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Marco Righetti
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Ex avvocato penalista, ha studiato italianistica.
Vincitore di numerosi premi per l’inedito e l’edito in poesia, narrativa breve e lunga, teatro e, da ultimo, nella narrativa per l’infanzia.
Ha pubblicato libri di poesia, 2 romanzi (“La vita è molto più” ha ricevuto vari premi), 1 raccolta di racconti “L’occhio di Dio” (1° premio al Città di Castello 2019), il monologo “Come una madre” rappresentato in teatri romani e presente in Percezioni dell’invisibile (L’Arca Felice, 2012). Con testi, interventi e recensioni è uscito sulle riviste Poeti e Poesia, Gradiva, La Mosca di Milano, il clan Destino, La Recherche, Versante Ripido, Senecio.
Ha curato l’approccio poetico di una scolaresca di quarta elementare attraverso l’analisi partecipata delle poesie di ciascun bambino, e finalizzando la comunicazione scritta non meno che visiva dei singoli testi.
Orti dei Dogi
-Narrativa-
Che cosa c’è dopo la leggenda?





Giovane lettore,
ti stai per inoltrare nel cuore di leggende antiche e moderne, di storie passate, talora eccellenti, e di altre che segnano purtroppo il presente. Io mi limito a raccontartele; il resto, l’immaginazione il sogno e lo stupore – come suggerisce il titolo – li potrai mettere solo tu. Noterai che spesso il confine tra fiaba e realtà si disperde: le storie della grande Arte, per esempio, sono così reali da aver arricchito città come la Venezia del racconto.1
In questo lungo testo leggenda fiaba e arte si danno la mano, insieme cercano di interrompere storie di guerre reali: potranno mai riuscirci? Tu mi chiedi. Un grande papa ha detto che ogni guerra nasce dal cuore dell’uomo. Ma allora è riaprendo il cuore alla vita che possono nascere la pace, la meraviglia. Prova a mettere giù il tuo racconto del cuore e costruirai la pace, la speranza, lo slancio verso nuovi traguardi: anche tu scriverai la tua, la nostra nuova e concretissima storia.
D’altra parte la fiaba fa parte dell’esperienza di ogni giorno. Ti sarà capitato di esclamare ‘Ma questo è favoloso!’ Ecco, in quei casi hai iniziato a costruire la tua fiaba: si tratta solo di continuarla, di viverla guardando la realtà con occhi diversi. Prova anche tu a guardare la giornata con occhi innamorati della vita: scoprirai altri mondi, invisibili a chi vive frettolosamente…
A fine testo ho anche inserito note esplicative, come vedrai. Ma tu ora lasciati condurre per mano, sei pronto? Ricorda che ho bisogno della tua collaborazione per andare avanti, in fondo che cosa faccio io? Spingo soltanto il tasto ‘on’ sulla tua fantasia…  

      *  *  *

Secondo un antico racconto popolare a Ma’rib, immersa nel deserto yemenita, la discendenza della bellissima regina di Saba, dopo la fine ingloriosa del regno dei Sabei, non avrebbe più dato alla luce femmine.
Un fiore di Iris albicans - il fiore che i Greci deponevano sulle tombe, il gladiolus dei Romani, il nostro giaggiolo bianco, l’orchidea dei poveri cantata da Govoni - sarebbe cresciuto in una zona asciutta e soleggiata ma difficilmente accessibile: chi l’avesse colto ‘nel tempo giusto’ l’avrebbe trasformato in una meravigliosa bambina, strappandola ‘alla prigionia del terreno e della storia’.
Al tempo della leggenda, Ma’rib - allora centro fiorente di traffici con gli altri territori del regno, nel Corno d’Africa - beneficiava di una famosa diga in pietra ghiaia e muratura, una eccellenza ingegneristica che di una zona così inospitale qual era il deserto Ramlat-al-Sabatayn (‘terra senza ombre’) fece un vasto giardino irrigato. Dopo il suo crollo, nei primi secoli dopo Cristo, iniziò la decadenza dell’intero territorio, la stessa Ma’rib si ridusse a poco più di un villaggio. Intorno ai resti della grande diga sorsero spontanee piante di Iris albicans, chiunque avrebbe potuto coglierle.
La profezia parlava chiaro: l’iris destinata a mutarsi in una bambina avrebbe dovuto nascere in territorio quasi inaccessibile. E bisognava anche che il magico fiore venisse colto in un momento preciso; ma quando fosse restava ignoto a tutti.

