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Silvano Visintin
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > leggere lagune - poesia
Secondo Classificato
Isole della Laguna - Poesia
Nato a Venezia nel 1949.
Maturità classica.
Laurea in Lettere.
Docente materie letterarie negli istituti superiori di Venezia dal 1977 al 2013.
Polisportivo: alpinista e  marinaio. E’ stato per vent’anni skipper in Mediterraneo e, lavorando nelle navi mercantili, ha effettuato per due volte il giro del mondo. Recentemente ha pubblicato alcuni racconti e poesie partecipando a concorsi letterari.
Già presente edizione:


Leggere Lagune
Felicità





Regina
della vita dominante
apparsa un attimo
lontana nella stanza
profumo solo
concedi alla speranza
e marci altera
ormai sfuggente

Ti insegue ognuno
cavaliere o fante
e la lor corsa
non è mai abbastanza
che invero richiesti
recitano poi ignoranza
benché ti desiderino
come fa un amante

Lo disse chiaro
Il filosofo colto
che di lacrime esplorò
l’intera valle
finalmente dal male sciolto

Effimera
come volo di farfalle
tu mai mostri il volto
solo possiamo scorgerti
ormai di spalle.



Guerra in Ucraina





Oggi è primavera
ma nel cuore è rimasta la sera
gelida come il vento della notte

La guerra imperversa

E questa giornata tersa
con fiori e gemme in ripresa
mi sembra perfino un’offesa
all’orrore di case devastate
e corpi a pezzi e donne violentate

Nel sole freddo ecco un raggio di gelo
Piove la morte: razzi dal cielo.

Neve


Lieve silente
come fosse accaduto niente
sorprende col bianco fatato
il mondo ora cambiato

Perfino la rabbia più nera
che ancora avvolgeva la sera
di tenebre iraconde
ora più lieta risponde
al mattino

Agli occhi ingenui di bambino
sorpreso dal felice girotondo
la manna veste il fondo
di tenere curve di mamma

Bianca luce pura perdura
e rende così vicini
i bianchi batufoli agli umani

Destini che volano lontani
e ritornano dopo essersi persi
Fiocchi di neve
Tutti uguali
Tutti diversi.

??




Perché ragione taci
Come statua che non risponde
ora che nell’immenso
mi sono perso?

Quante sono le onde?
Quanti i granelli di sabbia?
Quante le stelle dell’universo?

Scultura d’amore



Amore è una tortura
perché senza forma si sente
ti attraversa
ma non ha figura

Così complesso nel fondo
nascosto quasi represso
accende il girotondo
del fiato
con rinnovato ardore
ma non ha colore

Spirito divino?
Solo si dipinge
se al fianco hai vicino
un corpo che non finge
e a te solidale
tenero si stringe

Così si spiega l’ebbrezza
ipnotica e costante
che la mano indomita
disegna sulla pelle
quasi esitante
al tocco della carezza

La tua risposta complice
accende il segreto rito:
insieme il mondo non è finito

Da noi dipende
l’eterna impresa incredibile
Nessuna resa
ora è evidente l’invisibile

Obbligo di tacere
Estasi del piacere
che sorprendente dura

Nel vuoto galleggia
la nostra d’amore scultura.

Isole della laguna
-poesia-
In biblioteca Hugo Prat



Musicisti jazzisti
virtuosi artisti
superbamente preparati

Non pensano a suonare
sono dalla musica
suonati

Note che sgorgano nuove
improvvisate
da sopra il rigo e da giù

Magiche serate
il pubblico gode e si muove

Ma sono loro
che si divertono di più

In “Galleria delle cornici”



Flash nel profondo
come ti introduci
girandola d’emozioni
aperte sull’ignoto
tra silenzi e passi e morbide le luci
assorto ti fermi
al quadro quasi foto

Improvvisa si apre
ancora incerta la visione
e morbida incanta come fosse vera
dolce consiglia
quasi ipocrita l’illusione
che per un attimo
smarrito diresti sincera

Razionale poi subentra
scoperta la vergogna
e dichiara provocante verità:
l’arte è astuta menzogna
che cerca di svelare la realtà.

La Mostra del cinema



La mostra genera teneri mostriciattoli
Scalpitano affannati ogni mattina
indossano il migliore dei giocattoli
la pendente rossa tesserina

Anche quelli che avevi mai visti
chi tutti in nero o a colori sgargianti
son vestiti da grandi artisti
per stupire ammirati gli astanti

Un film l’hanno già premiato
è quello da sempre nei loro cuori
il più bello a lungo sognato
essere per una volta primi attori

Nella sala buia ecco i titoli d’apertura
La verità scritta come solco d’aratro
cancella dall’esistenza la nota dura:
nella vita tutto il mondo è teatro.

Lido notturno



Mille e mille
anni luce il viaggio

Stanotte finalmente
arriva il messaggio

Quel fotone
bacia
il mio neurone

La banalità che penso
è che solo così
il corso del raggio
ha preso senso

Nel cuore di un vecchio
in funzione di specchio

Col brulichio del cielo terso
pare sorridere l’universo.


