Pierpaolo Fiore
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Orti dei Dogi - narrativa
Vive da sempre nel comune presilano di Acri (CS).
Laureato in Economia Aziendale presso l’Università della Calabria, lavora nell’amministrazione dell’OMCeO della provincia di Cosenza.
Appassionato di lettura, con particolare predilezione per i generi storico, avventura, giallo, naturalistico.
Da sempre scrivere è stato un suo desiderio, per questo da qualche anno ha iniziato a mettere su carta storie che prendono spunto dal proprio vissuto e dalla realtà che lo circonda.
Ha partecipato, con vittorie, piazzamenti e altri riconoscimenti, a concorsi letterari con dei racconti che hanno avuto la fortuna di essere inseriti nelle relative Antologie. Attualmente fa parte della Giuria dei Lettori del Concorso Letterario "Prepotto".
I racconti dello Schioppettino"
Orti dei Dogi
-Narrativa-
La rossa deve morire
L’umidità e il freddo di quel luogo, ormai, le si erano insinuati nelle carni arrivando fino alle ossa. Aveva perso la cognizione del tempo. Non sapeva più né in quale giorno della settimana si trovasse né se fosse giorno o notte. Era obbligata a vivere fra quattro mura di pochi metri quadrati, senza aperture verso l’esterno, al fievole chiarore di qualche torcia che filtrava dalla fessura presente sotto la massiccia porta, che da quando l’aveva varcata non era stata più aperta. Le facevano compagnia scarafaggi, altre creature striscianti e famelici ratti, con i quali doveva competere per quel poco di pane che le passavano, di tanto in tanto, dallo spioncino della porta insieme ad una ciotola d’acqua. Il tanfo dei bisogni fisiologici, costretta a liberare sul pavimento, era diventato insopportabile. Lei stessa emanava un effluvio rancido di sudore misto a quello degli altri umori corporei. Rannicchiata su un nudo e duro tavolaccio che fungeva da letto, con le lacrime che le rigavano il viso, non riusciva a darsi una spiegazione del perché si era venuta a trovare in quella situazione. Continuava a chiedersi che cosa volessero da lei quegli uomini, penetrati nella modesta casa che divideva con le due sorelle, per incappucciarla, legarla mani e piedi a un palo e trasportarla, violentemente, nel luogo dove si trovava in quel momento. Non riusciva a individuare nessuna colpa da espiare perché potesse, anche minimamente, accettare quello che stava patendo.
Nell’Anno del Signore 1493, dopo che i genitori persero la vita per difendere quel poco che avevano da una delle tante incursioni perpetrate dai Grigioni nei territori vallivi compresi tra Varese e Como, la loro già non felice esistenza divenne ancora più problematica, tanto che, spesso, il loro arrabattarsi non era sufficiente a metter insieme il pranzo con la cena. Lei, Isotta, non ancora quindicenne, era la più grande e come tale si sentiva responsabile delle sorelle, in particolare della minore per la sua salute molto cagionevole, le cui, non rare, impennate febbrili erano causa di violenti crisi che le alteravano lo stato di coscienza. I primi tempi furono molto duri. Non avevano parenti stretti se non una vecchia zia del padre che, contattata dal prete, si rifiutò di occuparsene. Per tirare avanti, Isotta iniziò a proporsi, presso le famiglie più abbienti, per svolgere i lavori più disparati e umili. Si inventò lavandaia, mungitrice, mietitrice, cameriera, ricamatrice. Quando non era impegnata in queste attività, si dedicava al piccolo orto dietro casa o andava nel bosco a raccogliere castagne piuttosto che more o mirtilli o fragoline o altri frutti selvatici che la natura, nel susseguirsi delle stagioni, offriva. Prodotti che, se non venivano da loro consumati, cercava di vendere al mercato. Proprio qui conobbe la persona che cambiò la sua vita e quella delle sorelle.
