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Sabina Tonin
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > Isole della Laguna - narrativa
Primo classificato
Isole della Laguna
-Narrativa-
Visual designer vive e lavora tra il Veneto e Budapest, amante della scultura, pittura, musica lirica e letteratura che pratica per diletto personale fino al 2020 quando decide di partecipare a numerosi premi letterari riportando 80 riconoscimenti nell’anno 2021 pubblica 4 romanzi.

Già presente edizione:





Isole della Laguna
-Narrativa-
La cortigiana honesta                





Capita, a volte, che Venezia scompaia nella nebbia, accade quando in inverno c’è alta pressione e l’umidità scorre sulle calli fredde. È allora che lo sciacquio delle gondole nei canali è sordo, avvolto nella nebbia come ovatta.
Tutti i rumori si attutiscono e non si ode il passo dei pochi temerari che osano avventurarsi tra ponti e campielli, dove basta un inciampo tra le pietre sconnesse per finire a mollo nell’acqua gelida dei canali.
Capita, quando si svolta da un sotto portego ad un altro, di imbattersi in qualche figura avvolta nel tabarro, appare come un fantasma e scompare poco dopo nell’androne scuro di qualche palazzo.
Capita di sentire sospiri e ansimi di passione senza capire da che direzione arrivano, si espandono nella nebbia senza rivelarsi, come segreti che nessuno potrà svelare, nascosti dietro una maschera che cela il peccatore che giace con qualche cortigiana, ma non nasconde il peccato.
Nelle notti di nebbia come queste, capita di imbattersi in un fantasma fermo all’angolo di una calle, oppure seduto sugli scalini di una chiesa o dondolante su una gondola silente che vaga senza meta. Sono i fantasmi di chi non ha detto tutto quello che c’era da dire, di quelli che sono stati ingiustamente puniti, di quelli che avevano un amore da ritrovare, di quelli che della morte si irridono e tornano per poi andarsene, in un eterno gioco di sfida tra la vita e la morte. Sono quelle notti in cui sento forte il richiamo alla mia Venezia, torno tra calli e campielli a cercare chi non è mai tornato, perché ne son certa: anche lui sta vagando come
me. Anche lui mi sta cercando per portare a compimento ciò che si doveva, ciò che il cuore comandava e che malevoli intendimenti altrui hanno impedito che si compisse.
Mia madre Paola è stata l’artefice della mia condanna all’infelicità, alla vita eterna e senza mai fine, al peccato, senza concedermi di espiarlo. Ero la sua unica figlia femmina e mi odiava per essere donna e per essere bella, affascinante e intelligente. I miei tre fratelli, Jeronimo, Horatio e Serafino erano i suoi pupilli, li adorava e quand’ero piccina non me ne davo pace. Erano brutti, Serafino era anche storpio e Horatio era cagionevole di salute, i suoi polmoni non sopportavano le notti di nebbia, ed erano anche poco intelligenti: forse lei li amava perché li compativa e riteneva che io avessi ricevuto molto più di loro dall’imprevedibilità della vita, che assegna virtù e difetti alla cieca, senza meriti o demeriti.
Mio padre Francesco Franco mi adorava, anche se probabilmente non ero figlia sua, avevo i capelli rossi e ricci e gli occhi blu come gli occhi della Madonna. Proprio per i miei occhi mi hanno chiamata Veronica, come la piantina dai fiorellini blu che chiamano “Gli occhi della Madonna” e che fiorisce a maggio nei campi della terra ferma ma anche nelle isole della laguna: ne ho viste distese infinite a Lio Piccolo e a San Giorgio. Lui e mia madre avevano lontane origini turche, ma si sentivano veneziani, tanto che in città erano considerati “originari”, cioè godevano di uno stato sociale intermedio tra la nobiltà e il popolo, erano discretamente benestanti. Erano “forestieri” integrati, come tanti nella Venezia di quei tempi, avevano capelli lisci, neri come la pece, e occhi profondi e scuri come le notti più buie.