Lido lungolaguna



E tu stridente gabbiano
che solo il verso acuto
lanci lontano
come da altri mondi venuto

Subito comincia la battaglia
conturbante incrocio di voli
concluso come asino che raglia
appena non siete soli

È feroce la contesa
il frullo lo sbatter d’ali
minaccia col becco l’offesa
fame è l’origine dei mali

Nessuno che funga da paciere
grosso che il piccolo allontana
la lotta è ormai senza quartiere
come chiede la natura pagana

Unica legge in questa corte
che non conosce pietà dei destini
è il becco e le zampe del più forte
che travolge femmine e pulcini

Nello schiamazzo che riempie la sera
mentre scivola la barca solitaria
mi chiedo se anche umani sono schiera
spinti dalla stessa boria che vedo in aria

Quando sei in basso verso terra
costretto dalla vita è il tuo salto
ma aperte l’ali fine della guerra
con l’aria pura voli più in alto.

Isole della laguna
-Narrativa-
Dal Quintino Sella a piazza Fontana
(La storia non è poi dal Lido così lontana)        




                                                             
Molti anni fa, passeggiavo con un amico scrittore, che viveva a Milano, lungo la vergine (non ancora alterata dal Mose) diga del faro degli Alberoni.
Era un pomeriggio di settembre inoltrato, con quella luce limpida pre-autunnale che trasforma il paesaggio in un magico schermo super HD. Quasi calma di vento e un morbido tepore solare, ultimo brandello di estate appiccicato al corpo, che ci aveva indotto a un coraggioso bagno rigenerante.
“E’ un vero paradiso - confermò l’amico, ritornati all’inizio della diga, dove le dune iniziano la danza spettacolare verso la pineta, in una natura che pare primigenia - Io davvero vi invidio… voi che vivete qui…. Però - aggiunse quasi a compensazione - non so se ci riuscirei… voi qui siete ….. fuori dalla storia.”
Salutammo l’orizzonte con un ultimo sguardo al mare calmo che pareva davvero indifferente ai destini degli umani. Saltellando sulle bici lungo i gradoni della diga, ci fermammo incantati ad osservare una barca a vela che rientrava. Eravamo sopra al quasi mimetizzato bunker (demolito nel 2012 per i lavori del Mose) conosciuto da tutti al Lido come il rifugio dei sub, quelli che raramente si potevano incrociare bardati di tute e bombole. Agli occhi di noi ragazzini erano circondati da un alone di leggenda, uomini temerari che affrontavano (anche di notte) le pericolosissime correnti della scogliera ai cambi di marea.
La gita quindi trovò un suo primo conforto nei cicchetti di “Benito” che ci accolse con la cordiale perenne afona voce.
Sono passati molti anni. Il mare al largo, il bunker, “fuori dalla storia”, rimbalzano ancora nella mia memoria. Ora, all’amico Marco, ormai purtroppo scomparso, dopo la lettura della sentenza della Cassazione sulla strage di Piazza Fontana, saprei cosa dire. Ma lui di lassù saprà già e allora voglio ricordarlo a voi.
Non dimenticate però il famoso “battito d’ala di farfalla”, in questo caso non applicato solo allo spazio, ma anche al tempo. Da lì intendo cominciare e non dite che la sto prendendo troppo alla lontana.