Ora questa storia entra nel vivo, Mohammed è un bambino yemenita di undici anni, è nato proprio a Ma’rib, suo padre Omar lavora legno e mattoni. L’infanzia non è mai stata serena per lui, tuttavia Mohammed è un ragazzo amato, e ha il dono di una grande empatia. Ama scoprire le proprietà nascoste, il significato profondo di tutto ciò che lo circonda, ama trovare collegamenti fra quello che vede e i racconti che ha ascoltato.
È una mattina come le altre, sta per uscire insieme al padre, Mohammed è attratto da un sibilo che non è quello dei classici serpenti del deserto, né di qualche insetto volante pronto a pungerlo.
Scopre che dal cielo piovono pietre durissime, mai viste prima, così solide che quando toccano il terreno creano una voragine ed esplodono, spostando l’aria intorno.
Il cielo sta diventando un enorme ombrello scuro, così basso che le sue stecche appuntite sono lame affilate che perforano tutto, anche le persone.
Mohammed non si può riparare sotto questo cielo improvvisamente traditore, cerca di capire dove finisca l’ombrello assassino.
Corre da Amir, il suo amico del cuore, ma non lo trova nella sua piccola casa, edificata, come la sua, con mattoni di argilla fango sabbia e malta. Ci sono i suoi fratelli minori e la mamma: con il suo velo integrale li protegge allargando le braccia, lei è un ombrello d’affetto.
Dov’è andato Amir? Era fuori nel campo davanti alle loro casette, stamani è sceso prima, ma tutto questo è Mohammed a capirlo, sua madre non è riuscita a dirglielo, ha aperto la bocca ma è uscito solo un grido.
Riesce all’aperto, guarda ancora l’ombrello cattivo, grigio, fatto di torri gonfie in continua espansione, non come le case-torri di Shibam, la Manhattan del deserto, a est, di cui ha sentito parlare da papà Omar mentre costruiva la loro casa e aveva le mani nella malta.
Parlami di Shibam, gli aveva detto Mohammed, mentre un nido di vespe s’infittiva a un metro da loro.
Prima ancora di rispondere, papà Omar gli aveva promesso che quando si fosse comprato un cellulare per prima cosa avrebbe fatto delle fotografie alle architetture verticali di Shibam, sarebbe andato lì con questo scopo, le avrebbe poi mostrate a tutta la famiglia. Aveva poi sorriso smentendo subito l’intenzione e confidando nella comprensione del figlio: Mohammed io non posso andare laggiù, in questo periodo non mi sarebbe possibile, rinuncerei a una giornata di lavoro, e il cellulare forse non ce lo compreremo mai, però ti dico che lì le case sono torri altissime con finestre, fanno entrare il sole ma lasciano fuori il caldo, al tramonto prendono una tinta rosata.
La descrizione si era fermata a quel colore, tutto il resto delle costruzioni favolose l’aveva aggiunto la fantasia di Mohammed, immaginava una città piovuta dal cielo come una torta immensa, posata in mezzo al deserto e inaccessibile.
Fu allora che per la prima volta pensò alla leggenda dell’iris albicans, anch’esso sarebbe spuntato in luogo impervio. Verrò a Shibam con te, gli aveva risposto determinato. Non si può, Mohammed, e poi tu sei in gamba, devi restare con la mamma.
Ora Mohammed guarda le alte torri che si levano in un’aria irrespirabile, pensa a quanto debbano essere diverse le case-torri di Shibam, a quanto il sogno di vederle resista e anzi adesso sia più forte della realtà.
Una realtà che li ha colti tutti impreparati, solo papà Omar aveva capito che, nonostante il passaggio di consegne e l’accordo fra le opposte fazioni, la transizione politica da un presidente all’altro era fallita. Nel novembre 2014 è risultato chiaro che il nuovo governo del presidente Hadi non avrebbe retto e i ribelli Houthi e l’ex presidente Saleh, per la prima volta alleati contro Hadi, non sarebbero stati a guardare. E ora, nel marzo del 2015, la pace è un capitolo chiuso: esplodendo ha seminato schegge di guerra, si è tornati all’instabilità che già c’era.
Perciò ora che Mohammed guarda il cielo confronta il triste spettro dei bombardamenti con la fissità irreale di un sogno sempre più lontano. Ieri sera ha mangiato solo pane e la fame gli stringe le budella, ma non si lamenta.
Fa il conto dei fratelli, sono tutti intorno al focolare materno, nero e non rosso come solitamente è il fuoco; il velo della madre (in casa non usa il niqab ma l’abaya) le lascia interamente scoperto l’ovale del viso, ma il resto della sua persona, a parte le mani, è coperto: mamma Najiba è sacra, pensa Mohammed.
Lui non sa che il Corano e le ultime indicazioni normative vanno verso un passaggio dalla poligamia alla monogamia, i teologi musulmani hanno stabilito che anche impegnandosi un marito non potrà mai garantire la stessa equità di trattamento a tutte le mogli (massimo quattro), l’uomo non potrà mai essere giusto verso tutte. Mohammed sa però che papà Omar è fedele a Najiba, la sua unica sposa, che gli ha dato quattro maschi e due femmine.
La situazione economica familiare è grave, la cugina di mamma Najiba ha invece fatto un matrimonio fantastico, ora studia per diventare un’ingegnera nell’industria automobilistica a Sana’a, la capitale.
Papà Omar alcuni anni fa procurò invece il matrimonio a sua figlia Abeer, dodicenne allora, in cambio di millecinquecento dollari, una cifra che permise agli altri cinque figli e ai genitori di andare avanti in un momento difficilissimo, così ha sempre detto per giustificare il suo gesto.
Abeer non fa più parte della famiglia; Abeer la più bella, le stesse linee del viso della madre, ma ancor più intense, con quel tanto di sfumature appena velate di azzurro nell’iride, come il colore dell’iris albicans.
Già, è forse Abeer il fiore strappato nel deserto e diventato una bambina meravigliosa?
No, Abeer è nata fra le gambe di sua madre e i veli delle zie, che l’hanno protetta contro punture d’insetti e sguardi intrusi. Abeer non è fiorita in un campo o in altro luogo misterioso, anche se della sua nascita Mohammed non può ricordare niente, essendo minore di lei. Dunque se Abeer non è il fiore della leggenda lui può continuare a credere a quella storia, a inseguirla, è la sua unica rivincita contro quello che sta accadendo.

Ora per esempio Mohammed è nuovamente fuori casa, la testa in su, c’è un raid aereo che semina morte, e il focolare materno (la voce e le braccia della madre, il calore che emana il suo sorriso dolente) non può più proteggere. Cosa resta? Il miraggio di lasciare Ma’rib e andare in qualche remoto luogo, o nell’est dello Yemen, dove può sbocciare il fiore della leggenda. Vuole cercarlo nei luoghi mai battuti da nessun esercito. E resta il sogno di quelle fiabesche costruzioni rosa, a Shibam...
La sua è una speranza ancora intatta, il contatto urticante con la guerra non la manda in cortocircuito ma la rinsalda: ha bisogno di credere in qualcosa che non piova come distruzione ma salga come rinascita.
Amir! chiama ripetutamente. Anche la madre è emersa dal portone, e abbandonando gli altri figli alla maggiore è ora un vento scuro che si sposta a pelo del terreno, in cerca di quel ragazzino in felpa gialla e pantaloni scuri.
Lo sguardo di lei semina il richiamo e raccoglie nello stesso momento la risposta.
Capita solo alle madri, pensa Mohammed, riuscire a chiamare il figlio sapendo già dove sta e cosa sta facendo.
La vede infatti rientrare in casa con Amir, fortunatamente restituito ai suoi dalla stessa aria cattiva che ora intensifica l’attacco e si scompone in schegge, spazzando vite, trasformando individui in pupazzi scoperchiati o senza arti, come il bambino che corre urlando in lontananza prima di dissolversi nel nulla.
Mohammed è circondato da migliaia di altre vite in quel quartiere in preda al degrado, è serrato dalle grida che si levano intorno, dalle brevi corse di chi si rifugia in casa o in qualche sotterraneo, dal richiamo di mamma Najiba, da nuovi sibili nell’aria.
Scappa nel tuo focolare, Mohammed, non lasciarti suggestionare da queste torri che in cielo mutano forma, presto diventerà buio, anche in pieno giorno.
Allora medita se non sia davvero il caso di correre verso quel piccolo colpito da una scheggia, non può abbandonarlo così. Mohammed leva la sua preghiera ad Allah, sa che non ignora le implorazioni dei ragazzi.
Continuano a piovere colpi d’arma da fuoco, le case sono formicai di famiglie che sciamano impazzite senza cibi da mettere in salvezza, in questa zona c’è una carestia endemica.