Seduta in un angolo del nudo pavimento, con le spalle poggiate al muro e le ginocchia a fare da base di appoggio al mento, mentre i denti le battevano per il freddo, pensava intensamente alle sorelle. Avrebbe voluto sapere se era stato riservato loro il suo stesso destino e trattamento. Se così fosse stato era consapevole che non avrebbero resistito molto, soprattutto Fiammetta, la più piccola, la più bella, ma la più fragile. Nei momenti di assopimento sognava di riabbracciarle, di parlare con loro, di andare insieme al fiume a prendere l’acqua, di ridere a crepapelle per qualsiasi cosa che consideravano buffa, di pettinare loro i lunghi e lisci capelli color delle spighe di grano mature, che lei non aveva ma che gli invidiava tanto. I suoi erano ondulati, ma ciò che li caratterizzava di più era il colore, un acceso rosso fuoco. A causa di esso, da piccola si arrabbiava per i nomignoli con cui veniva additata dai suoi coetanei. Da maschiaccio qual era, tante volte aveva reagito, anche venendo alle mani, per un “testa di carota o di mattone o di fiamma”. Proprio questa sua caratteristica le fece balenare in mente il motivo del perché poteva essersi venuta a trovare in quella situazione. Le vennero i brividi, per lei sarebbe stata la fine. Scrollò la testa in modo violento come se ciò potesse annullare o allontanare il pensiero appena fatto.
Quel soleggiato primo sabato di dicembre dell’anno successivo alla scomparsa dei genitori si trovava al mercato con un cesto di corbezzoli che aveva raccolto rischiando di rompersi l’osso del collo al limitare di un dirupo, dove la pianta da cui provenivano era, miracolosamente, attecchita e cresciuta. Vicino a lei c’era una signora piuttosto attempata, ma dall’età indefinibile, che non aveva mai visto prima e che proponeva, ai potenziali acquirenti, erbe essiccate per la preparazione di decotti e ampolle contenenti pozioni già pronte per essere assunte. Febbre, mal di denti, nausea e vomito, dolori alle ossa, ferite infette, debolezza, erano i malanni che prometteva di risolvere o, quanto meno, di alleviare. La signora, dal viso grifagno, dalla figura snella e scattante e dai candidi capelli, di tanto in tanto si girava verso di lei regalandole dei larghi sorrisi. Non ne capiva il motivo ma si sentiva attratta da lei, una forza misteriosa la costringeva a osservare ogni suo gesto e ad ascoltare ogni sua parola. Quel giorno, contrariamente agli altri, a casa avrebbe portato il cesto vuoto, i rossi frutti erano stati venduti prima che l’arco solare segnasse il mezzodì. Quando stava per andarsene, la signora dei rimedi le si avvicinò e le mise in mano una boccetta contenente un liquido denso e scuro. Quello che le disse, con una cadenza che non apparteneva alle genti di quel luogo, la lasciò a bocca aperta: “Fai bere a tua sorella un sorso di questo preparato la mattina appena si sveglia. Nel giro di qualche giorno si sentirà meglio. Quando finirà te ne darò ancora, basta che segui il percorso dei caprioli fino alla triforcazione e poi la stradina a sinistra che prendi quando vai a raccogliere i lamponi e mi troverai”. Con cesto e boccetta in mano, se ne andò sbigottita. Chi era costei per sapere ciò che faceva e della cattiva salute di Fiammetta? Tornata a casa raccontò tutto alle sorelle, impegnate in quel momento una a mondare una verza e l’altra a rigirare nella pignatta la zuppa di cipolle. La più piccola si strinse nelle spalle nel senso di non saper dare una risposta, mentre secondo Gemma la signora aveva seguito i loro movimenti ed era venuta a conoscenza dei malesseri della sorella tramite qualcuno del borgo. Questa risposta non la convinse, non combaciava con il trasporto che aveva sperimentato verso di lei. Quel liquido amaro e color della pece, di cui decisero di provare gli effetti, dopo una settimana rinvigorì Fiammetta a tal punto da cambiarle il corso delle giornate, prima passate per lo più sdraiata per mancanza di forze e dopo a essere più attiva nell’aiutare nelle faccende domestiche e anche nei lavori esterni. Una specie di miracolo, considerando che diminuirono anche quei violenti attacchi che le stravolgevano corpo e spirito.