11 settembre 1943
Il giovane Oberleutenant (sottotenente di vascello) Klaus Degenhard Schimdt nel primo pomeriggio stava felicemente concludendo l’operazione EMTE (Mietitura, sic!) che i tedeschi avevano previdentemente preparato, in occasione della probabile defezione dell’Italia dall’alleanza, in effetti sancita dall’armistizio dell’8 settembre.
Partito il 9 settembre dal porto di Taranto, al comando delle motosilurante S 54 della Kriegsmarine con soli 5 siluri a bordo, fu affiancato dalla motosilurante S 61 e dalla motozattera MFP 478 attrezzata per la posa di mine 30 TMA/B (Magneto acustiche). Nel parapiglia della clamorosa svolta italiana che lasciò i comandi sorpresi, senza precise istruzioni e a volte incapaci di prendere autonome decisioni, l’ardimentoso comandante Schimdt, che per tale azione (4 navi affondate più 4 catturate) il 22 dicembre 1943 fu decorato da Hitler con la Croce di Cavaliere della Croce di ferro, assunse furbescamente il comando del convoglio. Sorprende che l’ammiraglio Brivonesi, al comando del porto, “per non avere beghe”, abbia concesso il permesso di lasciare la base situata nel Mar Piccolo di Taranto. Ancor più stupefacente, seppur coerente con la gran confusione del momento, fu la decisione di lasciar caricare ai tedeschi 24 mine depositate nei magazzini. Pare che nessuno sapesse cosa fare e che l’unica indicazione giunta dal comando sia stata “E’ roba loro, dategliele”. Riconoscenti, i tedeschi salpati nella notte, le lasciarono silenziosamente scivolare nelle acque del Mar Grande di Taranto, in quell’imboccatura che costituiva la necessaria porta d’ingresso per qualunque flotta.
Per rendere più chiara l’enormità dell’errore, ricorderemo che Taranto è detta anche la città dei due mari. Il Mar Grande è collegato alla terraferma dal Ponte girevole e dal Ponte di Porta Napoli. E’ detto anche “rada di Mar Grande” perché vi sostano le imbarcazioni in attesa di passare nel Mar Piccolo. Il Mar Piccolo è un mare interno, che dà vita ad una doppia insenatura ed è unito al Mar Grande da un canale navigabile a Est e dal canale di Porta Napoli a Ovest.
Così, in quella perfida danza di mine incocciarono il giorno dopo il posamine inglese Abdiel (150 uomini di equipaggio, 150 tn di materiale), il rimorchiatore italiano Sperone (150 uomini),il dragamine britannico MMS70. Inarrestabile, il sottotenente di vascello tedesco, fuori dal porto, catturò e affondò il piccolo dragamine ausiliario Vulcania.
Schimdt, poi, procedette a tutta forza, anzi a mezza, perché aveva un motore in avaria e quindi poteva navigare solo a 15 nodi, verso Nord. Il proposito era raggiungere Venezia, ma si sa che l’appetito vien mangiando. Persa la motozattera che dovette abbandonare, danneggiata da alcune reti, dopo un rifornimento a Dubrovnik, risaliva lungo la costa dalmata per poi riavvicinarsi all’Italia. Alle 3.00 dell’11settembre affondò, nei pressi di Ancona, la motonave Aurora (935 tns) recuperando 63 naufraghi. Al largo, le due motosiluranti tedesche incrociarono prima la nuova  motonave Leopardi (4500 tns) con circa 1500 persone a bordo, tra cui donne e bambini, che si arrese e divenne “preda di guerra” e quindi, a 30 miglia a Sud di Venezia, catturarono anche il piccolo e vecchio piroscafo Pontinia (1888). L’originale gregge proseguì poi verso il porto lagunare.

La stessa confusione che aveva paralizzato il comando del porto di Taranto dopo l’armistizio, aveva caratterizzato anche le mosse del porto di Venezia. Il comandante della base navale, Ferdinando di Savoia, aveva raggiunto il re, suo cugino, ed era stato sostituito dall’ammiraglio Emilio Brenta. I tedeschi avevano circondato Venezia via terra e Brenta aveva deciso di andare tutti in meridione, per raggiungere le truppe alleate. L’11 settembre il maresciallo Badoglio in persona telefonò al comandante, capitano di corvetta Corrado Cini, e gli ordinò di salpare senza indugi con il Regio cacciatorpediniere Quintino Sella, ormeggiato al molo dei Giardini e di far rotta verso Taranto per consegnare la nave agli inglesi.