Passano anni, l’orizzonte si è piegato, spaccandosi in una parte che Mohammed non vede più, deve essere caduta oltre la sua visuale, spera che qualcun altro l’abbia raccolta.
Forse a est di Ma’rib, dove lui pensa che esista il fiore incantato, l’orizzonte è rimasto intatto.
Ora lui e la famiglia si trovano in un campo profughi, e quando ci sono le inondazioni è impossibile viverci, le piogge torrenziali hanno colpito anche la capitale Sana’a, dove le case di fango sono crollate e centinaia di persone hanno perso la vita, non bastasse la violenza di una guerra che ha già fatto decine di migliaia di vittime fra i civili e sta affamando oltre venti milioni di persone, i due terzi della popolazione dell’intero Stato.
E a Taiz l’attivista dei diritti umani Amat al-Aleem al-Asbahi è stata uccisa, non ha potuto portare a fondo la sua battaglia come è riuscito alla giornalista e premio Nobel Tawakkol Karman, anche lei attivista, o alla nota fotografa Amira-Al-Sharif.
Neppure palazzi e moschee sono stati risparmiati dal conflitto, Mohammed lo ha saputo, non riesce a immaginare come quella magnificenza di onore a Dio sia stata così deturpata.
La carestia impazza, i prezzi dei pochi alimenti reperibili sono alle stelle; cure e spese sanitarie diventano un miraggio, la corrente manca dodici ore al giorno, l’acqua potabile è intermittente, c’è quella portata dalle piogge, colera e difterite mietono le loro vittime unitamente all’epidemia da Covid-19. C’è chi va a dormire sperando di non svegliarsi più.

La famiglia di Omar si è ridotta ancora, dopo la probabile morte di sua figlia Hadiya, colpita da colera e portata via da un operatore umanitario.
Adesso è proprio lui a mancare da giorni, il capofamiglia, non perché sia certo che è morto. Deve essere rimasto intrappolato in una zona circondata dalle milizie della coalizione saudita, era con la piccola impresa per cui lavora, almeno questo pensano mamma Najiba e Mohammed.
La notte si addormentano sotto il rumore continuo di corpi e baracche che forse si spostano, tentando di migrare altrove.

Le leggende non esistono più, pensa Mohammed, non crede più a niente, la sua riserva di speranza è finita sepolta sotto l’ultimo bombardamento della sua città natale, Ma’rib.

Oggi si sveglia però in un luogo diverso, lontano dal campo profughi.
Anzitutto c’è un grande chiarore intorno a sé, i raggi filtrano da strane coperture alle finestre, non le ha mai viste.  Si tira su dal letto e si avvicina a quelle grandi pagine di legno, vuole scrutarle meglio.
Ma è distratto da altre novità: rumori molesti, boati, pianti e lamenti sono cessati, dove si trova veramente?
I suoi familiari sono tutti fuori dalla piccola e pulita stanza. Scende alcuni scalini, continua a non ricordare cosa sia successo, forse un’inondazione ha colto tutti nel sonno e un’organizzazione umanitaria pietosa li ha trasportati in questo luogo pieno di sole, dove il cielo non è più oscurato da polveri e miasmi, né incrinato da raid aerei che, incidendolo, ne fanno cadere tutto il residuo azzurro a terra.
Manca anche quell’insopportabile odore di polvere da sparo, così diffuso e avvolgente; e finalmente respira a pieni polmoni senza tossire per l’aria venefica.
Mi trovo nella Jannah, nel paradiso dei Musulmani, pensa Mohammed, ora andrò a cercare l’albero gigantesco per attraversare la cui ombra occorrerebbero cento anni.
Ma quest’ipotesi allora cancella la possibilità che sia stato salvato da Save the children (sì, conosce anche lui il nome di quell’organizzazione mondiale così meritoria, eroica).
Si avventura lungo un viale dove incrocia una marea di bambini che gli fanno festa, in fondo a una lunga fila c’è suo padre che distribuisce il classico pane yemenita e gli fa cenno di venire, ce n’è per tutti.
È un attimo, la troppa gioia fa svegliare Mohammed, è tutto buio.

