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Vador - Ross
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - romanzi
Secondo classificato
Orti dei Dogi
-Romanzi-
Luigino Vador & Nicolina Ross


Pubblicazioni: 34 romanzi - 127 racconti - 12 sillogi in lingua italiana e friulana.
Riconoscimenti: In concorsi letterari in Italia e all’estero, hanno ottenuto oltre milleduecento riconoscimenti.
Nel 2008 ha avuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il riconoscimento per l’opera “Opzione Italiani!” sull’Esodo Istriano-Giuliano-Dalmata.
Nel 2015, dal Vice Presidente del Senato, Valeria Fedeli, per il romanzo sul tema del femminicidio “Conta su di Me”.
Nel  2017  il  riconoscimento  dal  Presidente  della  Repubblica Sergio Mattarella per l’opera “Senza Ritorno”.

Nicolina Ross - già presente edizione:





Luigino Vador - già presente edizione:





Orti dei Dogi
-Romanzi-
Sinossi
(Questa è una storia di vita vera)

I De Anna, originari di Venezia si dividevano in due rami. Un ramo banchieri e un ramo cuochi. Angelo (Luti) appartiene a quest’ultimo. Nella seconda metà dell’800 la difficoltà di sfamare i suoi 9 figli lo portano a trasferirsi a Cordenons, piccolo paese a nord di Pordenone.
Fiore, uno dei suoi figli farà parte degli italiani spediti in Libia per conquistarla.
La conquista non porterà il lavoro sperato e Fiore va in Argentina. Neppure qui c’è il lavoro che sognava.
Torna in Italia in tempo per sposarsi ed essere mandato sul Carso.
La Prima Grande Guerra infuria. A fine guerra dopo aver sofferto il congelamento ai piedi, ancora non c’è lavoro e s’imbarca per l’America.
A casa, resta sua moglie, una bimba e un bimbo, Giacinto (Cinto).
E’ proprio Cinto che racconta il percorso di vita di quattro generazioni.
Vita che lui rivede come un film, un giorno che, rientrando dal lavoro gli cade davanti ai piedi “La cassa della Madonna”.
E’ lui che ha voluto dare una risistemata alla casa e gli operai, pensando bene di cominciare dal solaio, buttano la cassa dalla finestra.
La cassa si sfracella e resta, intatta, la valigetta di legno dentro contenuta e fatta da nonno Luti.  
Con quella valigetta Fiore era andato in Libia, in Argentina, sul Carso, a Cleveland in America…
E poi Cinto nella Seconda Grande Guerra, sul Monte Bianco, e in Libia dove nel deserto si scontra con una mina…
Quell’incontro cambierà completamente la sua  vita.


