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Michele Zanetti
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - romanzi
Primo classificato
Orti dei Dogi
-Romanzi-
Di origine ferrarese, classe 1947; diploma di perito industriale.
Si occupa da almeno cinque decenni di ricerca sulla biodiversità e sul paesaggio territoriali.
È autore di numerosi volumi su temi naturalistici.
Ha collaborato alla redazione di importanti volumi scientifico divulgativi, tra cui Laguna di Venezia (1995), Sile (1999) e Piave (2001).
Si occupa inoltre di didattica delle scienze naturali ed ha svolto una intensa attività di formazione e di divulgazione rivolta ai docenti.
Tra le opere di narrativa pubblicate figurano la raccolta di racconti Storie d’acqua.
Racconti di fiume e di laguna e i romanzi La ballata di Temi (2015), Il custode (2017), L’estate di Ivan (2019), La Gigia del pass (2021) e La prima vita di Elsa (2023).
È presidente dell’Associazione Naturalistica Sandonatese e risiede a Musile di Piave (VE).

Nicolina Ross - già presente edizione:





Orti dei Dogi
-Romanzi-
Presentazione

Il romanzo narra le travagliate vicende umane di una piccola comunità di diseredati, confinata in un villaggio di baracche, costruito in una sorta di terra di nessuno, in località Calvecchia, nel comune di San Donà di Piave, immediatamente dopo la fine della Primo conflitto mondiale.

Gli stessi abitanti gli assegnano il nome di Matausen, poiché esso ricorda agli emigranti di ritorno le sequenze di baracche che ospitavano in quella località tedesca gli operai italiani impegnati nel lavoro in miniera, nei primi anni del Novecento.

Vi si racconta di Romeo, ragazzino che cresce nella disagiata realtà del villaggio, le cui vicende di vita si intrecciano con quelle di personaggi, che l’ambiente e il disagio trasformano spesso in tragiche e grottesche maschere, destinate a recitare su un palcoscenico desolante e, al tempo stesso, durissimo, spietato e senza speranza.

A salvare Romeo dalla deriva interiore, dopo alcune drammatiche esperienze adolescenziali, sarà un lavoro duro, svolto nel ventre dei burci, presso il porto fluviale di Noventa di Piave; ma anche un amore ricambiato e una nipotina, nata orfana per la perdita del giovane padre nella guerra di Grecia.

Il destino lo costringe infine ad affrontare, generosamente e per necessità, l’improbabile esperienza del ladro di galline, rimanendone vittima e dovendo per questo subire una dura condanna al carcere e la deportazione in un campo di lavoro nazista.

La storia si dipana tra il novembre 1919, anno in cui vengono costruite e assegnate le baracche e il novembre 1966, anno in cui un’alluvione, rimasta nella storia recente del Basso Piave, cancellerà per sempre una realtà collocata ai confini della realtà umana, sociale ed economica del territorio.

Il romanzo si divide in due parti: la prima in cui si narrano le vicende di vita di Romeo, prendendo spunto dalle frasi dialettali di un suo singolare diario; la seconda in cui la nipotina Adele, ormai divenuta maestra elementare ed erede di quel diario, racconta in prima persona della sua infanzia al Matausen e della drammatica fine del villaggio.