Non ero di certo una mosca bianca, capitava assai spesso che le cortigiane avessero figli dai loro clienti e non dai loro mariti, e mia madre era una cortigiana. Ce n’erano tante di cortigiane a Venezia, quasi dodicimila, erano divise tra cortigiane oneste e cortigiane di lume.
Le cortigiane oneste erano considerate delle lavoratrici, né più né meno come le sarte o le fornarine, ricevevano in casa e i loro nomi erano elencati in un catalogo dove si potevano trovare i loro indirizzi e le loro tariffe.
Un bacio si pagava 5 o 6 scudi e il prezzo di un “servizio completo” si aggirava sui 50 scudi, mia madre era da tempo in cima alla lista e le sue tariffe erano le più alte, era molto richiesta e molte altre cortigiane si rivolgevano a lei per imparare i segreti del talamo. C’erano poi le cortigiane di “lume”, quelle che si vendevano nell’ombra dei portoni nei pressi di Rialto, costavano poco e non avevano tra i loro clienti nobili o mercanti, ma vogatori e pescatori.
È stata mia madre a decidere il mio destino, quando ancora non avevo tredici anni mi ha insegnato le arti più sopraffine per ammaliare gli uomini e farli cadere in estasi, è stata lei ad insegnarmi come rendermi unica e indimenticabile.
L’ho odiata per questo, l’ho odiata per tutta la vita e ho cercato con tutte le mie forze di allontanarmi dalla sua influenza, ma la mia educazione mi imponeva obbedienza.
Tutto il mio disprezzo glielo ho urlato ora che non sono carne, ora che siamo entrambe polvere.
E ho cercato di dissuadere tutte le madri che a me si sono
rivolte perché io avviassi le loro figlie al mio “mestiere”:
“S’ella diventasse femina del mondo, voi diventereste sua messaggera col mondo e sareste da punir acerbamente, dove forse il fallo di lei sarebbe non del tutto incapace di scusa, fondata sopra le vostre colpe”
Mia madre aveva preso un educatore che veniva in casa a istruire i miei tre fratelli e mio padre dovette imporsi contro la sua volontà per permettermi di assistere alle lezioni.
Apprendevo molto più in fretta degli sciocchi dei miei fratelli e conversavo amabilmente con il precettore in francese, mi restava anche il tempo per esercitarmi al clavicembalo e per comporre qualche sonetto.
«Io sono tanta vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno per avere occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ‘l mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi…».
Sognavo un futuro diverso da quello che mi era stato predestinato, la figlia di una cortigiana onesta, specialmente se bella e dotata di fascino, non poteva far altro che la cortigiana e a questo dovetti adattarmi.
Il nobile Domenico Venier fu il predestinato a cogliere la mia verginità, fu più doloroso il pensiero che mi fosse stata tolta la libertà di decidere della mia vita che il dolore dello stupro. Piansi tanto e nulla avrebbe potuto consolarmi, piansi così copiosamente che il nobiluomo ebbe compassione della mia disperazione e mi supplicò di perdonarlo: fu il primo e l’ultimo uomo al mondo che mi chiese scusa.
Credo che si fosse segretamente innamorato di me perché
da allora divenne il mio protettore, sceglieva i miei clienti e dovevano essere molto ricchi, ma c’era una condizione: dovevano essere delicati e dovevano essere stati educati e conoscere la filosofia e la storia. Non ce n’erano molti a Venezia, dove a scuola andavano poco più di mille ragazzi e altri mille erano i nobili che facevano studiare i figli a palazzo, e noi cortigiane eravamo sei volte tante.
Per fortuna c’erano i forestieri, mercanti, armatori e nobili di terre lontane, erano i prescelti per me da Venier, e poi c’erano pittori, architetti e poeti che frequentavano i migliori circoli letterari della città, circoli ai quali solo una donna era ammessa, e quella donna ero io.
Si costumava consegnare i proventi alle madri e così facevo io consegnandoli a mia madre che ne era sempre insoddisfatta, per lei avrei dovuto lavorare di più e concedermi anche agli ignoranti veneziani, purché ricchi.