La quarta domenica di avvento, Isotta decise di andare a cercare la sconosciuta signora per ringraziarla per quello che aveva fatto per la sorella. Si avvolse nel mantello appartenuto al padre per proteggersi dal freddo pungente che spirava da nord. La bianca coltre aveva già adornato le cime più alte ed era palese che non avrebbe tardato a spingersi più giù. Arrivata allo spiazzo colonizzato dalle piante di lamponi iniziò ad andare avanti e indietro cercando di scorgere dove la signora potesse abitare. Nulla. Non c’era nessuna traccia o indizio che portasse a lei. Non restava che tornare indietro, aveva paura di inoltrarsi nel fitto bosco che faceva da cornice a quella radura e che non conosceva se non per le tante tetre leggende che si raccontavano su di esso. Come si girò per riprendere il sentiero la vide, era al margine della selva che le faceva segno di raggiungerla. Si era adattata a vivere in un rifugio in legno la cui parte posteriore finiva all’interno della parete rocciosa dove era addossato. Varcando l’uscio fu come entrare in una casa fatata. Erbe e piante di ogni tipo pendevano dal soffitto dove erano state messe a essiccare, contenitori e vasi di creta erano in bella mostra su dei ripiani rudimentali in tavolato, su un braciere un paiolo sbuffava vapori giallognoli, pentole e pentolini appesi alle pareti, un coniglio appena macellato penzolava a testa in giù da una pertica posizionata sopra un acquaio. Un odore inebriante riempiva tutta la casetta. La fece accomodare su una panca e le offrì delle nocciole tostate mischiate a del miele. Non aveva mai assaggiato una cosa così squisita. Le raccontò dei progressi fatti da Fiammetta da quando stava assumendo quella preparazione, ma anche della vita tribolata che conducevano. Della signora seppe che si chiamava Wihelmine e che proveniva da un villaggio della Confederazione Svizzera che confinavano con il Ducato di Milano di cui la loro valle faceva parte. Uscì da quel rifugio con un’altra boccetta piena del preparato prodigioso e con il coniglio che la signora disse, a una sempre più stupita Isotta, di aver preparato appositamente per loro che non mangiavano carne dalla dipartita dei genitori.
Il suo agitato dormiveglia fu interrotto da un trambusto di passi e voci davanti la porta della sua prigione. Due guardie entrarono e la fecero alzare dal duro giaciglio. Bruscamente, la spinsero fuori. Sentì una fitta dolorosa agli occhi per l’intenso chiarore da cui furono colpiti dopo esser stati per tanto tempo alla quasi completa oscurità. Venne condotta in uno stanzone che fungeva da biblioteca e in cui, su una delle pareti, in un camino squadrato ardevano degli enormi ceppi di legno. Un’improvvisa sensazione di benessere l’avvolse, ma accompagnata dalla consapevolezza che ciò non sarebbe durato molto. Una delle porte si aprì e vi entrarono due uomini. Quello davanti era alto, magro, aveva corti capelli neri, pizzetto e con indosso paramenti ecclesiastici, l’altro, invece, di statura media, tarchiato e calvo, portava sotto braccio dei libri che poggiò su un tavolo sul quale un candelabro con sette candele illuminava, insieme alle fiamme del focolare, la stanza. I due si accomodarono alle sedie che erano dietro al tavolo mentre lei rimase in piedi con le guardie al suo fianco.
“Dove sono e come stanno le mie sorelle?” “Perché mi trovo qui e vengo trattata come una bestia?”. Chiese Isotta.