FRUSÌN


PRIMA PARTE

Capitolo 1
Anno 1965
Accosto lento il cancelletto. Poi alzo lo sguardo a salutare la grande chiave fissata sul portone della vecchia entrata. Il vento, a folate umide, mi striscia il volto. Preannuncia il temporale che sta arrivando.
Nembi color del piombo si arrotolano e salgono veloci da ponente, lampi di luce li trapassano. Pioverà, è certo e, non serve il brontolio dei tuoni a farmelo indovinare, le fitte alla gamba lo presagiscono già quando la prima nuvola si affaccia ad intaccare l’azzurro del cielo.
Lo percepisco prima di alzare gli occhi, spinta da mani che non vedo, la cassa scivola piano attraverso la finestra del solaio, la oltrepassa, resta un brevissimo istante in stallo poi, precipita.
D’istinto allungo il passo, protendo le braccia nell’assurdo tentativo di fermarla, invece si schianta e si sfascia sulle cianfrusaglie che l’hanno preceduta, il coperchio rimbalza.
Dal primo giorno che abbiamo aperto la porta di questa casa, la cassa è stata lassù in un angolo solitario a lei riservato. È stata deposito di lenzuola, tovaglie, copriletto e pizzi pronti per i corredi, ricamati dalle mani sapienti delle donne di famiglia e pure di cose inutili all’uso, ma indispensabili per conservare l’affetto dei ricordi.
Vabbè, ho ordinato io agli operai di sgomberare ogni cosa, voglio dare una nuova collocazione alle stanze, una rinfrescata a tutta la casa, ma la cassa della Madonna no! Quella, nessuno la doveva toccare.
Cado in ginocchio privo di energie di fronte al suo sfacelo. Mi ferma il respiro la valigetta tra le assi sparse, dello stesso legno naturale della cassa e quasi si confonde. La mia mano si allunga per raccoglierla. Non impreco contro la mano, per l’incertezza della presa, l’emozione che mi assale me la fa perdonare. Afferro la minuscola chiave inserita nella serratura e il vento, che ora soffia forte, mi rimanda alle raffiche gelate sul Monte Bianco, al sibilo del Ghibli nel deserto, al crepitio delle armi, all’eco degli spari, al rimbombo degli 88 (cannoni inglesi), al fracasso degli Spa (camion italiani), al fruscio di una Morris (Mezzo di trasporto leggero inglese).
E tutto mi torna davanti, memoria scritta nelle ossa, precisa come se fosse ora!
21 giugno 1942
Due macigni posati sulle palpebre che altro sarà mai il peso che m’impedisce di spalancare gli occhi? La mia mente s’impegna a sfidare il mastice che li incolla. Sfilacciandosi, infine, cede al puntiglio e le deboli fessure registrano una densa foschia azzurrina che confonde il mio ristretto campo visivo. Ombre bianche e informi lo attraversano a tratti e tutto d’intorno è silenzio d’ovatta. ‘Sono in paradiso’, mi viene da pensare e mi sembra giusto! Dopotutto sono così giovane che non ho avuto il tempo di sporcarmi l’anima.
Percepisco il lamento lungo, nascere alla radice del dolore e la fitta, come il taglio di una lama, mi fa alzare il braccio. Con fatica porto la mano davanti agli occhi che, con pazienza, schiariscono i contorni d’una fasciatura macchiata di sangue rappreso.
Subito la lascio andare accompagnando il suo ricadere con un gemito.
E’ in quell’istante che il velo del silenzio, offeso dal mio e altri gemiti, si squarcia e mi spinge a guardarmi attorno. Ciò che lo insulta risveglia in me la certezza che sono vivo, ma approdato all’ingresso dell’inferno.
La memoria mi riconduce alla nuvola di sabbia, graffiata da lunghe lingue rosse screziate di giallo-arancio, che mi hanno abbagliato schiarendo il nero pece della notte.
Tutto è durato l’eternità di un attimo ma, in quell’attimo, non mi è passato davanti alle pupille il mio vissuto, cosa che, ho sentito dire, è capitata a chi l’esperienza l’ha già sperimentata. Ho provato invece la sensazione che il mio tempo fosse finito. Un brivido, come una saetta, mi ha invaso ogni fibra e ho sentito un fiotto caldo scendermi dal volto e spandersi sul collo. L’ho sfiorato con la mano destra già aggredita da un formicolio dolente.
Un’ombra si è avvicinata, si è inginocchiata davanti a me, mi ha alzato la testa. Un’altra ombra ha accostato alle mie labbra una tazza con del tè, ho bevuto un sorso. Il suo tepore ha esaltato l’odore dolciastro e inconfondibile del sangue procurandomi un conato di vomito e qui, proprio qui, l’ultimo barlume della mia coscienza ha considerato:
«È finita, per me è finita, non rivedrò più l’Italia.»
Perché mai mi sono fermato all’Italia? Ciò che bramo in realtà è rivedere Cordenons, il mio paese lassù in Friuli che, per le conoscenze geografiche dei più, è già Austria.
Per me è il centro del mio mondo, la culla dei miei affetti, il punto fermo della mia esistenza.
Scivolo piano dentro l’incoscienza dell’oblio che mette in pace ogni incoerenza.
E d’improvviso una voce s’insinua, come una tenera vibrazione, a riempire quel nulla. Una voce conosciuta e chiara, portata sulle ali calde del Ghibli maledetto:
«Nini, fiuol» (Piccino, figliolo).
«Nonna Anuta!», e la meraviglia di vederla accanto a me, fra le dune di sabbia, mi scioglie il cuore, mi allenta il nodo dell’angoscia.
Indossa il suo solito abito lungo e scuro con  in vita il grembiule a falda. In testa, legato sotto la treccia spessa arrotolata sulla nuca, il fazzoletto nero rischiarato appena da minuscoli fiorellini bianchi, è quello riservato alla messa della domenica.
Guardando il suo viso, scolpito di rughe e pieno di apprensione per me, mi confondo e mi smarrisco nell’interrogativo di come faccia, lei così poca e piccolina, a raccogliere tra le braccia il marcantonio che sono io?  Poi gli occhi agganciano un’immagine: Dio potente! Com’è possibile? Davanti a me c’è Via ‘Sarvièl de ca’, la casa in sassi di nonno Luti e nonna Anuta che, con infinita dolcezza, ora sussurra una ninnananna mentre culla me bimbo, rannicchiato sul suo grembo.
Ah, ma lei c’è abituata, quanto mi ama, quanto l’amo! Mi abbandono all’odore familiare di quel nido.
Io sono Cinto il suo nini, il suo nipote preferito, figlio di Fiore, uno dei suoi nove nati. Sette maschi: Luigi, Antonio, Fiore, Santino, Albino, Giuseppe, Cesare e, due femmine: Erminia e Marianna.
Che conforto la cucina! La cucina è il fulcro della casa.
Due finestrelle senza scuri la rischiarano di giorno. Sono protette da leggera rete metallica baluardo estremo contro i lupi secchi e spelacchiati che, spinti dalla fame, tralasciano ogni prudenza avvicinandosi all’abitato.
La candela, al calar della sera, schiarisce appena l’ambiente proiettando le nostre ombre a tremolare sulle pareti grigie. Le travi storte del soffitto, incrostate di caligine assorbita dal fuoco aperto, riscaldano il pavimento delle due camere poste sopra.



(continua)



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