La nave, costruita nei cantieri Pattison di Napoli negli anni ’20, aveva nella velocità uno dei suoi punti di forza (33 nodi). Al momento però, per un’avaria a una della caldaie, riusciva a procedere al massimo a 15 Nodi. Nonostante i frenetici restauri, denunciava tutto il peso delle sue gloriose 116 missioni di scorta per lo più in Egeo. Aveva portato gli incursori nella baia di Suda a Creta, dove il 26 marzo del ’41 venne affondato un incrociatore pesante inglese, lo York (6 barchini esplosivi guidati dal tenente di vascello, medaglia d’oro, Luigi Faggioni).
Ora però doveva impegnarsi in un trasporto forse ancor più problematico. Furono raccolti tutti i soldati italiani della guarnigione di terra, si aggiunse il personale dell’Arsenale e poi i feriti in grado di muoversi e non mancarono molti sbandati senza più comando. Furono riempite le stive e perfino i corridoi interni. Poi molti si sistemarono alla meno peggio sul ponte o sulla tuga. Perfino nella sala motori non rimase uno spazio libero. Insomma, una sorta di ansiosa Arca di Noè, composta da circa 2/300 persone, più i 125 membri dell’equipaggio, che tolse gli ormeggi alle 15,30 dell’11 settembre del ’43 e già alle 16,00, secondo la relazione ufficiale, si mise in rotta di sicurezza, incrementando la velocità. Tuttavia alle 16,30 un guasto alla caldaia 2 costrinse a ridurre la velocità a soli 14 nodi.
Poco dopo apparvero le navi Leopardi e Pontinia, cariche di militari e civili, che non suscitarono nessun allarme. Il comandante Cini non poteva vedere le due siluranti tedesche che Schmidt aveva mimetizzato dietro la fiancata del Pontinia, dopo aver imbarcato ostaggi italiani, con piratesca astuzia, per impedire a chiunque di segnalare il pericolo. Fu così che, poco dopo le 17, il Sella quasi sfiorò le navi, passando a circa 400 metri. Allora partirono i siluri. “Siluri!Siluri!” L’urlo risuonò in plancia unitamente all’ordine di aprire il fuoco contro il nemico e di accostare. Tutto inutile. Il timone non risponde, il fuoco delle mitragliere di sinistra non serve a nulla. 30 secondi e un siluro colpisce la plancia e il secondo centra in pieno la caldaia 1 che esplode. Sono le 17,45 il Quintino Sella si spezza in due. La prora affonda subito, la poppa continua la corsa per circa 200 metri poi si gira a sinistra, mostra le eliche ancora rotanti e cola a picco.
Il mare brulicava di fuoco, naufraghi e feriti. Un testimone oculare, ostaggio dei tedeschi (Sottotenente Francesco Toscano) così descrive la scena: ”Mentre annegavano nel fuoco, l’equipaggio germanico lanciava urla di tripudio. Alcuni si misero a sparare con fucili e pistole contro la nave che affondava e contro la gente che affogava. L’Oberleutnant cominciò a urlare come un ossesso per richiamare alla disciplina i suoi marinai. Li fece mettere sull’attenti e ordinò il presentatarm, per tributare in silenzio l’onore delle armi alla nave che affondava”
I naufraghi furono poi raccolti dal Pontinia, controllato dai tedeschi, dal Leopardi e da alcuni pescherecci accorsi sul posto. Nessuno sa esattamente il numero delle vittime oltre i 27 membri dell’equipaggio, si pensa circa 200 e incerta è anche la fine dei molti feriti, ustionati e mutilati. Il comandante Cini, sopravvissuto, ma cui venne amputata una gamba, fu poi internato con la grottesca accusa di aver aperto il fuoco contro i tedeschi. Migliore e curiosa la sorte dell’elettricista Vicentino (Tino) Maddalon di Arsiè, imbarcato dal Marzo 1941. Non tornava a casa da più di 30 mesi, si gettò dalla murata con altri prima di ormeggiare in banchina a Venezia. Aiutato segretamente da alcune donne, riuscì, dopo due giorni, a raggiungere finalmente casa.

