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Lucia Lo Bianco
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > leggere lagune - poesia
Terzo classificato
Nata a Palermo, laureata in Lingue e Letterature Straniere e con un MA in Professional Development for Language Education, dal 1993 insegna inglese al liceo. Poetessa, scrittrice, saggista e giornalista. Co-Fondatrice di WikiPoesia, Accademica del Convivio e di Sicilia si è classificata ai primi posti in premi nazionali ed internazionali, totalizzando circa 600 premi in Italia e all’estero.
La sua scrittura ha ultimamente assunto una nota più specificamente sociale, trattando temi quali l’immigrazione e la violenza sulle donne.
Già presente edizione:




Leggere Lagune
È notte nuova a Kiev





Non sembra cielo l’azzurro dirompente
tra il fuoco aperto che illumina le case,
é solo orrore tra cumuli e cemento,
scale crollate e piani sopra il vuoto.
Compare a sprazzi il sole e il suo colore,
pochi sorrisi in smorfie contraffatte,
sguardi di sbieco in fuga tra gli spari,
mani che gridano aiuto nell’ignoto.
Non sembra cielo che muta verso sera
di un blu indistinto che osserva da lontano
come una stella rinchiusa nel suo mondo
che scruta a fondo ma più non sa salvare.
Non sembra più che spunti su la luna
col suo conforto di limpido chiarore,
ha perso luce la falce e il suo biancore
si è dileguato sull’orlo dell’abisso.
Giunge la notte e caldo è il suo profumo
che esala a fiotti dal ventre delle case.
Giunge la notte sospesa sopra il vento
e si disperdono i sogni dentro il buio.

La mia terra profuma ancora di viole

(Dedicato a Franca Viola*)




Sono venuta qui, dove la terra
sposa la luce trasparente dell’aurora
e caldi abbracci vestono i ricordi
di cielo e mare e corse all’infinito.
Sono venuta qui, come Proserpina
giocando con le onde a primavera,
ignara del destino preparato nella notte,
nel regno buio odiato pure dagli dei.
Sono venuta qui e ho visto metamorfosi
di mani e di violenza cieca e bruta
e donne calarsi nelle vesti senza amore
e giorni rincorrersi nel sangue dell’oblio.
Sono arrivata mentre ogni gesto
perdeva profumo ed innocenza
e mille volti oscuri e sconosciuti
spingevano carezze sulla pelle.
Sono rimasta sola ad aspettare
la fine di una storia non voluta
mentre una sorda ribellione
cresceva nelle vene palpitanti.
E adesso sono cristallo di fanciulla
senza sogni, crisalide che attende
la sua forma, tra odori accecanti
e fiori appassiti nel giardino.
Ma la speranza profuma ancora
di viole delicate tra le erbacce
e la mia terra ha i colori della sera
dentro i miei occhi dischiusi di bambina.

*Franca Viola è stata la prima donna a rifiutare nel 1966 il matrimonio riparatore che avrebbe cancellato
il reato di violenza del suo stupratore, contribuendo con la sua decisione a cambiare il Codice.
«Io non sono proprietà di nessuno», disse, «l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce».
L’urlo opaco del silenzio

(Dedicato a Mahsa Amini)


Non avrà voce l’urlo opaco del silenzio
su cime scure perse all’orizzonte
e quelle ciocche nascoste al triste cielo
saranno lacrime stillate in un mattino.
Non avrà suono la voce dentro il vento
bloccata a forza da mani di aguzzino
mentre parole e pensieri voleranno
senza linciaggio crudele di memoria.
E sfioreranno morbidi il selciato
passi lievi e leggeri come foglie,
si stenderanno sogni spenti nella notte
come le rondini apparse nel tramonto
in un disegno distante dentro il tempo.
Non avrà corpo l’urlo libero del petto
che uccide ostacoli e blocchi di cemento,
sarà impalpabile fragranza di farfalla
che svetta piano verso l’infinito.
Ma brilleranno ancora lunghe chiome
come riflessi colmi di calore,
ne più potranno ruvide catene
fermare piccole scarpette già in cammino.
Non sarà opaco più né cupo l’urlo antico
sfumato a chicchi su un perduto arcobaleno
e filigrane di morbida rugiada
saran crisalidi ai raggi dell’aurora.  