Con uno sguardo recupera il presente: il campo profughi è intorno a sé, decine di persone soffrono a pochi metri da lui, la sua famiglia è dispersa in una famiglia maggiore, estesa quanto il male che ha provocato questa situazione estrema, lamenti e rumori sono quelli di sempre, inclusi i brontolii lontani, a cui si aggiunge la pioggia che sta spazzando il fango aggiungendone altro.
Eppure Mohammed sente di doversi alzare e abbandonare questo luogo ormai inospitale: lui che è stato nella Jannah non può fermarsi, esiste la possibilità di vedere la luce, e non solo nelle visioni; altrimenti queste non avrebbero alcun senso.
Si veste con tutto quello che può, si copre la testa con una tavoletta di legno abbandonata, la pioggia non cessa. Senza neppure ragionare si ritrova a vagare al confine del campo, riesce a eludere la sorveglianza, rischia di essere trafitto da qualche proiettile, o di saltare su una mina, lo sa bene ma non si arresta. Non si sa con quali forze vaga l’intera notte, un’oscurità in fondo breve, già l’alba sta nuovamente mettendo fuori i suoi chiarori.
Sfinito si lascia cadere su un masso, un letto di roccia che pare fabbricato per il suo corpo.
La scena seguente vede il sole ormai alto, Mohammed si drizza, è stanchissimo, intorno a sé non c’è nessuna traccia di esseri umani, ma dove si trova? Intravede in lontananza delle strane costruzioni altissime, grattacieli assiepati l’uno vicino all’altro. È giunto dove avrebbe sempre voluto andare: è prossimo a Shibam, alla cittadina di cui papà Omar gli aveva favoleggiato, ma allora è reale! Possibile che abbia percorso tanti chilometri? È attratto contemporaneamente da un qualcosa di luminoso che si protende in mezzo alle sue vecchie scarpe. Si china e senza neppure pensarci trae a sé il fiore.
Di colpo capisce che è quello della leggenda, il fiore incantato, trovato dopo un percorso che nessuno saprà descrivergli. L’ha appena estirpato. Qualcos’altro dovrebbe accadere.
Sente la brezza sui capelli, si volta ed ecco Hadiya, sua sorella, non è morta di colera, sta bene, il viso è il suo, incorniciato dall’al-amira che lo lascia scoperto.
Lo abbraccia, lo invita a volgersi intorno: ora davvero c’è la possibilità di ricominciare a vivere, gli dice, ma devi crederci, Mohammed, non come l’altra notte che hai ridotto tutto a una visione. Siamo noi la nostra visione, lo implora, basta crederci con tutte le forze, talvolta cambiare la realtà è meno faticoso del credere che ci si possa riuscire, non è così, Mohammed?
Il ragazzo torna a domandarsi se sia tutto vero, mentre sua sorella diventa sempre più una figura evanescente e a poco a poco il chiarore si spegne. No, non dileguarti, ti prego, Hadiya!
Ma nessuna leggenda è più vera delle parole di chi la racconta, è lì che nasce e muore, è lì che crea lo sviluppo necessario per una fioritura: il seguito appartiene solo a te, Mohammed, al tuo presente ristretto in un campo profughi. Hadiya non c’è, Hadiya è dovunque tu veda una ragazza della tua età, è nelle tue mani che spostano gli assetti del cuore: oggi vuoi credere che ogni giovane della sua età avrà il suo nome, la onorerai come fosse tua sorella, sarai animato da questo desiderio.
È che finita la leggenda hai più vita, e inizi a trasfigurare dolorosamente la realtà.
Ti affacci sulla distesa di baracche alla periferia di Ma’rib: la sete nasce già nelle pietre, che portano carestia e miseria. Cerchi il cibo nel deserto, fai giocare i bambini che ti circondano. Sei pronto a costruire la speranza: a loro oggi dirai la leggenda del fiore incantato. Servirà anche a te per ritrovarti, per salvarti, l’ho capito quando me l’hai raccontata.3
Ma proprio dal racconto ne è emersa un’altra, che ci porta indietro di quasi 500 anni, quando un altro ragazzino di quasi undici anni, Jacopo, passeggia lungo la Fondamenta de le Zàtare nel Sestiere di Dorsoduro, a Venezia. Al suo fianco il prospetto chiaro dell’Ospedale degli incurabili, oggi sede dell’Accademia delle belle arti. Sale sul Ponte agli Incurabili che sorvola il Rio de le Toresele. Si appoggia alla balaustra in ferro a croci oblique e guarda giù, dove il Rio confluisce nel Canale della Giudecca. Si sporge a fissare la corrente di marea, che ogni secondo spazza l’acqua che l’ha preceduta ma non fa in tempo a svuotare quell’angolo del Canale, perché ogni centimetro cubo è così legato a quelli che l’hanno preceduto che è impossibile distinguerli. E così il tempo sembra fermarsi, anzi potrebbe non essere mai trascorso. Impossibile distinguere Jacopo dai suoi omonimi, il presente dal passato, Venezia confonde, mescola insieme i suoi abitanti, li rifà nell’eterno movimento delle sue acque…
Alle sue spalle si materializza un uomo in ricche vesti, che lo fissa paziente, attende che il ragazzo si accorga della sua presenza, immagino si stia preparando a imporgliela. Jacopo ha lo sguardo sul passaggio di un pupparino3, forse è lo stesso che giorni fa ha visto tirato su nella tesa4 di uno squero5 per la riparazione. Ma non è la storia di questa singola imbarcazione ad attrarlo, è invece la torsione della schiena del poppiere, piegato ora in avanti nella voga a un solo remo, sopra lo specchio di poppa. Jacopo indaga, rapito, lo spostamento del tronco del rematore, le direttrici di forza che la muscolatura imprime a tutta la figura. Il momento di maggior intensità è nella postura obliqua, che importanza somma avrà poi nelle opere che andrà a dipingere. L’asse obliquo di quel corpo è qualcosa di eterno, per Jacopo, la tensione dell’uomo verso la visione, o la stessa modalità di percezione della realtà. Presto inizierà a dipingere i corpi nello spazio, ma lo farà raggiungendo l’inedito compromesso fra tempo e movimento: perpetuerà sulle tele il dinamismo delle azioni.
Il patrizio sei anni fa, nel 1523, è stato eletto Procuratore di San Marco6. Alto, accigliato nel suo ampio robone scuro con il bavero spiovente e le maniche capienti, gira fisicamente la testa di Jacopo verso di sé, incombe su di lui, gli toglie l’aria l’acqua e il cielo intorno.
“Ti xe tra Marco e Todaro? Tranquilo, no ti ga fato gnente.”7
Jacopo Comin si lascia soggiogare dallo sguardo dell’adulto, dalla sua ruvida invasione appena temperata da un accenno di confidenza. Non se ne scorderà più, lo rivedrà ancora; quando quest’uomo sarà ormai anziano gli dedicherà un ritratto di superba nettezza formale, di grande vigore espressivo.
“Tuo padre Giovan Battista è tintore, e tu usi i suoi colori per dipingere le pareti della sua bottega, invece delle sete.”
Jacopo congela la fantasia, che già stava correndo a immaginare lo sfondo in cui avrebbe provato a ritrarre questo nobile veneziano.
“E tu come lo sai?”
L’uomo si piega anch’egli in avanti come il poppiere, appoggia il gomito sul ginocchio destro, riducendo la distanza fra sé e il ragazzino.
“Domani è vigilia della festa grande, il doge, il Serenissimo Principe Messer Andrea Gritti al vesporo uscirà da palazzo per recarsi in basilica per l’offerta delle candele: tu lo sai che domani è vigilia di San Marco?”
Jacopo è un angelo spettinato in panni inadatti, modesti, staccatosi da qualche ambone.
L’altro gli rifà la domanda.
Dopo una risata quasi irridente annuisce, lo ascolta, freme. Non per sapere quello che gli confiderà questo patrizio, ma per la nuova scena che in quest’istante prende a incuriosirlo. Alle sue spalle, confusamente staccatosi dal grigio della riva in pietra viva (appena costruita per por fine alla sponda sabbiosa), coglie ora qualcuno piegarsi eccessivamente in avanti sul bordo del Canale, il corpo curvo che solca l’aria innaturalmente. Una voce interiore gli dice: «Hai visto il rematore quasi precipitare in acqua, ora ferma quest’altra sciagurata caduta!» La testa dell’uomo è già prossima al pelo dell’acqua, le gambe invece ancora vicine alla banchina. E Jacopo Comin, che noi conosciamo col nome d’arte di Tintoretto, affiderà ai suoi grandi quadri quei corpi protesi, riversi, scorciati, in caduta, che sconvolgono la tranquillità di chi li osserva.
Ma ora il nobile spegne quelle immagini e ne accende altre. Con fare affabulatorio gli domanda: “Conosci la leggenda del Bòcolo8? Domani, 24 aprile, Tancredi farà pervenire alla sua amata Maria una rosa insanguinata”. Jacopo è già dentro la scena. E la rosa è tanto vera che l’uomo la estrae dal mantello come un prezioso, è rosso fiamma.
“Orbene visto che tu sei abile a dipingere, ti chiedo di farla diventare come era prima di macchiarsi di sangue, bianca. Se così farai chi la riceverà non morirà, e per la nostra Repubblica presto ci sarà la pace.9”
“Non è difficile.”
“Non hai capito, Jacopo. Non basta che tu la faccia bianca. Devi farlo senza apparenza di pittura, deve sembrar un’autentica rosa bianca quando la consegnerò alla sua destinataria.”
“Se mi dai uno scudo d’oro provo.”
“Alla tua età è un po’ presto. E poi il pagamento a lavoro finito.10 Riportala domani alle Procuratie, chiedi di me, del procuratore Missier Andrea Cappello.”
Il ragazzo la afferra e la tira a sé dalle mani dell’uomo: anche questo, come l’iris colto da Mohammed, è un fiore reciso, dunque è destinato a morire. Dipingendolo, inoltre, lo falsificherebbe, spogliandolo di ogni valore simbolico. Salvo che non compia il miracolo. È la sfida della grande arte.
Ripete a sé stesso: ‘Se così farai chi la riceverà non morirà, e per la nostra Repubblica presto ci sarà la pace’.
Non sa che per ritrovare quella stessa pace Michelangelo fra pochi mesi, nel settembre di questo 1529, scapperà da Firenze e “per vivere solitario, secondo l’usanza sua” si ritirerà “pianamente nella Giudecca”11.
Il giovanissimo Tintoretto è vicino agli ultimi, alla gente, già si sente portato a rappresentare il dramma, e a rovesciarlo nella luce della fede, della passione. Il fondo scuro dei suoi quadri vibranti sarà sempre acceso dalla visione. Lui che nella sua bottega scriverà su un muro “Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano”, a indicare i suoi modelli12, lui che a soli 20 anni si fregerà del titolo di ‘mistro depentor’, maestro pittore, quel fiore reciso lo deve a sua volta strappare alla triste leggenda. Se fallirà la prova, chi riceverà il fiore morirà, e la Repubblica sarà sempre in guerra.
Dalla pietra d’Istria delle fondazioni murarie, delle banchine risale ora un odore d’alghe misto a liquame, diverso dall’odore che trecentocinquant’anni più tardi avrebbe incantato Josif Brodskij13.
Il giorno dopo si presenta puntuale all’appuntamento ma non trova affatto quell’Andrea Cappello. Forse era un fantasma? Uscendo deluso dal palazzo in piazza San Marco offre la rosa (ora bianca) a una popolana che pochi minuti prima l’aveva rincorso: forse era proprio destinata a lei…
Due settimane dopo, uscito dalla bottega di uno scaleter14 la rivede seduta, impolverata e felice sul banco di un frutariol15, nel sole di maggio. D’improvviso capisce la lezione: Jacopo sa che la sua opera salverà la realtà, non sarà più semplice pittura. A lui il compito di fermare la morte e schierarsi con la vita.
È avvenuto tutto su quel ponte di pietra, distante dal Campo di Gheto sull’isolotto di Cannaregio dove da qualche anno sono rinchiusi gli ebrei di origine tedesca (e dove ora, in pieno 1529, stanno iniziando i lavori di costruzione della grande sinagoga); appena fuori della folla di mercanti artigiani operai, del tumulto quotidiano delle attività, del rumore delle fonderie. Jacopo Comin e Andrea Cappello hanno fermato per un attimo lo sciabordio abbagliante delle onde, il chiasso delle galee vocianti ritornate dai porti orientali. E il nobile procuratore gli ha indicato la strada: dipingerà per dar vita alle storie richieste.
Come per Mohammed, dunque – in tempi e luoghi totalmente diversi – anche per il giovane Tintoretto la leggenda del fiore apre una possibilità imprevisto: a quel punto tutto dipende dalla sua capacità di accorgersi del territorio nuovo, e metterlo a frutto. Anche lui trasfigurerà la realtà da par suo.
Provate, ragazzi, a esplorare l’opera di questo pittore, i mezzi tecnici da lui impiegati, la potenza del suo luminismo, l’arditezza degli effetti scenografici, la folgorante espressività di certi ritratti. Lentamente entrerete in quel luogo dove l’Arte spinge la vita in avanti, le rende grazie, la illumina, la salva…
E mentre voi ammirate le opere del Tintoretto ecco che la leggenda del fiore supera nuovamente i nostri monti e si porta a Est… nell’attuale Oblast’ di Transcarpazia, dove sorge il monte Petros, in Ucraina occidentale.
Lì viveva Bliznitsa, una ragazza dell’etnia Hutsul. Non riuscendo a scegliere fra due giovani pretendenti alla sua mano, promise che avrebbe sposato chi dei due le avesse portato in dono un fiore di seta, cioè una stella alpina. I ragazzi si inoltrarono sul monte, dopo defatiganti ricerche intravidero lontanissima una stella alpina, splendeva solitaria in un luogo quasi inaccessibile. Rianimati dalla speranza scalarono rocce impervie, finché uno di loro riuscì a raggiungerla. Ma proprio in quel momento comparve la maga bellissima e malvagia che custodiva quel fiore rarissimo: avrebbero avuto salva la vita se fossero rimasti con lei. Naturalmente i due giovani rifiutarono, la maga allora scagliò contro di loro una roccia che li avrebbe trascinati nell’abisso, se non fosse intervenuto Stribog, il dio dei venti e il protettore di Vesna, dea della primavera. Vedendo che i ragazzi stavano precipitando porse loro un tappeto di vento che li fermò a mezz’aria e li ricondusse a casa, salvando anche il fiore per l’amata. Quando rividero Bliznitsa fu tale la gioia che le offrirono entrambi la medesima stella alpina. E mentre la ragazza è ancora impegnata a capire chi scegliere fra i due… ecco che è accaduto qualcosa di strano…
Dovete sapere che Stribog a ogni primavera fa soffiare una deliziosa brezza per scortare Vesna. Quando più di un anno fa, come di consueto, soffiò sopra boschi e monti per aprire la strada alla primavera, era il febbraio del 2022, una strana casa di neve apparve in un cielo spento, scuro… La leggenda continua…
…e si rivolge a tutti voi, ragazzi, che come noi adulti assistete impotenti all’orrore della guerra in Ucraina. È quindi una fiaba che grida da ogni sillaba: sia la pace! La pace protegge e promuove la vita.
Naturalmente ho cambiato qualche riferimento geografico, per seguire meglio lo sviluppo della fantasia… Ma voi avete una forza incredibile, sconosciuta a noi grandi: sapete sognare come nessun altro sa fare… Voglio dire che siete i soli capaci di trasformare leggende e fiabe in realtà (anche se noi adulti non riusciremo mai a capirlo).
Dice dunque la leggenda di Stribog, che da quando c’è la guerra nel paese di Cerapace, da quel 24 febbraio 2022, gli abitanti ogni mattina guardano il cielo e scorgono una casa di neve, immobile e sospesa, pensate! Incastonata nel cielo grigio, nessuno sa come faccia a reggersi...
Anche oggi la maestra Asia si rasserena un po’ quando, fra le nuvole, vede scintillare quelle lontanissime finestre di neve, nonostante la pioggia infuocata che le sfiora e le torri di fumo e piombo che si alzano da terra. Ma com’è che la misteriosa casa non viene colpita dalle armi e resta ancora sospesa? Forse dentro quei muri di neve ci sono dei macchinari che neutralizzano missili e bombe!
“Uh!” esclama Asia di colpo, “il mio cognome!”
Essendo per natura distratta, si è accorta… di aver perso il proprio cognome, che disdetta! E neppure ricorda quale sia! Sì, è proprio come vi ho detto, a voi è mai capitato di perdere il cognome? A me una volta, quando mi era caduto a terra e un bidello l’aveva calpestato involontariamente. Quando l’avevo ritirato su da ‘Barella’ era diventato ‘Barcolla’, e un compagno antipatico già mi prendeva in giro: “Ciao Filippo Barcolla, è vero che non ti reggi in piedi?”
Il cognome di Asia, però, a differenza del mio è un cognome pericolosissimo! Secondo me riuscite pure a indovinarlo…
E lei che cosa fa? Corre a scuola a vedere se per caso è rimasto lì, ché se lo ruba qualcuno poi sono guai!
Passa l’intera mattinata a mettere sottosopra le aule, sempre con molta cautela… ma non c’è! L’ultima speranza è domandare aiuto alla sua direttrice.
“Signora, bisogna chiamare… i vigili del fuoco, subito!”
“Che cosa è successo?” Attenzione, la direttrice ricorda tutti i cognomi delle sue maestre, ma potrebbe mai Asia chiederle ‘Qual è il mio cognome’? Che figura farebbe?
“È che… non trovo più il mio cognome…”
“Perché, lei dove lo custodisce di solito?”
“Lo metto in borsa, è così pericoloso, meglio non tenerlo addosso, ché se poi dovessi inciampare e cadere… farei un disastro e ci andrebbero di mezzo anche adulti e bambini!” Dunque ragazzi un cognome pericoloso, ma quale sarà mai? E continua: “L’altro giorno ero in autobus e qualcuno mi ha scippata, lo sappiamo, dopo i bombardamenti siamo diventati tutti poveri e c’è sempre chi cerca di derubarti. Fortunatamente il mio cognome non lo avevo infilato in borsetta… Ma allora dove l’avrò messo?”
“Tranquilla, signora Bomba…”
‘Ecco come mi chiamo!’ pensa Asia.
Con la sicurezza di chi ha già la soluzione la direttrice si alza, apre l’armadietto, mette la mano nell’ultimo cassetto in basso e ne estrae un pacchetto. Tornando a sedersi lo depone delicatamente sul tavolo: “L’ho salvato io…”
“Grazie! Mi aiuti la prego… lei dove metterebbe un cognome simile? Se mi entrasse un soldato in casa lo scoprirebbe e potrebbe usarlo contro chiunque!”
“Ecco, signora Bomba, le dico cosa fare…”
“Eviti però di pronunciarlo, ché già lo ha nominato due volte!”