C’erano i tessitori e i padroni degli squeri che pagavano bene, erano rozzi ma pagavano anche più dei mercanti.
Delle mie carni io non amavo fare mercè e pregavo affinché ci fosse un Dio che proteggeva le donne come me, che mi facesse incontrare un uomo che amasse il mio conversare, le mie carezze, e non la voluttà delle mie carni.
Credetti che fosse stato quel Dio tanto supplicato a far entrare nel mio letto il medico Paolo Panizza che mi chiese in sposa e che sposai al compimento dei miei sedici anni.
L’illusione di essere sfuggita alle brame di mia madre e di poter dedicare la mia vita alla poesia, alla musica e all’amore sincero durò ben poco, il mio sposo si rivelò essere uno sfruttatore peggiore di quanto non lo fosse stata mia madre.
Pretendeva che giacessi con clienti danarosi anche due volte al giorno e stava a guardare godendone.
Supplicai il mio mecenate, il nobile Venier di venirmi in
soccorso, ma mio marito era il medico del Doge Girolamo
Priuli e non volendo fare uno sgarbo al Doge, mi lasciò a
gemere di dolore e disperazione nel mio letto.
I clienti che mi portava erano tutti uomini rozzi e violenti, tutti, ma non Jacomo di Babelli, il mercante più ricco di Ragusa, sulle coste dalmate. Jacomo mi amava teneramente e conversava con me di filosofia, parlavamo degli antichi greci, uscivamo a passeggiare tra le calli quando si faceva sera e Paolo si attardava a visitare gli ultimi malati.
Tra le sue braccia mi lasciavo andare senza fare attenzione a dove spruzzava il suo seme che, come miele caldo, inondava il mio ventre: fu così che il suo seme mi ingravidò. Avevo solo diciotto anni quando ho partorito il mio primo figlio che nessuno riconobbe, né il mio sposo né il mercante dalmata che ne era il vero padre; dopo di lui ne ho messi al mondo altri cinque e solo tre sono diventati uomini, sono stati il dono più prezioso che ho avuto in vita.
Paolo era molto geloso e mal sopportava il mio lavoro, era molto più anziano di me e non era in grado di adempiere ai suoi obblighi matrimoniali. Quando il mio ventre si gonfiò a dismisura, per lui la vergogna fu insopportabile e chiese l’annullamento del nostro matrimonio, accusandomi di averlo ingannato e giurando di essere all’oscuro di quale lavoro io svolgessi. Mentiva, perché io ero regolarmente iscritta al registro delle cortigiane. Ma questa era solo la sua menzogna più piccola: era lui che sceglieva i clienti con i quali dovevo giacere ed era lui a trarne i benefici, riempiendo le sue tasche di scudi.
Sarei diventata una cortigiana di “lume” se da questo destino non mi avesse salvato il mio protettore, il nobile Domenico Venier che mi comprò una casa nel suo sestiere dove potei ricevere clienti facoltosi e crearmi una fortuna.
Ho sempre dubitato della sua buona fede, inizialmente avevo pensato che fosse segretamente innamorato di me, ma poi scoprii che aveva dato alla stampa un libro di sonetti che gli avevo corretto e tra i quali ve ne erano molti che mi aveva rubato, forse il suo interesse era spacciarsi per poeta.
Gli uomini entravano ed uscivano dal mio letto soddisfatti e la mia nomea di abile cortigiana si espandeva, potevo chiedere qualsiasi cifra per i miei “servigi” ed ero accontentata, se la tariffa per un “servizio completo” era di 50 scudi, io potevo chiederne 100 e anche di più, tutti pagavano di buon grado. Potevo permettermi quattro servitori e un precettore per l’educazione dei miei figli, far cucire abiti sontuosi come indossavano solo le nobildonne.
