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Nicola Tonelli
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - romanzi
Nato a Dolo l’anno in cui Hemingway divenne immortale, prende il nome dal più grande tennista italiano dagli occhi azzurri.
Laureto a Ca’ Foscari, insegna matematica presso l’Istituto Luzzatti di Mestre.
Appassionato e studioso di storia, letteratura e folclore locale, autore di alcuni racconti brevi e romanzi apprezzati dal pubblico.
Tra le pubblicazioni realizzate: Cucina di storie volumi 1,2,3,4,5,6 casa editrice Terra Ferma curati da Annalisa Bruni; Gocce di Emozioni 2 casa editrice Laboratorio ds; il romanzo: “Il pittore Inquieto e la ragazza del fiore”, Edizioni Santi Quaranta, Treviso 2015; il romanzo: “Quella volta che Buffalo Bill venne in Italia”, Edizioni Lo Squero, Venezia 2019.
Finalista e ai primi posti su vari concorsi letterari.
Orti dei Dogi
-Romanzi-
Sinossi

Ho conosciuto Cesare Musatti in una delle sue ultime apparizioni in pubblico. Era vecchio, con la bombola di ossigeno per aiutare la respirazione, ma aveva una personalità così coinvolgente che a distanza di quarant’anni ho voluto dedicare questo romanzo a lui. Pochi sanno che è il padre della psicoanalisi in Italia, forse solo gli addetti ai lavori, e molti meno che è nato il giorno in cui Freud era passato, ignaro, sotto le finestre della gestante. Questo libro non vuole percorrere l’intera sua vita, peraltro piena e intensa, ma solo pochi anni che, a parer mio, hanno inciso profondamente nelle sue scelte. Tanto è successo nel breve arco di tempo dal 1918 al 1927 per Cesare e per tutta la popolazione. I reduci sono tornati dalla prima guerra mondiale, feriti nel corpo e nell’anima. La tanta voglia di ricominciare ha riportato il sorriso nei volti dei meno giovani. Un nuovo mondo stava lentamente ricominciando. Gioie e dolori per il giovane Musatti segneranno le sue scelte, fatte tuttavia sempre con il sorriso ironico.