Il giorno dopo la maestra Asia è in ferie, va al municipio, all’ufficio di stato civile, che fortunatamente non è stato colpito dalle bombe, e fa la sua richiesta: “Vorrei cambiare il mio cognome con uno neutro, senza pericoli, mi capisce?”
L’impiegato le chiede perplesso: “Ce l’ha qui? Almeno lo ha incartato bene?”
“Certo, eccolo!” e pone sul tavolo un pacchetto: il suo cognome l’ha ricoperto con un cartone spesso, e l’ha inserito in una scatolina di legno, che poi ha sigillato. Ma forse non è stata un’idea brillante quella della direttrice…
Asia infatti ha paura che da un momento all’altro quel suo cognome possa davvero fare un disastro, ha capito che da quando c’è la guerra a Cerapace   sono a rischio case scuole ospedali vetture e parchi… Ma anche mettere un cognome in un pacchetto può essere rischioso…
In quel mentre alcuni soldati entrano con i mitra spianati, il più vicino ad Asia afferra al volo il pacchetto, certo che ci sia del denaro, e dopo aver rapinato le casse e i presenti scappa verso l’uscita con i suoi compagni.
Asia li insegue, sa di rischiare moltissimo, ma solo lei conosce il pericolo che corrono…
Esce per strada mentre la sirena annuncia che è appena terminato un bombardamento. Asia continua a rincorrere il rapinatore: “Fermati, fermati! È pericoloso!”
L’uomo si volta di scatto, ma in quei secondi lei si ricorda una frase e gli grida: “Una vita è un patrimonio inestimabile, è un dono da rispettare, da amare; voi non lo sapete, ma quel pacchetto invece potrebbe distruggere tante vite!”
Il soldato si ferma, forse ha in qualche modo afferrato il senso delle parole, conosce poco quella lingua. Insieme a un commilitone toglie i sigilli e scarta il pacchetto. E invece della scatola di legno con il cognome esplosivo… pensate… trova tradotta nella sua lingua la stessa frase che Asia ha appena pronunciato!… Una vita è un patrimonio inestimabile, è un dono da rispettare, da amare.
Intanto, terminato il bombardamento, alcuni cittadini iniziano timidamente a uscire in cerca di negozi aperti, di acqua e provviste alimentari.
In un silenzio surreale il soldato restituisce ad Asia il pacchetto vuoto e trattiene per sé quella frase, ed è così colpito dal prodigio che ne parla agli altri del suo distaccamento. A uno a uno, dimenticandosi della guerra in corso, di sparare, di fare prigionieri, i soldati nemici si portano vicino a lei. Dopo uno scambio di sguardi fra lei, atterrita, e i presenti, ora tutti quanti… le stringono       la mano convinti, sorridenti, riconoscenti… Non se lo aspettava, Asia ha un attimo di commozione…
Ma la guerra non è certo finita! Non c’è tempo da perdere, Asia rientra nell’ufficio e si fa registrare come Dolce, poi nel correre verso casa alza la testa verso quell’abitazione sospesa… sì è ancora lì, fortunatamente, la casa di neve è un segno di speranza: tutti sanno che da quella casa dipenderà la pace futura…