Ero diventata così famosa che ricevevo missive da tanti forestieri che prenotavano un “servizio” e che erano disposti a viaggiare fino a Venezia solo per godere delle mie grazie. Accettavo quelli che pagavano di più, perché questo mi permetteva di concedermi di meno e mi regalava il tempo per dedicarmi a ciò che più mi si confaceva e più mi piaceva: scrivere di poesia, conversare nei circoli culturali, incontrare altri poeti, pittori e musicisti.
Odiavo mia madre per avermi costretta a fare il “mestiere” ma per contro le ero grata, perché grazie al mio lavoro di cortigiana potevo permettermi di essere accettata come poetessa e non era cosa che avrei potuto fare, essendo donna, se non avessi avuto le mie grazie da offrire in cambio.
Non mi sono mai rassegnata al pensiero di restare una cortigiana per sempre, ho sempre coltivato il sogno di poter vivere di poesia e quando vagavo tra le calli nelle notti di nebbia in cerca di ispirazione, sognavo di scorgere nella nebbia un cavaliere che mi salvasse e mi portasse con sé in un mondo dove non sarei stata “Veronica l’honesta veneziana” ma “Veronica la poetessa veneziana”.
Ci credetti una sola volta nella vita, fu nel 1574 quando ero nel pieno fulgore della mia bellezza. Enrico di Valois, re di Polonia, sarebbe passato da Venezia lungo il viaggio per tornare in Francia dove sarebbe diventato Re con il nome di Enrico III. Il Doge Alvise Mocenigo organizzò grandi feste per accogliere il futuro re di Francia, doveva riacquistare prestigio per il suo dogato, prestigio che aveva perso nella battaglia di Lepanto, quando, nonostante la vittoria della flotta cristiana, fu costretto a cedere l’isola. Il suo non era un dogato fortunato, nel maggio di quell’anno un grande incendio devastò il Palazzo Ducale e un’acqua alta straordinaria e fuori stagione sommerse tutta la città con gravi danni; doveva scongiurare tutti questi eventi avversi mostrando la magnificenza della città nonostante tutto.
Incaricò l’architetto Andrea Palladio di creare delle scenografie che nascondessero le devastazioni dell’incendio e commissionò a Paolo Veronese e al Tintoretto dei dipinti da donare al futuro Re. Il Tintoretto mi ritrasse e il quadro fu ultimato giusto in tempo per l’arrivo di Enrico di Valois al quale fu donato. Enrico fu ammagliato dal mio ritratto e chiese di vedere la modella che vi era raffigurata, qualcuno lo sconsigliò di incontrarmi, ero una cortigiana e incontrarmi avrebbe nuociuto alla sua reputazione.
Ma tant’è, che quando si vuole impedire qualcosa a qualcuno che sta per diventare l’uomo più potente della sua Nazione, ecco che quell’uomo pretende che qualsiasi suo desiderio venga esaudito, e così ci incontrammo, e quel giorno stesso giacemmo per ore nel suo letto.
Enrico era un uomo tenero, il suo sguardo era dolce e le sue labbra sapevano baciare come mai ero stata baciata.
Si sarebbe dovuto trattenere a Venezia solo per tre giorni, ma il desiderio di accompagnarsi a me lo fece restare per undici giorni, giorni in cui ci amammo da mattina a sera e da sera fino al mattino seguente. Mangiavamo nel grande letto e tra un amplesso e l’altro recitavo per lui i miei sonetti.
“Manderò un messaggero a mia madre, le annuncerò che ti porterò con me, sarai la mia concubina, resterai per sempre al mio fianco.”
Fu un’illusione per entrambi, sua madre era Caterina De’ Medici, il destino dei suoi figli lo avrebbe deciso solo lei e per Enrico avrebbe deciso che una cortigiana non sarebbe mai stata concubina di un Re, non contava la bellezza, non contava l’intelletto, contava solo la buona reputazione presso tutte le Corti europee. Enrico partì una mattina di luglio per far ritorno in Francia, era una mattina di un luglio caldissimo in cui il sole non filtrava nella coltre umida e carica di afa. Enrico mi sussurrò all’orecchio dolci parole d’amore e mi promise che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo, e io gli credetti perché era quello che anche il mio cuore voleva. Gli donai un mio ritratto in miniatura da portare al collo, due sonetti e poche righe di commiato. Il suo vascello scomparve velocemente avvolto nella nebbia mattutina, la sua immagine si perse e fu per sempre. Nella primavera del 1575 partorii un figlio, forse figlio di un Re, ma il destino, saggio e crudele al tempo stesso, non lo fece sopravvivere che poche settimane: lo rimpiansi per tutta la vita.