Un tappeto di gocce di pianto

(Dedicato a Mahsa Amini)



Ti regalo queste morbide ciocche
e il profumo leggero del vento,
ho parlato alle foglie in un soffio
tra i sussurri dei rami nel bosco.
E il disegno tracciato nel cielo
è un respiro che viaggia nel tempo
mentre libera attendo risposte
tra frammenti di ali spezzate.
La mia chioma si veste di veli
che si aprono varchi nel buio,
mentre danzano biechi fantasmi
come chiodi su croci di legno.
Ma io ho sogni vestiti di notte
che mi spingono oltre il confine
tra libellule colme di luce
che volteggiano senza catene.
E il mio sguardo è un volo leggero
che ha riflessi d’oro e d’argento:
sono stella in fondo ai pensieri
e sirena che guizza nel mare.
Ora solo ricordi bugiardi e recisi
fini e fragili come capelli perduti,
un tappeto di gocce di candido pianto
sotto un soffice chiaro di luna sfocata.

Silenzio di passi a Mariupol



Suoni sommessi in nicchie di trincea,
la notte scorre e dorme anche la luna,
le strade crollano in fosse senza odore
mentre la polvere aleggia sotto il cielo.
C’erano tetti in alto verso il blu
e con le voci danzavano le stelle,
ora soltanto ombre di fantasmi
staccano petali ai fiori già sgualciti.
Poveri resti strisciano nel vento
che non racconta storie al focolare
e i visi mesti osservano nel buio
cercando invano un volo nella luce.
Eppure a tratti scorrono i frammenti
come pellicola ormai dimenticata,
scattano volti, scomposti movimenti
di chi ha perduto la chiave nell’abisso.
Dentro la scatola chiusa del passato
pare si muovano spiriti nascosti,
geni impazziti dentro una clessidra
che nel cristallo ha perso la sua forza.
Piccoli piedi, morbide scarpette
sfiorano l’aria e sfidano gli dei,
cercano invano un senso dentro i sassi
in fondo al fiume che scorre indifferente.
Ed è silenzio, infine, come perla
che i pescatori posano sul cuore,
anime nude, sole, povere e ribelli
toccano il tempo con ali verso il nulla.