‘Ci deve essere un angelo paziente che la tiene sospesa, speriamo non si addormenti mai!’ pensa un bambino scappato all’aperto da un rifugio, dopo che sono piovuti missili. Ed ecco che alle spalle della magica casa spuntano due ali ripiegate su un lato e appoggiate su una nuvola. Il bambino esclama: “Oh no!”
La mamma è sorpresa quanto lui: “Che succede, Roberto? Altri missili in arrivo?”
“No, mamma… è che lassù, dove c’è la casa sospesa, mi sembra di vedere due ali di un angelo, ma lui non c’è!”
“Secondo me è andato a soccorrere qualche bambino come te!”
“Sì ma poi come fa a risalire lassù, a proteggere la casa, se non ha le ali? Forse usa un pezzo di missile caduto al suolo, ci monta a cavallo e gli ordina di salire lassù?”
“No, Roberto, non potrebbe mai, un missile lanciato per far del male non potrebbe mai essere utilizzato da un angelo!”
“E allora quell’angelo come farà a tornare a vegliare la casa? Senza di lui c’è pericolo che la abbattano… Oh no!”
“Sei così sicuro che ci sia solo lui a pensare a tutti? Il suo capo avrà mandato altri angeli sulla Terra a proteggere i bambini, mentre lui resta lì a difendere la casa sospesa.”
Roberto non è affatto convinto. “Io, mamma, ho paura invece che alcuni soldati gli abbiano sparato e abbiano colpito le sue ali!”
“Impossibile, Roberto, chi usa le armi non può vedere gli angeli, solo i bambini come te riescono a vederli!”
“Allora neppure tu lo vedi!”
La mamma assume un’espressione mesta: “È così, io vedo la casa di neve ma non le ali né l’angelo guardiano.”
Roberto non ci sta: “Ma tu sei una persona buona!”
“Credo di sì, figlio mio, ma solo le anime innocenti come la tua riescono a vedere cose che per noi adulti sono invisibili!”
Roberto è perplesso. “Non so, devo informarmi: voglio comprare il potente RDI e fartelo bere, così poi dopo mezz’ora ti guarderò gli occhi e vedrò che risultato mi darà!”
La mamma è stupita: “E che cos’è mai questo RDI?”
Roberto gongola, ha trovato un argomento in cui ne sa più della madre! “R-D-I significa ‘rivelatore-di-innocenza’. Da quando c’è questa guerra una ditta che crede nella pace lo ha messo in commercio, basta berlo e vedere poi se nell’iride appaiono per alcuni secondi dei cerchietti chiari…”
La mamma è curiosissima! “E perché? Che cosa sono quei cerchietti?”
“Con una potente lente di ingrandimento si vedono bene: sono le mani di tanti bambini, unite a cerchio, e significano fratellanza, pace, fiducia totale nel prossimo, capacità di donare un sorriso, capisci? Chi ha questi cerchietti nell’iride dopo aver bevuto l’RDI ha un animo innocente come quello di un bambino.”
“E allora io non posso avere i cerchietti, sono un’adulta…” conclude rassegnata.
Roberto continua a non essere convinto, ha un sussulto. “A proposito della casa sospesa, ora ho capito, sai l’angelo che cosa ha fatto?” È illuminato da una certezza. “Quelle ali servono a tenere sospesa la casa, forse l’angelo le ha messe così per mantenerla ben in equilibrio!”
La mamma acconsente, ma adesso è lei a non essere persuasa: “Speriamo sia come dici tu… da quella casa misteriosa, credo, dipende la nostra salvezza… Chissà chi la abita, vorrei tanto saperlo…”