ANTOLOGIA DEL MATAUSEN



Due parole in premessa; forse necessarie

Certe storie sono difficili da raccontare e se non fosse che nel raccontare c’è l’essenza stessa dell’uomo e del suo essere “primate culturale”, forse non ne varrebbe neppure la pena e sarebbe da lasciarle annegare nel fluire del tempo, come milioni di altre.
Sono difficili perché non si sa da dove cominciare, perché nel momento in cui ci si addentra nell’animo dei personaggi, si scopre che esso è come un oceano, con abissi profondi e bui e superfici luminose. Perché mentre la storia si dipana e prende quota e si dispiega e fluisce nei suoi mille rivoli, ci si accorge che i protagonisti non sono esclusivamente umani, ma che con essi interagiscono l’ambiente, il contesto, il luogo o i luoghi che ne costituiscono la patria materiale e spirituale. Ma anche perché tale è la sua ricchezza di episodi e di eventi, che risulta poi difficile a chi le ascolta e le deve tradurre in memoria scritta, discernere quali tra questi valga la pena esaltare e fissare nel racconto.
Ecco perché certe storie sono difficili da raccontare.
Se poi a tutto questo si aggiunge il fatto che i protagonisti sono già partiti da tempo per l’aldilà, che i testimoni, ormai vecchi, spesso non sono concordi nel restituire a chi scrive i loro ricordi d’infanzia e ancora, che la storia che stiamo per raccontare è giunta del tutto casualmente fino a noi e lo ha fatto in forma di memoria autobiografica del protagonista, il quadro risulta esaustivo. Una memoria scritta, oltre tutto, in forma incerta da un uomo che, pur comprendendo l’italiano, parlava esclusivamente il dialetto veneto del Basso Piave e a cui la povertà aveva concesso una istruzione che non andava oltre la terza elementare. E scritta, per di più, su fogli di carta gialla; su quei fogli che in passato le macellerie di paese conservavano appesi ad un gancio sul bancone delle carni, pronti per avvolgere il macinato, la carne da brodo, le bistecche e quant’altro. Fogli ritagliati e cuciti con una lesina e un filo di refe a formare una sorta di rustico quaderno. Fogli sgualciti, macchiati, decorati dalle geografie di muffe e di macchie d’umidità e tuttavia ancora e quasi del tutto leggibili. Fogli che, per quel tempo e quei luoghi, devono aver costituito un piccolo e singolare oggetto, o meglio un’opportunità, cui affidare, pur se con lessico incerto e spesso sofferto, la propria testimonianza di vita, a futura memoria. Con la speranza evidente che qualcuno, alfine la ritrovasse, nel doppio fondo di quel cassetto, in quel mobile sgangherato e relegato alla funzione di porta utensili e oggetti, nella cantina di una vecchia abitazione in rovina, già visitata innumerevoli volte da vandali occasionali e cercatori d’oggetti e di cimeli d’altri tempi.
Che dire di più: nulla. Soltanto che, nel raccogliere, nell’accettare questo dono della sorte per tentare a nostra volta di imbastire una storia, ci sentiamo fortunati. Abbiamo insomma la sensazione di essere i legittimi eredi di un minuscolo patrimonio di memoria, di un’autentica testimonianza di vita e di sofferenze, non meno che d’impegno e di lotta. Essendo in qualche misura ormai convinti che sì, quel singolare quaderno era destinato a noi e a nessun altro. E se una bottiglia con il messaggio che porta è affidata alle onde e alle correnti dell’oceano e dunque al caso assoluto circa l’eventuale recapito in mani interessate, in questo caso tutto era invece scritto; e il destino aveva deciso a priori che il destinatario fosse chi sta scrivendo. Perché i diari scritti dagli uomini per altri uomini sono destinati soltanto a chi intende raccontare e far riemergere alla luce fatti, emozioni e accadimenti che possano suscitare a loro volta emozioni, accendere la scintilla dell’immaginazione e lasciare un sedimento emotivo e cognitivo. Cose, insomma, che possano assumere il valore di insegnamenti, sedimentando in quella speciale percezione consapevole della storia locale e del passato di ciascuno, che ogni individuo porta con sé e custodisce, come qualcosa da cui non si può e non si deve prescindere.
Per tutte queste ragioni, abbiamo infine deciso: noi ci proviamo. E lo facciamo, innanzitutto e semplicemente, perché la storia che faticosamente i trentasei fogli riemersi alla luce ci hanno raccontato, ci ha affascinato; essendo fermamente convinti che essa debba appartenere alla memoria collettiva della gente di qui, del Basso Piave. Gente il cui passato troppo spesso sembra fermarsi e incrostarsi sugli scogli dei tragici ricordi di una Grande Guerra. Tragedia che ha distrutto una realtà sociale, culturale e ambientale, per restituirne una di miseria che nessuno, appunto, ricorda volentieri e che costituisce invece la palude da cui sono germinati gli alberi che costituiscono le colonne del presente.

Il nostro modesto lavoro di cronisti dell’inimmaginabile, comunque, non si è avvalso di una sola fonte, bensì di due distinte voci. Voci diverse per genere, età e fase storica. Perché quando il diario del protagonista s’interrompe, troncandosi improvvisamente per cause che abbiamo faticosamente ricostruito, ecco subentrare nel racconto una testimonianza diretta. Una voce viva, di ragazzina, che racconta l’esperienza vissuta accanto a lui, al protagonista, essendone nipotina; e che lo fa con l’ingenuità e la sensibilità di una bambina che quotidianamente si ritrovava a condividere lo stesso ambiente, le stesse sofferenze e le stesse angosce, ma con una capacità di stupirsi e di cogliere aspetti, talvolta grotteschi, altre volte semplicemente divertenti, che all’adulto sarebbero di certo sfuggiti.
La bambina ora è una donna che ha vissuto e che si è staccata dal mondo a parte di cui stiamo per raccontare, quando l’intera realtà ebbe ad essere travolta da eventi che non si potevano fermare, né contrastare. Un’anziana insegnante elementare, che avendo saputo riscattarsi dalle miserie di una patria ingenerosa, ha speso la propria vita di lavoro per rincorrere i figli degli ultimi lungo le strade che rischiavano di farli perdere irrimediabilmente.
Da lei abbiamo innanzitutto raccolto queste parole:
“Tra qualche anno appena, morti gli ultimi che ebbero a conoscere quella singolare, drammatica e irripetibile realtà, si perderà memoria del Matausen di Calvecchia.
È un pensiero che mi assilla, questo, lo confesso; un pensiero che mi rode dentro, con inesorabile insistenza, nel silenzio delle notti insonni che tormentano i vecchi. Quasi si trattasse di qualcosa che dovrei in qualche modo risolvere e a cui sento che dovrei porre rimedio. Per lasciare un’eredità di memoria, non tanto mia, ma loro: di coloro, cioè che ebbero a condividere con me, bambina, quella singolare esperienza umana, di vita. E per sentirmi finalmente in pace con il mondo che tra non molto dovrò lasciare; per sentirmi, insomma, assolta dall’aver adempiuto ad una sorta di dovere morale.
Già, ma assolta perché? Quante sono, in fin dei conti, le cose, i personaggi, le situazioni, gli episodi di vita memorabili, che gli uomini consegnano senza troppi complimenti all’oblio? Quanti gli affreschi grandiosi, prolissi di personaggi memorabili per umanità o per scelleratezza, che vengono consegnati con apparente indifferenza e talvolta persino con complice consapevolezza, all’abrasione del grande taumaturgo che abbiamo chiamato tempo?
Tanti. Tanti come le stelle; perché tanti sono nella vita di un solo essere umano gli eventi e i personaggi degni di memoria. E tanti sono stati nel corso della mia vita, nell’intero secondo Novecento: il secolo più convulso e forse il più tragico, che la storia dell’Umanità abbia mai conosciuto.

(continua)
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