A circa 10,5 miglia dal faro Alberoni-San Pietro, 45° 17’ 27” lat. Nord - 012° 34’ 58” long. Est.,
Il relitto giaceva inerme sul fondo sabbioso, conservando il suo triste carico di morti e l’abbondante fornitura di munizioni esplosive. Nessun giornale dell’epoca descrisse la tragedia e nell’immediato dopoguerra del glorioso Quintino Sella si persero le tracce.

Nel 1949, un peschereccio chioggiotto casualmente impigliò le reti e il capo palombaro, Nello del Grande, dopo una prima immersione, confermò l’identità del cacciatorpediniere. Solo nel 1956, la Navalcost dell’ing.Muller, vincitore dell’appalto per il recupero, cominciò i tentativi, ma riuscì solo in minima parte a far risalire i resti della nave (una caldaia, il cofano portabandiera, qualche oggetto e un imprecisato numero di resti umani). Poi, per altri quindici anni la nave cadde nel dimenticatoio.
Localizzata di nuovo da un sub del club San Marco nel 1971, secondo la storia ufficiale, tra il 1973 e il 1974, fu in parte recuperata nelle principali parti asportabili, compresi anche proiettili da 120 mm del deposito munizioni poppiero, dai sub Danilo Pellegrini e Roberto Rotelli, che si erano accordati con Muller. Il Rotelli “lavorando in proprio, si era in precedenza fatto comunicare dall’ing.Muller la posizione del relitto e l’aveva poi cercato con il proprio peschereccio senza successo” (L.Colombo)
Qui riparte la spirale del nostro racconto. Negli atti del processo in Cassazione (2005), per la strage di Piazza Fontana, che tutti ricorderete avvenne il 12 dicembre 1969, si possono leggere le seguenti dichiarazioni, ritenute veritiere, del reo confesso Carlo Digilio, ex segretario del poligono di tiro di Venezia, conosciuto in Ordine Nuovo Triveneto come “zio Otto” e considerato l’esperto di armi e di esplosivi: “Fu Rotelli che prelevò dalla stiva del Sella la balistite che poi vendette a Delfo Zorzi e ai camerati di Ordine Nuovo. Sempre a Zorzi, Rotelli procurò anche una dozzina di candelotti di gelignite “acquistati” in Jugoslavia. Furono nascosti nel Bunker degli Alberoni, affittato dalla Marina al Club sub San Marco, di cui tutti avevano le chiavi.”
Appare dunque evidente che qualche “successo” Rotelli lo abbia ottenuto nell’esplorazione del Sella, molto prima dell’affidamento ufficiale dei lavori nel 1973. Così mi fu anche confermato da un suo collaboratore, che confidò come Rotelli fosse stato il primo a procurarsi una specie di lancia termica per forare le pareti e raggiungere la Santa Barbara. Un buco che, sempre a detta di testimoni del processo, fu “un lavoro da professionista, molto difficile”.
Il personaggio ne era certamente capace, perché nelle sue corde vi era quel gusto dell’azzardo e dell’avventura, che ne fecero a suo tempo una specie di nera leggenda. Un altro testimone, Martino Siciliano, ex ordinovista mestrino e collaboratore di giustizia, dichiarò che “Rotelli si recò a nuoto per eseguire l’attentato al monumento alla parmigiana degli anni ’60” (28 luglio 1961 – 1 Kg e mezzo di esplosivo distrusse il monumento). Quasi a rompere l’afflato ideologico, Gastone Novella, simpatizzante di Ordine Nuovo, dichiarò che Rotelli “per soldi si prestava a tutto; insomma era uno che aveva lo spirito del mercenario”.
Insomma, una figura speciale, deceduta per cause naturali nel 1977, che, e qui il cerchio si chiude, ebbi io stesso modo di conoscere.
Negli anni ’60 girava per il Lido con moto della seconda guerra, aveva fama bisbigliata di brigante simpatizzante della destra estrema. Lo accompagnava una stima generalizzata per le sue qualità di sub, che tutti condividevano, anche se si sottolineava che era spesso oltre i limiti dell’azzardo. Che il mondo sub gravitasse attorno all’ideologia nostalgica era nei fatti. Qualcuno ha detto che la nuova tecnica sub (erogatori - maschera Pinocchio - arbalete, fucile ad elastico - ecc.)  agli inizi degli anni ’60, si diffuse come disciplina che consentiva anche di sopravvivere nei tempi difficili del dopoguerra (pesca e recupero materiali). Mentre in Francia fu ispirata dalle imprese di J.Cousteau, in Italia fu introdotta dai reduci della X Mas, gli irriducibili fascisti del principe nero Valerio Borghese.
Ne fa precisa cronistoria, anche per il club sub San Marco del Lido, Riccardo Bottazzo in un lontano articolo del 2008.
Tutte queste qualità di Rotelli suscitavano in me adolescente un reverente timore e insieme una potente curiosità, senza contare l’eccitante invidia verso la sua bionda fidanzata dell’epoca, che accendeva turbinose tempeste ormonali. Fu così che non potei rifiutare l’invito che mi fece il mio trasgressivo amico Carlo, di accompagnarlo una sera in visita a Rotelli, per concludere la promessa del prestito della bombola con cui noi, amatoriali apneisti da cappe lunghe e peoci, avremmo potuto provare l’ebbrezza di una lunga permanenza sul fondo.
Confesso che fui quasi timido e vergognosamente accondiscendente durante la serata, secondo il vecchio consiglio che non si sa mai. Tuttavia l’uomo oltre che bello, una specie di Marlon Brando adriatico, mi parve anche affascinante e interessante. Forse un po’ ossessivo nel dipingere i pregi di una sua particolare concezione della teosofia, ma si dimostrò gentile e quasi affettuoso nell’incoraggiare la nostra carriera subacquea e non batté ciglio nel confermare il prestito dell’attrezzatura, senza tuttavia aggiungere alcuna istruzione. Cosa che noi, già entusiasti  del successo e con il timore di apparire sprovveduti, evitammo di chiedere.
L’importanza del dettaglio ci apparve chiara il mattino dopo, quando al faro di San Nicolò, fu per primo Carlo, nei suoi 15 minuti concordati, a rendersi conto che forse ci sarebbe servita anche una cintura con i pesi. Subito dopo, io imparai, nei restanti 15, che oltre alla affannosa battaglia per raggiungere il fondo, sarebbe stato bene anche suggerire come respirare quel getto impetuoso d’aria che, non dominata, mi riempì come un pallone, esaurendosi ben presto.
Ed ecco la fine del racconto che avrei fatto all’ormai scomparso amico Marco, che certo mi avrebbe capito. Io ebbi in bocca forse lo stesso erogatore che fu usato per raccogliere l’esplosivo proveniente dalla tragedia della seconda guerra, per innescare poi, con la bomba di Piazza Fontana (considerata la strage per antonomasia, la prima in ordine cronologico, l’evento che ha fatto “perdere l’innocenza agli italiani” e dopo il quale “nulla è stato come prima” Stefano D’auria) quella strategia della tensione, torbida miscela di estremismo nero e servizi deviati, che indusse molti alla lotta armata, generò gli “anni di piombo”, provocò l’operazione Tora Tora (il fallito golpe Borghese), fece scoprire Gladio, rivelò la P2, culminò con la strage di Bologna, proseguì con le stragi di mafia e che forse ancora oggi non è conclusa, nella intricata vicenda della trattativa. Come nella canzone di Branduardi, le conseguenze si succedono semplicemente. In un certo senso, avrei detto a Marco, non solo “non sono stato fuori dalla storia”, ma in qualche modo l’ho morsa, stringendo tra i denti quell’erogatore.
Più ragionevolmente, a volte, mi capita di passeggiare in riva al mare in un giorno sereno di calma marina e con lo sguardo rivolto all’orizzonte, ripenso alla tragedia del Sella e a quella dei nostri giorni.