Le sue domande furono ignorate. Il peggiore dei sui sospetti si palesò quando venne ordinato ai carcerieri di bendarla. Solo uno sguardo era temuto perché reputato ammaliante: quello delle streghe. Il prelato aprì uno dei volumi, la copertina riportava la scritta Malleus Maleficarum , l’altro, posate sul naso delle rudimentali lenti, iniziò a scrivere su una spessa pergamena: A.D. MCDXCVI, Martius VIII. Nel momento in cui le venne chiesto di giurare sui quattro vangeli sulla veridicità delle risposte che avrebbe dato alle loro domande, non vi erano più dubbi del perché si trovasse lì. Le fu chiesto in primo luogo delle sue origini e di quelle dei suoi genitori, se questi fossero in vita o, in caso contrario, la causa della loro morte. Dopo queste domande iniziò la vera e propria inquisizione.
“La gente ha timore di te?”.
“Perché mai dovrei intimorire gli altri?”.
“Le domande le faccio io. “Sei una strega?”.
“No”.
“Sei a conoscenza di episodi di stregoneria nel luogo in cui vivi?”.
“Mai sentito o visto niente del genere”.
“Credi nel Demonio?”.
“Si”.
“Crede all’esistenza delle streghe che operano per conto del Demonio?”.
“No”.
“Se non esistono, coloro che sono condannati al rogo per stregoneria sono innocenti?”.
“Se vengono condannati per stregoneria, si”.
“Quindi l’attività che anch’io faccio e le condanne che anch’io infliggo secondo te sono ingiuste?”.
“È ingiusto tutto quello che viene fatto contro la parola di Dio”.
“Confermi di essere una Strega?”.
“No”.
“Che vai a fare nel bosco nelle notti di plenilunio?”.
“A raccogliere erbe medicinali”.
“Ti hanno vista danzare mentre infuriava un temporale”.
“Falso. Se mi sono trovata sotto un temporale era per mettere in salvo qualcosa che si stava bagnando”.
“È vero che prepari pozioni magiche?”
“No, nessuna magia. Solo semplici rimedi per i più comuni malanni fatti con prodotti forniti dalla natura”.
“I miei uomini hanno trovato in casa tua delle zampe di coniglio, a che servono?”.
“Non conservo zampe di coniglio in casa”.
“Te lo chiedo ancora una volta, sei una strega?”.
“Ancora una volta dico di no”.
L’inquisitore ordinò di portarla via.
Quell’esperienza l’aveva così turbata che una volta rinchiusa in cella prima dovette svuotare il già vuoto stomaco dai succhi gastrici che, attraversandola, le bruciarono la gola, per poi sciogliersi in un pianto irrefrenabile. Capì che per lei era impossibile uscire da quella situazione. Si sentiva inerme di fronte a quelle accuse ma allo stesso tempo vittima di qualche complotto. Il suo pensiero era sempre diretto verso le sorelle e la loro sorte, chiedendosi se fossero state oggetto dei suoi stessi addebiti. Rispetto a lei, Gemma e, soprattutto, Fiammetta erano fragili. Il loro equilibrio psichico sarebbe stato subito compromesso, declinando verso un punto di non ritorno. La pena che provava per loro, con le quali formavano un tutt’uno, era di gran lunga superiore al suo stato di dolore fisico e morale. Stava vivendo nella realtà quello che a volte, si vive in un brutto sogno e ciò che, in nome di Dio, molte altre sfortunate donne avevano patito prima di lei. Si era sempre chiesta come potessero uomini di fede perpetrare le crudeltà riservate a coloro che erano ritenute streghe. Ma lei e quelli della sua stessa classe sociale non erano a conoscenza di come tutto fosse nato. Non sapevano del contenuto delle bolle Super Illius specula di Papa Giovanni XXII e Summis desiderantes affectibus di Papa Innocenzo VIII, ignoravano che erano state scritte perché l’istituzione che rappresentavano si sentiva minacciata dai culti e dai riti precristiani ancora praticati da chi, abitando da sempre nelle zone rurali, non aveva avuto