Da allora cominciarono le mie disgrazie, quell’anno la peste tornò a Venezia, io ero debole per il difficile parto e mi fu consigliato di lasciare la città malsana e rifugiarmi sulla terra ferma con gli altri miei figli. Dopo due anni, nel 1577, la peste sembrò sconfitta e tornai nella mia casa a Venezia dove avevo lasciato i miei servi, che invece di custodire i miei beni, mi avevano derubata di ogni cosa e per difendersi dalle mie accuse pensarono di attaccarmi, denunciandomi all’Inquisizione e accusandomi di stregoneria. A loro dire mangiavo pollo, uova e formaggi nei giorni di magro e tenevo una bisca in casa, come se ne avessi bisogno! Avevo tali ricchezze che non avrei avuto bisogno di una bisca, ricchezze che i miei servi mi avevano sottratto e ora ribaltavano la frittata a mio discapito. Scelsi di difendermi da sola perché per me era un’occasione per denunciare quel che davvero meritava una condanna a morte, non certo mangiare carne di venerdì. Denunciai quanto fosse scandaloso che non si considerasse né peccato né reato, per esempio, che Maffio Venier si comprasse la carica di vescovo di Corfù e sfruttasse quella carica per arricchirsi, o che Marco Venier fosse incaricato di uccidere per conto della Serenissima un presunto traditore e che per questo non fosse sottoposto a giudizio. Ed urlai che dovevano essere condannati i nobili che stupravano in gruppo le cortigiane ritenendole indegne di rispetto, non era forse quella una vergogna ed una colpa?
Non è che sia giusto che sia salvaguardata la dignità di ogni persona?
“La vergogna è nell’alterigia di chi compra e non in chi vende il proprio corpo.”
Fui assolta e questo mi rese onore e rispetto e mi diede anche una grande soddisfazione: finalmente mi ero vendicata di Maffio Venier che invidioso della mia abilità poetica mi dipingeva come una prostituta infetta dalla sifilide. Lo avevo sfidato a un duello alle armi e a una gara poetica alle quali si sottrasse poiché non era abile di fioretto come me e tantomeno era alla mia altezza nel comporre versi. Ora il Tribunale dell’Inquisizione mi rendeva giustizia e il tribunale dell’equità delle cose mi avrebbe reso in seguito ulteriore soddisfazione, perché di sifilide fu lui a morire di lì a poco. Il tempo passava, i miei figli erano ormai adulti e non avevano più bisogno di me, la mia bellezza era intatta ma le mie carni, sotto le vesti, si inflaccidivano, finalmente era arrivato per me il tempo in cui nessuno avrebbe più pagato per entrare nel mio letto. Finalmente avrei potuto dedicarmi alla poesia e a fare del bene, a tentare di redimere chi peccava e a offrire aiuto alle cortigiane che versavano in disgrazia.
Chiesi al Consiglio dei Dieci di poter utilizzare i beni delle cortigiane più ricche che erano morte senza fare testamento per aprire un ospizio dove dare rifugio a quelle che tra loro volevano redimersi. Aspettavo con ansia che accogliessero la mia istanza e per questo non lasciai Venezia quando si ripresentò un’ondata di una sconosciuta pandemia, simile alla peste, che mi portò via da questa terra. Il mio destino si compì nei miei 45 anni, impedendo la mia redenzione e impedendomi di risentire le labbra di Enrico sui miei seni.
Per questo vago tra le calli nelle notti di nebbia, racconto la mia storia ad ogni ombra che incontro, perché non cada nell’oblio la speranza della redenzione, perché la dignità di ognuno sia rispettata.