Orti dei Dogi
-Narrativa-
La mia voce viaggia col mare





Aveva sempre creduto che il mare parlasse. Sì. Le avevano detto così. Vedrai che ti indicherà la strada dal fondo blu delle sue acque e le onde ti daranno luce, cullandoti fino ad acquietare le vibrazioni della tua pelle. E lei aveva pensato che fosse proprio vero perché si era messa ad ascoltare dal bordo della barca dove stavano ammassati e le era parso di sentire una voce che cercava di confortarla. Poi, lentamente, si era addormentata mentre la mamma continuava a stringerle la mano.
Shamira e sua madre viaggiavano da giorni. Una traversata per terra e per mare cercando di creare le distanze da quell’Afghanistan dove vivere era solo inferno.
“Non riuscirai ad andare a scuola se resteremo qui”, diceva la mamma. “Sei una ragazza”.
E infatti Shamira leggeva di nascosto. Si incontrava con le sue amiche in una casa sicura, dove i talebani non l’avrebbero mai trovata. E lì lasciavano liberi i sogni e le fantasie. Per i talebani una donna non poteva avere fantasie. Una donna non doveva pensare.
Poi un giorno la sede era stata scoperta e i talebani avevano preso la sua amica Jamila e sua madre. Nessuno sapeva che fine avessero fatto. Allora la mamma aveva capito. Bisognava andare. La mamma voleva un futuro diverso per lei, lontano da Herat e dal regime dei talebani.
Organizzare la fuga era stato difficile. Racimolare i soldi di nascosto e senza l’aiuto di papà. Secondo lui bisognava adattarsi e tutto sarebbe andato bene. Poi un giorno al mercato mamma era stata avvicinata da un signore alto e magro, con gli occhiali scuri. A Shamira non piaceva per niente. Avevano parlato di soldi. Tanti, troppi e Shamira aveva avuto paura che non sarebbe più riuscita a ritornare a scuola e sfiorare le pagine delicate dei libri su cui aveva studiato con gioia, fino a due anni prima. La mamma l’aveva presa da parte e le aveva chiesto di collaborare. Erano state costrette a vendere qualcosa a cui lei teneva tanto, ma era l’unico modo. Non ne esistevano altri.
Sulla barca si sentivano ancora i profumi di Herat. Non riusciva a staccarsi dagli occhi il colore della sera che lentamente si dilegua dietro le montagne rendendole trasparenti di un rosa tenue e innaturale. Il grigio polvere delle strade di giorno allora scompariva e lei correva su in terrazza a osservare il dolce declino nel buio che le avrebbe consentito di sciogliersi i capelli liberandoli dal copricapo di pesante tela nera. Amava la notte fresca e purificatrice. Nessuno faceva caso a una ragazza che legge, di notte. Nessuno le avrebbe impedito di vivere in quelle storie di viaggi e di avventure in paesi a lei sconosciuti. Adorava i miti e le leggende e immaginava di trovarsi lì, proprio lì, in quelle strade bianche e assolate, con una leggera brezza che scompiglia le vesti e spingeva il passo in avanti verso magnifici spettacoli naturali in palazzi eleganti, ricchi e fastosi. La fantasia di una ragazza può davvero perdersi per sempre dentro le pagine di una storia così, quasi si trattasse di una scatola magica colma di sorprese.
Una sera però quelle pagine le erano cadute giù, dall’alto muro della terrazza.
Qualcuno le aveva raccolte l’indomani e avevano fatto il giro del quartiere. I talebani avevano cominciato ad andare di casa in casa per chiedere di chi fossero. Con le facce allungate ed inespressive ti guardavano trattenendo qualsiasi emozione e le smorfie accentuate intorno alla bocca non lasciavano intuire niente di buono. Uno in particolare, Abdul, l’aveva puntata già da tempo. Con una piega sul lato destro del labbro carnoso le aveva chiesto quanti anni avesse.
“Tredici anni è una buona età per accasarsi”, le aveva detto poi.
Non le piaceva. Non le piaceva affatto. Shamira non ci pensava per niente ad “accasarsi” con nessuno. Con quel tipo, poi!
Non erano riusciti a risalire a lei, per fortuna, ma tutto era diventato più difficile. Uscire a fare una semplice passeggiata, ad esempio, oppure passeggiare in terrazza la sera. Pensare, osservare il cielo all’imbrunire, perfino sognare si erano trasformati in un miraggio. Shamira e la mamma avevano realizzato all’improvviso che non si poteva più, in quel momento ad Herat, contare sulla possibilità remota che il miraggio diventasse realtà. Loro volevano, esigevano la realtà.
Non avevano fatto in tempo a salutare papà. Non lo sentivano da giorni e lei non riusciva a capire se le mancasse veramente. Si era sempre dimostrato avaro d’abbracci e lei si era rifugiata negli angoli accoglienti del corpo materno che l’aveva generata. Ne conosceva ogni aspetto e odore: solo la mamma era in grado di darle quelle certezze che da un po’ di tempo erano state annientate dal regime dei talebani. Da lei aveva saputo tutto sul passato del loro paese. Leyla, la sua mamma, aveva conosciuto da piccola il regime dei talebani ma poi le cose erano migliorate grazie ad interventi esterni e le donne avevano riavuto la possibilità di studiare e andare a scuola. Nel corso di quegli ultimi vent’anni loro si erano quasi occidentalizzate per ripiombare, ora, nel baratro più buio ed oscuro. Leyla, la sua mamma, aveva deciso che sua figlia dovesse vivere una vita da ragazza normale. Leyla e sua figlia non avevano scelto di fuggire: era la fuga che era venuta a cercarle.
