisti, religiosi e militari.
Oltre 1.500 bambini e adolescenti vennero trucidati.
Per il lodigiano il 25 aprile del 1945 non fu l’ultimo giorno di guerra. Le truppe tedesche erano in ritirata ma non si erano arrese completamente.
Il 26 aprile a Casale, all’altezza della chiesa di San Rocco, si accesero sanguinosi scambi di colpi. Il bilancio di poche ore di combattimento fu di ben nove giovani casalesi morti.
Le ultime vittime, probabilmente, si ebbero sulle rive del Po nelle vicinanze di San Rocco dove il 27 aprile un gruppo di  partigiani furono sorpresi da una retroguardia tedesca e massacrati.

Poi lentamente, giorno dopo giorno la situazione si avviò alla normalità.
La guerra era finita davvero.

Mario viene rimpatriato dalla prigionia il18 febbraio del 1946 e inviato in licenza straordinaria di 60 gg.
Solo il 23 agosto del 1946 viene collocato in congedo illimitato.

La nostra storia si avvia alla conclusione. Mario e Carolina riprendono la strada interrotta dalla guerra.
A Marisa si affiancheranno Carlo nato il 24 dicembre del 1946 e Loredana nata il 7 novembre del 1951.
La tragedia della guerra ha comunque lasciato tracce dolorose e difficilmente dimenticabili.
La spensieratezza della gioventù è sparita e le difficoltà del dopoguerra smorzeranno gli entusiasmi.

Ma questa è un’altra storia.




Torna ai contenuti