contatti con i grandi centri urbani. La chiesa cattolica non ammetteva nessuna concorrenza. Erano all’oscuro anche di quanto scritto nel Formicarius , secondo il quale i poteri magici sono riscontrabili, comunemente, nelle donne, più facilmente ingannabili dal diavolo per la loro maggiore fragilità sia fisica sia mentale e, anche, per la loro sempre insoddisfatta libidine che le fa unire carnalmente agli spiriti maligni. Non potevano credere, nemmeno lontanamente, che uomini acculturati e ferventi cristiani avessero messo nero su bianco che la normale modalità attraverso cui ottenere le confessioni di stregoneria era la tortura. Non avrebbero mai creduto che molte di queste ammissioni venivano ottenute con la falsa promessa che, in quel modo, si sarebbero conquistati la salvezza. Nemmeno avrebbero potuto immaginare quello che sarebbe accaduto da lì a poco, quando un fanatismo collettivo fece moltiplicare le denunce per presunti casi di stregoneria, conseguenza delle quali migliaia di donne vennero imprigionate, torturate e condannate a morte perché accusate, dall’istituto ecclesiastico dell’Inquisizione, di essere seguaci di Satana. La donna divenne la personificazione del male assoluto, in particolar modo se erano sole perché mai sposate o vedove, se su di loro gravavano dicerie di ogni genere, se erano straniere, se erano povere o se invadevano gli spazi che i modelli predominanti attribuivano al genere maschile, esempio ne erano i campi della medicina, della scienza e della conoscenza in genere.
Dopo la prima, le visite a Wihelmine continuarono, per poi diventare una costante. Non solo Isotta, ma anche le sorelle iniziarono a recarsi in quel piccolo alloggio dalle sembianze magiche. Erano affascinate da tutto ciò che conteneva e dalle cose che la signora faceva. Fiammetta era attratta dai conigli, allevati in degli stabbi posti a un lato della dimora, a cui andava a raccogliere borragine, trifoglio, achillea e altre erbe di cui erano ghiotti. Gemma l’aiutava nella buona tenuta dell’orto e del roseto, con i petali del quale veniva preparato un unguento che risanava le ferite della pelle e, anche, un’essenza profumata di cui la signora, ormai, ne era pregna. Isotta era a suo più stretto contatto collaborando con lei nella preparazione dei rimedi. La signora la faceva partecipare attivamente, prodigandosi in dei veri e propri insegnamenti su come raccogliere, conservare e utilizzare piante e altri ingredienti con proprietà officinali. La iniziò all’allevamento delle api e alla raccolta del miele. Attività che scoprì piacerle molto. Amava curarsi dei piccoli e ronzanti insetti di cui non aveva nessuna paura. Realizzavano le arnie in ceste di vimini con la base stretta e l’imbocco largo, rese impermeabili con un rivestimento d’argilla, che appendevano capovolte ai rami degli alberi. Il prodotto di quelle instancabili lavoratrici, oltre a essere consumato da loro in vari modi, veniva utilizzato per rendere più gradevoli molti preparati altrimenti dal gusto amaro. Il primo rimedio che le permise di preparare con le proprie mani, facendolo con eccitazione ed entusiasmo, fu quello che aveva risolto i problemi di Fiammetta. Coriandolo, biancospino, tiglio, passiflora, rosa canina, assenzio erano gli ingredienti che venivano utilizzati per ottenere un liquido scuro che, una volta fatto ridurre su un debole fuoco e fatto raffreddare, si miscelava con miele e linfa di frassino. In breve tempo divenne una provetta erborista che sostituì in tante attività Wihelmine, anche nel proporre quelle produzioni al mercato, ma che non a tutti venivano venduti, per chi non se li poteva permettere costituivano dei regali.