E recito i miei versi alla luna che si specchia nella laguna, li affido alla nebbia che ne trasporti l’eco tra le sue gocce, anelando all’immortalità del pensiero.

Orti dei Dogi
-Narrativa-
Pretor                                                      





“Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?” (Matteo 6, 25-26).
Se non si può mettere in dubbio quanto ha detto il figlio di Dio, Gesù, e se è vero che San Francesco predicava agli uccelli, allora è altrettanto vero che gli animali hanno un’anima, e tra questi figli del Padre, gli uccelli come me sono tra i prediletti.
Ci sono anime che riposano in pace, e ci sono anime che pace non si danno, perché la verità è stata taciuta, e tornano nel mondo terreno fino a quando non rendono giustizia a chi ha patito sofferenza e ingiustizia: io sono tra queste anime senza pace.
Mi chiamo Pretor e sono un falco gheppio: “Gheppius eleonorae”, che alcuni chiamano falco della Regina. Sono nato sulle coste mediterranee dell’Africa e ho avuto una sola padrona che ho amato come una Regina: Selvaggia di Staufen.
Tra i diciannove figli di Federico di Svevia, Selvaggia era la sola figlia femmina naturale che Federico amò più di tutti gli altri figli, forse, perché sembrava la sua reincarnazione: aveva lineamenti aggraziati, occhi verdi e capelli rossi che crebbero folti e ricci. I geni normanni in lei si esaltavano, suo nonno Federico il Barbarossa ne sarebbe stato fiero.
Nel 1227 Selvaggia aveva appena due anni quando le sono stato dato in dono, suo padre mi aveva scelto tra i falchi della voliera della donna araba con cui l’aveva generata e tra me e lei fu subito amore, amore incondizionato, amore fedele e protettivo. Gli uccelli non accumulano cibo come fanno le formiche ma predano altri uccelli di giorno in giorno, solo per sopravvivere, sono fedeli e io e Selvaggia siamo stati fedeli uno all’altra per tutta la vita. Mi posai sul suo braccio e diventai una sua propaggine, fui sempre al suo fianco, anche la notte, per proteggerla e predare per lei che era così delicata che non ne sarebbe stata capace.
Vivevamo nel Castello del Monte nelle Murge pugliesi, dall’alto del colle si dominavano tutto intorno a perdita d’occhio le terre di Federico di Svevia.
Padre e figlia uniti dalla stessa passione per la falconeria, mi portavano a caccia nei boschi del Vulture e non era raro che io fossi più veloce del falco dell’Imperatore, Selvaggia saltellava felice ad ogni sfida vinta e suo padre ne era orgoglioso.
La prendeva in braccio, le baciava i riccioli rossi e si rammaricava che Selvaggia non fosse nata prima di suo fratello Manfredi, sarebbe stata degna di ereditare l’Impero di Svevia e il Sacro Romano Impero.
Fu durante una delle nostre cacce che Federico annunciò a Selvaggia che a breve si sarebbe sposata, aveva solo tredici anni. Appoggiato al suo braccio la sentii tremare, sapeva che quel momento sarebbe presto arrivato e sperava che suo padre l’avrebbe data in sposa al figlio del re magiaro Andrea II che aveva conosciuto durante un viaggio con il padre per cacciare con i falchi. Condividevano la stessa passione per la falconeria e Selvaggia si era innamorata della puszta e dei boschi della Pannonia. Quando il padre le disse il nome del futuro sposo Selvaggia quasi svenne, la ragion di Stato imponeva a Federico di darla in sposa a Ezzelino III il Tiranno che aveva oltre vent’anni più di lei. Dopo soli due giorni ci dovemmo mettere in viaggio per raggiungere Verona, dove l’attendeva il futuro sposo, si sarebbe sposata il 23 maggio del 1238.