Dal barcone stipato di pelle e di odori Shamira si perdeva nel buio profondo delle acque. Il mare! Vederlo era stata l’esperienza più affascinante della sua vita. Improvvisamente si era ricordata di tutte le storie che aveva letto, nascosta nell’oscurità della sua terrazza, dove i suoi personaggi viaggiavano e si perdevano per mare. Le era capitato tra le mani un libro che raccontava le avventure di un certo Ulisse, un eroe greco che dopo avere combattuto e vinto una guerra lontano da casa aveva impiegato dieci anni per rientrare nella sua patria. Dieci anni! Lei che in quella patria che Dio le aveva destinato c’era nata e cresciuta allora aveva pensato che dieci anni fosse un periodo davvero interminabile. Ma adesso capiva che non sarebbe bastata una vita intera per rivedere il cielo di Herat e colorarlo con il bianco delle sue morbide dita di ragazza, seguendone il filo indistinto fino all’orizzonte. Herat e le sue tinte tenui le avrebbe portate dentro, per sempre.
Ulisse! Che eroe affascinante. Aveva seguito e vissuto tutte le sue disavventure attraverso il Mediterraneo. Appariva davvero inospitale quel mare se riusciva a trascinare l’astuto re di Itaca impedendogli di procedere e intrappolandolo di tanto in tanto in qualche isola sperduta. Sembrava proprio che la mala sorte lo perseguitasse ma la intrigava parecchio il modo in cui non si arrendesse mai, anche di fronte al destino più avverso. Anzi le pareva che riuscisse a trovare la forza di reagire anche nelle situazioni più difficili e impossibili, con o senza l’aiuto degli dei. E le donne poi! Dal piccolo angolino nascosto della sua adolescenza Ulisse si profilava come un principe ricco di fascino, proprio come quello dei suoi sogni, dotato di poteri soprannaturali. Anche per lei ci sarebbe stato un Ulisse che avrebbe scalato il rozzo muro di casa sua per portarla via da quella terrazza dove nascondeva i suoi più intimi desideri.
Quei giorni di stremante viaggio e difficile traversata nel Mediterraneo ormai avevano fatto scomparire qualsiasi esistenza del leggendario Ulisse dalla sua giovane immaginazione. Gli uomini e le donne che la circondavano indossavano il ricordo di vesti che avevano certamente conosciuto tempi migliori. I corpi se ne stavano accasciati senza forze, come chi non riceve le giuste attenzioni da tempo. I primi giorni avevano cantato tutti insieme e Shamira aveva cominciato a disegnare con gli occhi il paese che le avrebbe accolte, lei e la mamma. Si era ricordata di tutte le storie che si raccontavano sull’Italia. Molti suoi connazionali erano riusciti ad andare lì e dopo qualche lettera iniziale non si erano più fatti sentire. Doveva proprio essere un paese bellissimo e lei voleva scoprirlo a poco a poco. Le avevano detto che le donne erano più libere lì, che si poteva andare a scuola, studiare e leggere libri senza essere costrette a nascondersi. Anche lei sarebbe andata a scuola e avrebbe fatto amicizia con ragazze che magari non erano neanche costrette a mettersi il velo. Il viso, gli occhi e la fronte li avrebbe portati con orgoglio e coraggio sotto il sole. Nessun talebano avrebbe potuto impedirglielo.
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Nell’angolo stretto in cui si erano rifugiate vedeva la mamma dormire. Finalmente Leyla era riuscita ad appisolarsi. Doveva essere proprio stanca da morire. Il mare intanto stava cambiando colore. Si era trasformato in un blu notte con striature bianche di spuma che spiccavano per contrasto. Pareva anche che fosse aumentato di volume così da superare a tratti e in misura sempre più crescente il livello del barcone in cui viaggiavano. Improvvisamente sentì una mano che le sfiorava la spalla sinistra. Si voltò e si trovò vicino una bocca carnosa dall’espressione malvagia. Mio Dio! Ma non poteva essere Abdul! O forse era soltanto qualcuno che assomigliava a lui. Ma cosa voleva da lei?
“No! No! Per favore, no! Allontanati! Non voglio!”
La toccava e la strattonava mentre lei tentava d’aggrapparsi alle vesti della mamma che giaceva in stato di semi-incoscienza.
“Zitta! Fai silenzio! Facciamo presto.”
Con una mano umida e maleodorante le tappò la bocca. Ma non l’aiutava nessuno? La debolezza e la stanchezza del viaggio le impedivano di reagire come avrebbe voluto. Si sentì persa, un animale braccato. Una facile preda sconfitta.
L’onda gigante arrivò improvvisa ed imprevista a fare rivoltare la barca. Shamira si ritrovò in acqua mentre scendeva lentamente verso i fondali più oscuri del mare. Le apparvero tutte quelle creature di cui aveva letto tanto e che nei suoi sogni aveva immaginato di incontrare veramente. Le sue fantasie finalmente erano realtà e sentì la propria voce vibrare con le onde viaggiando tra le dune di sabbia fine su cui si ritrovò, distesa, a riposare.
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Dopo l’ennesimo naufragio, dopo l’ennesima tragedia nel Mediterraneo il corpo di Shamira fu l’ultimo ad essere ritrovato sulla costa. Aveva proprio un’espressione felice sul volto.
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