Mentre si massaggiava i piedi che, ormai, per il freddo avevano perso la sensibilità, il passaggio che conduceva alla sua prigione fu invaso da un parlottio e da risate scomposte. La porta fu aperta, ombre ondeggianti anticiparono l’entrata di due uomini che le ordinarono di alzarsi. Sollecitandone il dorso con le punte di mazze flangiate, la fecero scendere per una ripida scala per poi essere introdotta in uno stanzone. Ciò che vide al suo interno le provocò un mancamento a causa del quale dovette farsi sostenere da une delle viscide pareti. Comprese che se ne fosse uscita viva le sue, già critiche, condizioni fisiche sarebbero peggiorate. In piedi, nuda, con mani e piedi legati, dimenandosi, subì la rasatura della fulva chioma, che venne buttata sui carboni ardenti di un braciere dove divampando ammorbò l’aria già greve del luogo. Dopo questo triste affronto, con i sensi tesi al massimo, cercava di afferrare cosa stessero confabulando alle sue spalle quel manipolo di uomini crudeli. Poco dopo capì. Preceduta dal tipico sibilo di una striscia di cuoio che fende l’aria, arrivò la prima frustata. Avrebbe voluto urlare, piangere, chiedere pietà, ma il suo orgoglio non glielo permise. Si chiese fino a quando potesse resistere prima di cedere alla pazzia o alla morte. La fustigazione continuò inesorabile, i colpi più insopportabili erano quelli ai fianchi, il dolore partiva dal punto colpito e le penetrava in testa. Al decimo colpo smise di contare, non ne aveva più la forza. Con la testa riversa in avanti sentì la voce del prelato che l’aveva interrogata: “Può bastare, ci serve viva per le altre prove della sua colpevolezza”. Quella frase la colpì come un’altra scudisciata. Pensò che altre prove come quella appena subita, che le avrebbero segnato o scarnificato la carne, non sarebbe riuscita a superarle.
“Sei una strega?”. Le chiese l’uomo, ponendosi di fronte e osservandone, avidamente, il corpo sinuoso.
“Ho già risposto a questa domanda”. Replicò Isotta con un fievole tono di voce.
Venne liberata dalle corde e di peso buttata su un tavolaccio già sporco di sangue dove, supina, le vennero imprigionati gli arti a delle cinghie fissate nel legno. Nonostante le ferite alle spalle le provocassero un’enorme sofferenza, non emise nessun lamento. Con un corto bastone su cui era innestato un sottile puntale di metallo, iniziarono con il pungolarle le braccia. Erano alla ricerca dello stigma diaboli, il punto del corpo insensibile al dolore che, secondo il manuale dei frati domenicani Kramer e Sprenger, rappresentava la prova di un patto fatto con il diavolo. Ogni volta che il pungolo bucava la pelle uno spasmo di dolore precedeva il liberarsi delle lacrime. L’insensibilità che da giorni aveva ai piedi era, per i suoi aguzzini, la conferma che fosse posseduta da una creatura malvagia. Dopo l’ennesimo diniego alla richiesta di confessare il suo essere una strega, esausta la riportarono in cella trattenendola per le braccia per evitare che cadesse. Fece in tempo ad adagiarsi su quel rigido giaciglio prima di essere travolta da una vertigine che le fece perdere i sensi.