Su Ezzelino si narravano cose terribili, si diceva che sua madre l’avesse concepito con il Demonio e che fosse nato con unghie e denti già lunghi, per non parlare della crudeltà nell’uccidere i nemici di cui si narrava con particolari agghiaccianti. Selvaggia piangeva sconsolata, anzi, singhiozzava, cercavo di consolarla picchiettandole con il becco la mano, anche la dama di compagnia cercava di calmarla dicendole che si trattava di leggende e che Ezzelino non era come lo dipingevano.
Ezzelino era nato nel castello di Anuaria, aveva le stesse origini di Federico II di Svevia, padre di Selvaggia e Imperatore del Sacro Romano Impero di cui era alleato, ed era costretto ad azioni crudeli per difendersi dal Papa che aveva lanciato una crociata contro il casato degli Ezzelini.
La prima notte di nozze fu devastante per la mia padrona, Ezzelino la prese frettolosamente e con violenza e così sarebbe stato per lunghi sei anni. Io non la lasciavo mai sola, nemmeno nelle notti in cui Ezzelino sfogava la sua violenza su di lei, pronto a intervenire se le cose fossero precipitate e lui le avesse fatto del male. Per nostra fortuna il Tiranno era spesso assente per le sue campagne di conquista, intento a costruire nuovi castelli e razziare città per ampliare i suoi già tanti possedimenti. Quando tornava prendeva il corpo della sua sposa senza neppure guardarla in volto, senza accorgersi che Selvaggia stava diventando donna, una donna di folgorante bellezza. Se suo padre veniva definito Stupor mundi, di lei si sarebbe potuto dire Stupor Universum. Ezzelino diceva che la presenza di un rapace come me nella camera da letto lo disturbava e di conseguenza soddisfaceva le proprie voglie e se ne andava. Durante le sue assenze amavamo vivere nel castello di Romano che sorgeva su un colle dal quale, nelle giornate in cui il cielo era terso, si poteva vedere fino al mare. Ezzelino non era riuscito ad avere un erede dalle precedenti mogli e lo voleva da Selvaggia, ma la mia padrona era convinta che lui fosse stato generato davvero dal Demonio e non voleva partorire un demone. Così, quando Ezzelino lasciava la sua stanza, lei si immergeva nell’acqua bollente dove aveva fatto bollire certe erbe che si diceva procurassero emorragia e scongiurassero una gravidanza. Ezzelino lo venne a sapere da qualche inserviente infedele e stranamente non si adirò, l’alleanza con il suocero era troppo importante e un erede di sangue imperiale avrebbe rafforzato l’alleanza: una garanzia contro i nemici. Ci portò sulla sommità della torre del castello che dominava il colle, era una giornata limpida e si vedeva la laguna con le sue isole.
“Le terre tutte intorno, fino ai monti alle nostre spalle e fino al mare, tutto quello che i tuoi occhi vedono mi appartiene. Saranno tue se riuscirai a darmi un erede.”
Selvaggia alzò il velo che portava sempre sul viso e Ezzelino si rese conto di quanto fosse bella.
“Le tue terre non bastano a far pascolare i miei cavalli e a far volare il mio falco.”
“Esaudirò ogni tuo desiderio.”
“Ricostruisci il castello di Anuaria dove sei nato.”
Ezzelino era furioso perché Selvaggia chiedeva qualcosa che ben sapeva che sarebbe stata impossibile da realizzare, il castello era stato distrutto in un assedio contro Ezzelino II e le pietre erano state utilizzate per costruire la chiesetta di Santa Margherita e le mura della vicina Cittadella, le poche pietre rimaste erano sprofondate nella palude che lentamente aveva inghiottito tutto.
Ritenne che la sua giovane sposa gli avesse mancato di rispetto e per punirla la rinchiuse nei sotterranei del castello, intenzionato ad ingravidare qualche serva che avesse occhi e capelli come Selvaggia e a far passare il frutto di quel tradimento come un figlio legittimo nato da lui e dalla mia padrona, che rinchiusa nella cella sotterranea sarebbe stata nascosta alla vista di tutti per tutto il tempo necessario.