Torniamo ad Asia, che è appena rincasata e informa Felice, il marito: “Ho neutralizzato solo il primo pericolo, ho appena cambiato il mio cognome, ora resta il problema maggiore… il tuo cognome!”
Asia e Felice decidono di fare un viaggio in uno dei Paesi che hanno dichiarato guerra a un altro. Hanno un piano preciso…
Giunti in quel territorio lontano, correndo ogni rischio si dirigono al palazzo del capo militare, il comandante supremo delle forze armate. E qui accade un fatto che avevano previsto…
Requisito il passaporto di Felice Guerra, il comandante scopre cosa significa quel nome nella sua lingua. È una rivelazione per lui! Tanto che dopo pochi istanti gli propone: “Uno che si chiama Felice Guerra vincerà certamente questa guerra! Vuoi dirigere i nostri eserciti?  Ti avverto però, se rifiutassi l’incarico… verresti ucciso.”
Asia, rimasta ad ascoltare, si fa avanti e alla presenza dell’interprete gli dice: “Io sono Asia Dolce, sa cosa significa il mio cognome, qui, adesso? Glielo dico io: significa che non potrà mai esserci dolcezza ma solo terrore nell’Asia e nel mondo, se lei con i suoi eserciti vuole distruggere lo Stato che ha invaso.”
Irritato dal suo coraggio, il generale la fa sbattere in carcere sotto gli occhi di Felice che, per tutta risposta, comunica la sua decisione al comandante: mai dirigerà il suo esercito.
Anch’egli viene segregato in una cella, ma non in quella della moglie.
Poiché però Asia e Felice si amano profondamente riescono a comunicare nonostante la distanza…
Felice tira fuori dalla tasca il suo nuovo cognome, Pace, che ha segretamente    fatto cambiare al municipio. Nello stesso momento Asia, bravissima nel creare frasi a effetto, ne inventa un’altra: “Una sola pace può raggiungere molti più risultati di cento guerre.”
Il marito legge il pensiero della moglie e chiede di riparlare al comandante.
“Ci hai ripensato? Bene! Ne sono proprio contento e…” - attenzione bambini… - “che la Pace sia con te!”
Subito dopo aver detto così il comandante si blocca sconvolto…  ma che cosa ha detto? E per quanto si sforzi di cambiare frase non riesce a pensarne una diversa!...
Allontanandosi da Felice, invece, ritrova la sua solita cattiveria. Ma vicino a lui ora c’è Asia… Il comandante si accorge di provare una strana pietà per tutti i suoi prigionieri, anzi contagiato dalla mitezza di lei pensa anch’egli: “Una sola pace può raggiungere molti più risultati di cento guerre...”
Che cosa mai è accaduto? La presenza di Asia e Felice, persone Buone, ha prodotto il cambiamento… Il comandante è improvvisamente stanco della sua tragica vita, e così depone ogni ostilità. E dai nomi dei due prigionieri ricava un motto: Sia Dolce e Felice la Pace.
Proprio in quel momento, a Cerapace, Roberto esclama: “Guardate lassù!”
La casa di neve si sta sciogliendo… e dal suo interno ecco apparire… tutte le Buone Azioni che ha custodito, e che l’hanno preservata dai bombardamenti durante la guerra... Sono state compiute da mamme papà medici volontari bambini e anziani… Ogni Buona Azione ha un numerino che indica a quante persone ha portato beneficio… Pensate, su una di esse figura scritto ‘120.000’! Chi l’ha compiuta deve aver salvato un’intera città!
“Ma perché la casa si è sciolta?”
“La guerra è finita e tutti devono vedere quanto Bene è stato fatto!” gli risponde il papà.
“Però quelle Buone Azioni sono tutte anonime!”
“Certo, non devono far inorgoglire chi le ha compiute.”
“A proposito, pa’, lo sai che ho fatto il test dell’RDI alla mamma?”
“E che cosa è risultato?”
Roberto è avvilito. “Nessun cerchietto… ma perché quell’RDI era scaduto!”
Allora il papà piega le gambe, si abbassa fino al livello del figlio e gli parla con franchezza. “Non preoccuparti, la mamma vedrebbe benissimo l’angelo guardiano della casa sospesa, e le sue ali…”
“Ma?...” Roberto non capisce perché suo padre stia sorridendo.
“Il problema, vedi, è che da un po’… le è calata la vista!”
Roberto scoppia a ridere, abbraccia il papà.
E Asia e Felice dove sono? Tornati in patria notano subito la differenza: il loro paese si chiama ora… Cepace! (Scusatemi, neppure io me n’ero accorto!) E come la neve al suolo intrappola le polveri sottili e preserva la terra dai parassiti e dalle gelate, così la neve di cui era fatta la casa sospesa ha intrappolato… le polveri e le cariche esplosive delle bombe, salvando tutto l’azzurro del cielo, il profilo azzurro di monti lontani, i sogni azzurri dei bambini. Ma la casa di neve ha salvato anche tutta la flora e la fauna azzurre, come la genziana, l’aquilegia, il giglio africano, il gelsomino azzurro, la ghiandaia azzurra, la farfalla morfo blu, l’airone azzurro; gemme come lo zaffiro, l’acquamarina, la tanzanite; il Giudizio universale, il celebre affresco di Michelangelo con lo sfondo azzurro, i cieli azzurri di Van Gogh, il Cavaliere azzurro dipinto da Kandinskij…
Roberto è preoccupato: “Papà, i miei sogni sono azzurri? Altrimenti la casa sospesa non li avrà salvati! E poi la casa in quale luogo li conserva se ora non c’è più?”
Voi che dite? Il papà è un uomo pratico. “Vedi, Roberto, ora che è tornata la pace è più importante che noi facciamo tante nuove Buone Azioni!” Alla fine fa un patto col figlio: “Ti prometto che ogni tua Buona Azione produrrà un sogno azzurro!”
Un angelo vorrebbe mettergli sotto il cuscino una poesia di Ada Negri, Sinfonia azzurra, ma non fa in tempo: Roberto, stanchissimo, già dorme… chissà se i suoi sogni sono azzurri! I vostri come sono?