Vita di Cesare
Cesare Musatti 1918-1927


UNO
– IN TRENO -


La tradotta, con la locomotiva che tirava e tossiva come un vecchio minatore, lo stava portando a casa. Nel vagone i sedili di legno e il corridoio erano occupati da tanti giovani ancora in divisa che gridavano la gioia d’essere ancora vivi. C’era un’euforia che permeava ogni centimetro di quel vagone, alimentata anche da borracce di sgnappa che passavano di mano in mano, gresa e aspra come  i contadini che l’avevano prodotta.
Qualcuno, ormai imbriago, accennava qualche passo di danza senza musica, caracollando crollava contro un commilitone che lo respingeva con forza contro un altro e così via, finché, sballottato cadeva sulle gambe di chi stava seduto. Già a Vicenza i pochi civili che avevano occupato dei posti si erano spostati in altra carrozza, brontolando la loro disapprovazione verso quei giovani soldati, bifolchi e ciaciaroni.
«Che toco de tose xe le vicentine.» diceva un ragazzo che aveva ancora i brufoli sul viso.
«No te conossi le padovane.» gli fa eco un baffettino che teneva il braccio al collo.
«Le montanare le ga certi culi.» grida un alpino generando l’ilarità della carrozza intiera.
C’era una gran puzza di sudore e tabacco umido, ma per loro era meglio del profumo di casa, quando le donne facevano ea issiva.
Cesare sedeva accanto al finestrino con la fronte appoggiata al vetro, umido di condensa, e guardava il cielo tingersi di azzurro. Il treno stava correndo incontro al sole che stentava sorgere. Cumuli di nuvole bianche assomigliavano alla schiuma delle onde nell’oceano. Ricorda le nuotate al Lido insieme a Luca e Oreste e alle belle giornate passate sotto l’ombra della capanna. Chissà suo fratello Riccardo quanto sarà cresciuto; l’ultima volta gli stava sotto le spalle. Uno  scricchiolo che aveva paura della sua ombra.
Inspirando a pieni polmoni gli sembrava di percepire il profumo delle sarde in saor e il sapore dolciastro della cipolla caramellata. Non gli pareva vero di tornare a casa, sentiva una stretta al cuore tanta era la felicità di poter riabbracciare sua madre, le zie il nonno.  E suo padre. Ma avvertiva anche lo spaesamento di chi torna dopo una lunga assenza. Era stato solo un anno al fronte e sei mesi a Roma nella caserma di addestramento, ma era come se ne fossero passati dieci di anni da quando aveva lasciato Campo Santa Maria del Giglio. E adesso che faccio? Pensava con la testa vuota, e quasi a leggergli il dubbio che lo assale gli risponde il vicino di posto.
«Semo vivi.»  
Si chiamava Giovanni Moscon e era  caporale e suo attendente della quarta batteria del quinto reggimento d’artiglieria da campagna. Un suo subalterno, ma a questo Cesare non ci badava. Non era la mostrina che lo faceva diventare ufficiale di artiglieria, non si pavoneggiava come i pari di grado. Rimaneva sempre con la truppa, consumando il rancio seduto su una piera e ascoltando i racconti dei soldati.
«No vedo ora de cavarme stà palandrana che me rosega i cojoini e stì scarponi e ndare par campi.» continuava il vicino «E lei signor comandante che pensa di fare?»
«Non lo so.» aveva risposto senza staccare la fronte dal finestrino.
«Mi fasso un signor bagno, me vesto da festa e vago al Dolo in serca de na putea da basar.»
Lui, al circolo ufficiali di Vicenza, lo aveva già fatto il bagno. Lungo. Caldo. Senza tempo. Fortunato Giovanni che aveva un sogno a cui aggrapparsi. Vorrebbe anche solo una briciola di quella spensieratezza. Un grammo di leggerezza di cuore e invece la mente frulla pensieri in continuazione.
Quella parvenza di felicità non nascondeva a Cesare il trauma che quei ragazzi avevano subito. Li conosceva tutti per nome, quelli vivi, presenti nel vagone, ma anche quelli morti, presenti solo nei suoi pensieri.
Moscon non riusciva a tener ferma la gamba destra e doveva premere la mano per bloccare il tremolio. Quello in piedi, accanto al predellino, aveva uno spasmo facciale che gli faceva strizzava gli occhi in continuazione e quell’altro, che faceva el spacon, sistemava con ripetizione il ciuffo corto di capelli.
Vivere in trincea, appostati sui monti con la paura di essere colpiti da un cecchino austriaco, essere bersaglio di bombe di giorno e di notte e vedere il proprio compagno morire dilaniato li aveva fatti crescere in fretta.
Lui, nei momenti peggiori, aveva imparato a estraniarsi dalla realtà. Chiudeva gli occhi e le bombe diventavano funzioni, i reticolati parentesi, le pallottole numeri da sommare, moltiplicare, dividere. La sua matematica lo aveva salvato dal perdersi nel lato oscuro della mente e non farne ritorno.
«Semo rivai.» dice l’attendente alzandosi dal sedile.
«Dove?» chiede stranito Cesare uscito dal suo mondo.
«A Padova. Mi smonto comandante e prendo la tranvia fino a Dolo. Là trovo mio padre col carretto che me porta casa.»
Anche Cesare si alza, prende lo zaino del caporale e lo porge infilando due formaggelle che il comando gli aveva dato.
«Cosa fa comandante? Sono sue, le ha guadagnate.»
Cesare lo abbraccia e lo stringe a sè come un fratello o, più ancora, come un padre con il figlio.
«Ti vengo a trovare.» dice con gli occhi annacquati.
«Ghe conto comandante.».
Quando si staccano sorridono entrambi.
«Quando el vien ghe offro salame de musso e una pasta con ragù de oca che la farà lacrimare de gusto.»
Il controllore, un omone dalla divisa scolorita e il viso paonazzo fa capolino dalla porta del vagone.
«Padova!» grida per farsi sentire. «Cinque minuti di sosta. Prossima fermata Venezia, Santa Lucia.»
Giovanni si avvia all’uscita e con lui molti altri che continuano con gli scherzi cretini anche quando sono sul marciapiede.
Un cenno di saluto con la mano e già il soldato scompare tra la folla di civili, di  divise, e gonne svolazzanti. Alcuni di loro abbracciano il figlio tornato, o la fidanzata, o la moglie. Altri chiedono, forse gli era stato detto che il loro ragazzo sarebbe tornato con quel treno, ma nessuno può dar loro un aiuto. Così Cesare li vede imbaucaii, fermi in mezzo a tutta quella contentèza, in cerca con gli occhi chi deve arrivare.
Lentamente, sbuffando, il treno ricomincia a muoversi e, prima di lasciare la stazione, vede lo sguardo ammiccante di una bella ragazza che lo osserva.


(continua)

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