Orti dei Dogi
-Narrativa-
Zufolina





I cavalli sbuffavano nello sforzo di superare l’intrico di sassi scoperti lungo la strada dall’improvviso e violento acquazzone. La salita rendeva ancora più ardua la progressione e, a ogni dislivello laterale, la carrozza pareva precipitare, barcollando pericolosamente verso il baratro. Il conducente lanciava aggressivi grugniti francesi che nelle intenzioni avrebbero dovuto tranquillizzare i cavalli e li accompagnava a violenti strattoni delle redini, per evitare che qualcuno di loro, spaventato dall’incerta presa degli zoccoli, scartasse di fianco, causando così il disastro.
Maledetto quel passo e maledetta quella missione interminabile. Da Parigi a Pistoia, in gran segreto per giunta, e accompagnati da una scorta che, per mantenere la clandestinità, se ne stava a doverosa distanza. Come avrebbero potuto essere d’aiuto? Sembrava che il loro compito fosse soprattutto quello di esplorare in avanti il percorso, a caccia di briganti e della migliore locanda per una sosta discreta.
Il tutto a protezione delle due dame che sballottavano all’interno, senza per fortuna troppi piagnistei. Dovevano essere davvero importanti, una in particolare, perché l’altra pareva dama di compagnia. Fra i colleghi di corte si favoleggiava persino che fosse stata amante della regina. Chiacchere forse invidiose dell’indubbia autorità con cui si accompagnava ogni suo movimento. Era certo comunque, questo l’aveva confermato anche il cugino valletto del ministro diplomatico, che la signora apparteneva al gruppo scelto delle dame più strette consigliere della Regina.
La servitù, con petulante sagacia, le aveva nominate “squadrone volante”. Certo apparivano volanti quelle circa ottanta avvenenti dame, quando alle feste della corte francese si aprivano le danze, un balletto voluto dalla regina Caterina de’ Medici (1519-1589), che aveva introdotto in Francia questo nuovo spettacolo in cui i danzatori sembravano volare. La Regina determinava le coppie, associando le fedeli consigliere ai diversi cortigiani di cui intendeva conoscere di più. I maligni esperti sostenevano che le danze proseguissero nei letti, dove le signore sapevano utilizzare le più efficaci macchine della verità.
Leggenda o verità? Molti storici nicchiano e si nascondono dietro l’assenza di prove certe. Tuttavia tutti conoscono la particolarità della “regina nera”, Caterina de’ Medici, così soprannominata per la sua passione per l’esoterismo e l’astrologia. Qualcuno arriva a definirla ideatrice delle messe nere. È sicuro comunque che le sue ossa furono depredate durante la Rivoluzione francese e gettate in una fossa comune. Conseguenza forse del suo accertato legame con Nostradamus, che sicuramente fu ospite del castello di Chaumont, perché il suo nome si trova su una delle camere. Inoltre, è stato trovato un suo presunto ritratto risalente al XVII° secolo.
Fu proprio in quel castello che Nostradamus, secondo la leggenda, predisse la fine della dinastia dei Valois e la presa del potere da parte dei Borboni, In uno specchio fece apparire i volti dei tre figli della regina. Ogni volta avrebbe girato su se stesso tante volte quante sarebbero stati gli anni del regno di ognuno. Il maggiore, Francesco II°, girò una sola volta e scomparve. Un anno più tardi, infatti, morì. Il secondo, Carlo IX, girò ben tredici volte e regnò realmente per tredici anni. Per ultimo, Enrico III, girò quindici volte corrispondenti ai 15 anni di regno prima dell’arrivo di Enrico di Borbone, successivamente Enrico IV di Francia.
Ai nostri moderni occhi sembra pura superstizione, eppure la vita di questa regina eccezionale fu da sempre segnata da eventi speciali. Orfana, educanda quattordicenne, tracagnotta, bruttina, palliduccia, con gli occhi a palla caratteristici della famiglia Medici, venne sdegnosamente definita “grassa bottegaia fiorentina” quando arrivò a Marsiglia per sposare il bel coetaneo Enrico II d’Orleans (in un solo anno di studio però aveva imparato a parlare fluentemente il francese). La morte dello zio, papa Clemente VII, che non poteva più pagare l’immensa dote promessa, rese meno conveniente il matrimonio, ma Caterina intelligente, colta, elegante fu molto apprezzata dallo suocero, il re Francesco I°, che la volle spesso con sé anche nelle battute di caccia. Si dice fosse lei a introdurre la cavalcata all’amazzone e successivamente l’ utilizzo delle mutande (coulotte) anche per le donne, per cavalcare. Ma non fu certo l’unica innovazione. La sua conoscenza della cucina raffinata di Firenze fu corroborata da tre cuoche del Mugello, diversi pasticceri e un gelataio di Urbino che trascinò alla corte francese, provocando la grande rivoluzione gastronomica di cui ancor oggi la Francia si vanta.