Durante quella momentanea assenza di coscienza, la sua mente vagò nel passato, a quando, una mattina di primavera di quattro anni dopo averla conosciuta, Wihelmine comunicò loro che c’era bisogno di lei nel luogo di provenienza e che, a breve, lì sarebbe tornata. A nulla valsero le loro suppliche di non intraprendere quel viaggio rischioso per una della sua età, nessuna risposta ebbero alle tante domande che le fecero: “come o da chi ne avesse avuto notizia”, “quale mezzo avrebbe utilizzato”, “dove avrebbe fatto sosta”, “quando sarebbe tornata”. Una domenica, dopo la messa, andarono da lei ma non la trovarono. Aveva lasciato l’alloggio com’era sempre stato. Mancavano solo pochi vestiti, una forma di pane e una di formaggio. Erano incredule, se n’era andata senza salutarle. Le sorelle scoppiarono a piangere, lei no, era arrabbiata. Stava vivendo quel momento come un tradimento, con la signora al suo fianco si sentiva sicura e protetta, ora doveva iniziare tutto d’accapo proprio come dopo la scomparsa dei genitori. A differenza di allora, però, era più matura e anche le sorelle davano il loro contributo nella gestione della quotidianità. Sbolliti collera e smarrimento, la loro vita riprese come prima, sempre affaccendate nel fare qualcosa. L’unica differenza era che dovevano badare anche al rifugio di Wihelmine, dove continuarono l’attività officinale che le permetteva di racimolare qualche soldo nelle fiere o, anche, andando per le case. Fu proprio nell’abitazione di una coppia di fornai che Isotta si fece notare dal loro figlio, che se ne invaghì. Divenne per lei un vero tormento. Lo trovava dovunque lei andasse e con la prepotenza, forse data dal ruolo che ricopriva, scudiero di un arrogante signorotto, le disse che presto sarebbe diventata sua moglie. Aveva fatto male i conti, non conosceva la tenacia di quella ragazza che per lui non nutriva nessuna reciprocità amorosa, che anzi lo accostava alla crudeltà con cui il suo padrone governava i propri possedimenti. Forse fu propria questa parte della divagazione onirica che la fece rinvenire. Realizzò chi poteva essere stato a ordire quella trama contro di lei. Si sollevò mettendosi seduta, la schiena era in fiamme, la misera veste che indossava le si era attaccata alle ferite sanguinanti, i punti pungolati le facevano male, ma più che il dolore fisico quello che le dava più strazio e fastidio era l’umiliazione ingiustamente subita.
Quando quel primo settembre 1499 la porta si aprì, vide entrare le guardie insieme all’inquisitore, che le comunicò essere arrivato il giorno della verità, quello in cui, se fosse stata innocente, il giudizio divino l’avrebbe risparmiata dalle fiamme. Gli vennero i brividi, non tanto per la morte sicura che sarebbe sopraggiunta ma per il nuovo supplizio che avrebbe dovuto subire. Nel cortile della rocca si stava approntando il rogo. Fascine di paglia e di legna venivano affastellati intorno a un pilone che faceva da fulcro a una folla di curiosi disposta in cerchio. Venne legata al palo con le braccia dietro la schiena. In attesa che venisse dato il comando di appiccare il fuoco, che, secondo le credenze, avrebbe distrutto insieme anima e corpo della strega, lo sguardo di Isotta spaziava su quella gente che era accorsa e fra la quale vide, in prima fila, il volto soddisfatto di colui che aveva rifiutato e quelli delle sorelle, che cercavano, disperatamente, di andarle incontro, venendo, però, trattenute da un cordone di guardie. Subito dietro di loro fu attratta da un monaco con il cappuccio calato sulla testa i cui tratti del viso, da quel poco che si riusciva a vedere, le erano, decisamente, familiari. All’improvviso gridò “Wihelmine”, ma senza nessun esito, la sua doveva essere solo suggestione. Proprio in quel momento si udì il rumore del galoppo di cavalli che percorrevano la salita che dal borgo portava al maniero. Le truppe francesi di Luigi XII, che rivendicava il Ducato di Federico il Moro, dirette verso Milano, entrarono, prepotentemente, nello spiazzo portando lo scompiglio. Le guardie furono subito neutralizzate e fra queste lo scudiero del signorotto che, dopo aver saggiato il filo della spada di un soldato d’oltralpe, si trovò riversato a terra esanime. Gemma e Fiammetta corsero a liberare Isotta per poi stringersi tutte insieme in un lungo e commosso abbraccio liberatorio. Il tutto sotto gli occhi esterrefatti di chi aveva deciso la sua condanna al tormento del fuoco, senza, però, tener in conto quel giudizio divino, da lui stesso richiamato, che ne interruppe l’esecuzione.