Avrei voluto cavargli gli occhi, come poteva umiliarla così? Avrei voluto volare fino dall’Imperatore, ma il mio canto lo comprendeva solo San Francesco e la mia richiesta di aiuto non sarebbe stata ascoltata da nessuno: è stata la sola volta in cui ho maledetto la mia condizione di uccello, la sola volta in cui ho temuto di non riuscire a proteggere la mia padrona. Il mio sconforto durò poco: il giorno stesso trovai la soluzione.
Ezzelino aveva affidato ad un carceriere le chiavi della cella dove aveva gettato Selvaggia, era un uomo grande e grosso e poco avrei potuto fare con il mio becco contro di lui. Ma il momento buono arrivò all’imbrunire di quel giorno stesso, l’energumeno si appartò con una cuoca nelle cantine del castello, si tolse la giubba e la gettò a terra, un grosso mazzo di chiavi di metallo fuoriuscì dalla tasca e luccicò alla luce della candela, con un volo fulmineo agguantai la mia preda e mi involai verso la cella di Selvaggia. Lasciai cadere il mazzo di chiavi oltre la grata e Selvaggia, dopo vari tentativi trovò la chiave giusta. L’energumeno non fece parola sull’accaduto, temeva che la sua stoltezza avrebbe avuto una punizione terribile, così fece buon viso a cattivo gioco e si accordò con Selvaggia: quando Ezzelino avesse annunciato il suo ritorno, lei si sarebbe fatta rinchiudere nella cella e nessuno avrebbe mai scoperto nulla.
Di giorno, per non destare sospetti e non essere visti, restavamo all’interno del castello, di notte uscivamo a caccia nei boschi vicini. Fu così che Selvaggia conobbe l’amore, incontrando tra i boschi un giovane cacciatore.
Ezzelino, nel frattempo aveva avuto un figlio naturale da una serva del suo castello nel veronese ed era giunto il momento di fare ritorno a Romano per mettere in scena la “grande vergogna”: far passare quel figlio illegittimo per figlio di Selvaggia. Nessuno doveva essere al corrente del suo ritorno, tutto doveva accadere senza che nessuno vedesse niente, il giorno successivo sarebbe apparso nella piazza del castello con il neonato in braccio, annunciando la nascita del nipote dell’Imperatore del Sacro romano Impero.
Selvaggia giaceva nel suo letto con il giovane cacciatore e io svolazzavo tra i cipressi del giardino, avevo pudore di quei due giovani innamorati e non avevo nulla da temere, alla mia padrona quel giovane non avrebbe mai fatto del male. Mi avvidi dei cavalli che precedevano quello di Ezzelino all’ultimo momento e non feci in tempo a volare da Selvaggia che fu colta di sorpresa. Ezzelino sfoderò la sua spada e bastò un solo colpo per tagliare di netto la testa del giovane, poi si avventò sulla sua sposa e la strangolò con le sue mani mentre i suoi occhi diventavano rossi di rabbia. Stremato si sedette sul letto accanto alla sua sposa che giaceva nuda, coperta solo dai suoi lunghi capelli rossi, era un giorno di maggio del 1244 e Selvaggia non aveva ancora vent’anni.
Quando mi vide entrare in volo dalla finestra cercò di prendermi, fu una lotta furibonda, gli accecai l’occhio sinistro con il mio rostro e lo beccai furiosamente sul viso, tanto che ne restò sfigurato per il resto dei suoi giorni. Rimasi accanto a Selvaggia e decisi di seguirla nella tomba, ma poi accadde ciò che mi rese immortale. Ezzelino mandò un messaggero al suocero per portargli la notizia che la sua figlia prediletta era morta di parto dando alla luce il suo erede Pietro e che per accudire il nascituro avrebbe preso in sposa pochi giorni più tardi Isotta Lancia. Non potevo sopportare l’onta e il disonore di una menzogna e così divenni immortale, nell’attesa di incontrare un nuovo San Francesco che capisse il mio canto e il mio dolore per la perdita di un grande amore. Perché l’amore ha tanti volti e pervade l’anima di tutto ciò che ha vita: il sole, l’acqua, la terra, la luna, gli uomini e gli animali, anche i falchi come me.
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