*

1-C’è poi la Letteratura, anzitutto, a spalancare nuovi orizzonti sulla realtà. Proust diceva che con la sua opera lo scrittore mette a disposizione del lettore una lente d’ingrandimento, con la quale può guardare dentro di sé e scoprire cose che, diversamente, mai potrebbe cogliere.
2-Per l’attuale situazione nello Yemen rinvio a https://greenreport.it/news/geopolitica/nello-yemen-ora-e-guerra-a-bassa-intensita-situazione-migliorata-ma-e-ancora-disastro-umanitario/
3-Imbarcazione lunga non oltre i dieci metri, agile e veloce, dal profilo affilato e, come la gondola, asimmetrico; frequentemente adibita agli spostamenti privati delle famiglie patrizie
4- Parte essenziale dello squero (nota seguente), era la costruzione in legno coperta e prospiciente sul piano inclinato di varo; comprendeva la zona lavoro e il deposito attrezzi
5-Piccolo cantiere navale (dal dialettale squara, la ‘squadra’ usata dai maestri d’ascia, o dal greco σχάριον, ‘tavolato, scivolo da varo’). Nel ‘500 gli squerarioli, penalizzati dalle decisioni del governo veneziano, non curavano più le grandi navi da mercato e da guerra, riservate ormai all’Arsenale, ma si occupavano della lavorazione e riparazione delle piccole imbarcazioni a remi come gondole, sandoli, pupparini, mascarete, s-ciopòn.
6-Magistratura vitalizia, culmine del cursus honorum, candidava al dogato. Dal 1442 il numero dei Procuratori di San Marco venne fissato a nove. Divisi fin dal XIV secolo nelle tre Procuratie (de supra, de citra, de ultra), amministravano i beni della basilica di San Marco, dei minorenni e degli inabili, e controllavano l’esecuzione dei testamenti. Dal 1516, allo scopo di finanziare le guerre, la carica fu concessa attraverso vendita, il che comportò nomine di Procuratori in soprannumero. Di esse ci danno puntuale riscontro i preziosissimi Diarii di Marin Sanudo.
7- “Sei in ambasce come un condannato a morte? Tranquillo, tu non hai fatto niente”. Il proverbio ‘essere fra Marco e Todaro’ (ma vi sono anche altri detti collegati a queste colonne) si ricollega all’usanza di eseguire le pene capitali su un palco montato fra le colonne di San Marco e San Teodoro – poste fra la Libreria Marciana e il Palazzo Ducale - e alla condizione quindi di chi si trovava tra di esse
8-Il 25 aprile, giorno del patrono San Marco, si celebra anche la festa del bòcolo, in cui ogni veneziano regala alla propria amata un bòcolo, un bocciolo di rosa rossa, come pegno del suo amore. Trae origine da una leggenda risalente, della quale esistono diverse versioni, univoche tuttavia nella conclusione. Secondo una di queste Maria, figlia del doge Angelo Partecipazio (IX secolo), ricevette dal cavaliere Orlando una rosa bianca, macchiata però del sangue del suo amato Tancredi, caduto in battaglia; il giorno dopo, il 25 aprile, viene trovata morta col fiore insanguinato sul petto
9-Nell’aprile del 1529 Venezia, parte della Sainte ligue stretta a Cognac nel 1526 (da non confondere con la Lega Santa promossa da Giulio II e firmata a Roma nel 1511), era indebolita dalle ultime vicende della guerra in corso contro l’imperatore; poco dopo avrebbe partecipato alla pace di Cambrai o ‘delle Due Dame’, che sancì il dominio asburgico in Italia, firmata il 5 agosto del 1529 da  Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e da Margherita d’Austria, zia di Carlo V (ma il delegato della Repubblica, Sebastiano Giustinian, non firmò)
10-Con decreto del 1528, doge Andrea Gritti, il Consiglio dei Dieci affiancò al ducato lo scudo d’oro, per far fronte alle pressanti necessità belliche
11- Benedetto Varchi, Storia fiorentina, Libro X, p.294, Colonia 1721
12- Carlo Ridolfi, Vita del Tintoretto, Casimiro libri 2017, p.11
13- Josif Brodskij Fondamenta degli incurabili, Adelphi 1991, cap.2. Perseguitato in Unione sovietica, imprigionato ed esule, fu premiato col Nobel nell’87. Legatissimo a Venezia, città simbiotica della sua natale San Pietroburgo, volle essere sepolto nell’isola di San Michele. Proprio presso Fondamenta delle Zattere è stata posta una targa in suo ricordo
14-dal nome di un dolce, la ‘scaleta’: pasticcere.
15- chi aveva un banco di frutta













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