La papera al melarancio ora canard à l’orange; la zuppa di cipolle ora soupe à l’oignon; le crespelle ora crepes; la frittata ora omelette; ecc. Senza contare il gelato che il signor Giuseppe Ruggeri, pollivendolo sorprendente vincitore di un concorso per il miglior dolce, aveva inventato. Costretto di malavoglia in Francia, prima di partire aveva rivelato a Caterina la ricetta: ghiaccio, zucchero, limone, insomma il sorbetto.
Fu la regina a rivoluzionare la preparazione della tavola, introducendo un nuovo galateo, utilizzando tovaglie damascate, cambiando i piatti ad ogni portata, dividendo i cibi salati da quelli dolci, serviti a fine pasto mentre prima venivano mescolati. Soprattutto impose l’uso della forchetta che aveva importato dal Veneto.
I suoi banchetti erano fantastici e dai costi spropositati. In occasione dell’incoronazione del figlio Francesco II, commissionò il primo spettacolo pirotecnico mai visto in Francia. E spesso aggiungeva anche dettagli conseguenti la sua dedizione  ai temi scaramantici. Le cronache narrano di un pranzo di gala in suo onore a Parigi nel 1549 in cui vennero serviti cibi divisibili per tre, il numero perfetto per la superstiziosa regina: 33 arrosti di capriolo, 33 lepri, 6 maiali, 66 galline da brodo, 66 fagiani, 3 staia di fagioli, 3 staia di piselli, 12 dozzine di carciofi.
Pierre de Brantome, nella “vie des femmes galantes” così descriveva i maestri toscani: “sapevano molto bene accoppiare le leccornie alla lubricità e a quanto e più la scienza conoscesse”.  Caterina riteneva afrodisiaci molti alimenti: cardo, scalogno, zucchine, sedano, funghi, fave, cipolle, ecc., ma i carciofi cotti nel vino furono i suoi prediletti.
La sessualità ricorre contraddittoria in molte tappe della sua vita. Fu accusata di sterilità, per dieci anni non ebbe figli. Per difendersi dagli influssi “sterilis” sembra portasse al collo un sacchetto contenente cenere di rane e di testicoli di maiale. Altri sostengono che utilizzasse terribili rimedi come escrementi di mucca, urina di cavalli, ecc. Certo dovette essere una grande tortura, perché il marito si limitava al dovere coniugale, senza indulgere in particolari effusioni, dato che la libido era riservata esclusivamente all’amante e rivale di Caterina, Diana di Poitiers.
La signora aveva circuito il giovane principe quando aveva solo dieci anni e lei ormai trenta. Si dice che per mantenere intatta la sua eccezionale bellezza facesse ogni mattina un bagno nell’acqua gelata e bevesse un bicchiere di aceto. Secondo la leggenda, aveva un seno stupendo, il più bel seno di Francia, che sarebbe diventato il modello della coppa di champagne.
La beffa è che il vero problema generativo dipendeva anche dal re, affetto da ipospadia (anomalia congenita del pene, dovuta a un insufficiente sviluppo dell’uretra, il cui sbocco non è localizzato all’apice del glande).Così sentenziò Jean Fernel, meglio conosciuto come Fernelius, medico e astronomo francese. Infatti, risolto il problema con piccolo intervento chirurgico ad entrambi, Caterina sfornò ben nove figli, fra cui tre re di Francia e una regina di Spagna.
Forse, esaurita così abbondantemente l’incombenza dinastica, la sessualità della regina trovò anche altre sponde. Narrano che avesse promosso nell’arretrata corte parigina anche l’eros con le proprie simili, certo più divertenti dei frettolosi rapporti coniugali. Avrebbe dichiarato che l’amore “donna con donna” seduceva e soddisfaceva molto di più degli amplessi dei Valois, praticati con uno stile da cinghiali.
Implacabile “influencer” ante litteram, Caterina, poiché aveva una vita ampia, era insomma grassottella, inventò il corsetto, quel fantastico piccolo strumento di tortura che poteva ridurre da quarantatré a trentotto centimetri il giro vita. Avrebbe costretto poi tutte le donne di corte ad indossarlo. Così, per trecentocinquanta anni tutte le donne ne furono perseguitate.
Con una certa enfasi, qualcuno sostiene abbia inventato anche i tacchi a spillo. Certamente, per vincere una certa insicurezza dovuta alla bassa statura, disegnò i primi tacchi alti dieci cm. Inoltre, colpita e un po’ disgustata dal forte odore dello sposo, oltre ad introdurre l’uso di acqua e sapone, si affidò al profumiere italiano Renato Bianco, che divenne Renè le Florentin, per avviare un’intensa e famosa produzione di profumi che divenne rapidamente moda di corte. La regina realizzò nel 1560 un ricettario, con sofisticate cure di bellezza, per avere mani bianche, lisce e morbide. C’è pure chi si azzarda ad affermare che il famoso “bacio alla francese”, che in realtà allora si diceva “fiorentino,” fosse appunto una sua innovazione.
Conosceva l’italiano, il francese e il latino. Comprendeva molto bene il greco. Possedeva una biblioteca personale di 2.118 libri, di carattere umanistico e scientifico, che conteneva anche numerosi preziosi manoscritti e non aveva eguali nella Francia del tempo. Protesse artisti e letterati e confermò la sua attitudine alla bellezza progettando lo splendido palazzo delle Tuileries, una nuova ala del Louvre. Secondo il memorialista Pierre de l’Estoile: “Era lei che faceva tutto. Il re non muoveva foglia senza che lei lo sapesse”.
Sul piano politico basterà citare almeno due episodi per comprendere la contradditoria grandezza della sua azione. L’Editto di Saint Germain del 1562, che sanciva la libertà di culto in un periodo di enormi tensioni tra cattolici e protestanti. La notte di San Bartolomeo il 23/24 agosto 1572, con l’eccidio degli Ugonotti. Seimila nella sola Parigi e più di diecimila in tutta la Francia. Oggi la storiografia tende ad attribuire più al figlio re la responsabilità dell’azione e, in effetti, sempre Caterina operò per smussare le tensioni.
Tuttavia è evidente che molto odio si riversò nei suoi confronti, lasciandone traccia nelle più torbide maldicenze. Si arrivò a chiamare Caterina la colubrina, perché “ha lo stesso calibro della regina”. A lungo le rimase addosso la fama di libertinaggio con la nomea di “italiana gran puttana”. Si tratta di evidenti vendette storiche, ispirate forse anche dalla testimonianza del re Francesco I° che assistette, come allora era usanza, la sera stessa del matrimonio tra i due sposi quattordicenni, alla consumazione del rapporto dalle cortine del letto, dichiarando in seguito con gran contentezza che “ciascuno di loro si era dimostrato gagliardo nel certame”.
Agli smarriti e un po’ confusi lettori fin qui giunti, chiariremo che la lunga nota serve ad avvalorare quanto seguirà nella vicenda delle dame in carrozza. In particolare di una, la cui natura e storia potrebbe apparire del tutto immaginaria, se non fosse che si incrocia con le vicende di una regina con la quale le cronache confermano che sarebbe stato davvero possibile. Nonostante le appassionate ricerche, le uniche certezze storiche sono le lettere di Pietro Aretino che ne certifica l’esistenza e le speciali qualità.
Stiamo parlando di Rita da Pistoia, che il poeta Pietro Aretino (1492-1556) nell’epistolario del 1548 chiama semplicemente “Zufolina” e lascia credere che con tale nomignolo fosse ben nota nel panorama sociale. Si tratta di una bella cortigiana pistoiese che aveva incendiato le voglie della nobiltà veneziana. Lo “zufolo”  tuttavia era il nome attribuito in quel tempo al membro virile e la nostra eroina, dalle fonti definita particolarmente graziosa, ne risultava assai dotata.
Scrive l’Aretino: “..perchè egli è vero che il vostro zufolo avanza ogni campana, che suona a martello, e a festa. intanto non è huomo, che non istupisca che sì fatta sia una donna, e se io non fussi me, vorrei esser’ piuttosto voi..”
Entusiasmo che forse qualcuno non condividerà, imputandolo alla notoria sovrabbondante attitudine erotica del poeta, che fece degli incontri con le cortigiane uno dei suoi perni esistenziali. Tuttavia l’uomo, lo certificano le importanti amicizie e la qualità stessa delle sue opere, non era per niente stupido e sapeva valutare bene i pregi delle persone. L’Ariosto lo cita nell’Orlando Furioso (… ecco il flagello/ de’ principi/ il divin Pietro Aretino.) e con Tiziano e Sansovino a Venezia  formava il famoso “terzetto”. Michelangelo lo ritrae nelle vesti di San Bartolomeo nel Giudizio Universale. Colpisce quindi il tono davvero speciale con cui si rivolge a Zufolina e lascia pensare che ella avesse qualità eccezionali per indurlo a “raccomandarla” niente meno che alla potente Regina di Francia, sapendo di non essere smentito dai fatti.
“..Sorella honoranda eccovi la lettera che và alla felice Maestà della fortunata Caterina de i Medici, christianissima Reina di Francia..”
E, quasi ad incoraggiare la titubante giovane, forse intimorita dai suoi natali borghesi, prosegue sostenendo che è ben degna di figurare tra i nobili: “.. onde vi giuro per quegli altari, che bisognerebbe drizzarvi, se ci foste nasciuta Marchesa, onde farieno i vostri andari ammirati..”
Non contento, la paragona alla Sibilla Heritrea, la profetessa di Apollo, definendola “superiore” perché “d’altro senno di spirito” che riesce ad argomentare, così proseguendo: “.. e non in grotta, né in tombe vi piace stanziare, ma in case magnifiche, e in palazzi altieri profetizzando tuttavia cose di fuoco. E dove tu? Alle tavole dei duchi, alle ginocchia dei Papi, e al cospetto degli imperatori..”
Esagerazioni? Suggestioni d’innamoramento senile? Eppure, non contento, arriva ad aggiungere una descrizione che ci fa immaginare un temperamento del tutto geniale: “.. che pur hieri isquiternando la libraria de i cotanti filosofastri, non poter contenermi di non gettargli a monte: perochè se si mettesse in lista la moltitudine di quelle argutie, che vi piovono, e diluviano fuor della bocca subito, che l’aprite, non si trovaria pedagogo, che non ritornasse a imparar il declinar’ de i nomi alla vostra scuola. Plato cicalone a sua posta, Aristotele in confusione a suo danno...”
In un’altra lunga lettera, l’Aretino si lascia andare ai ricordi, ma sembra comunque continuare l’opera di convincimento al viaggio, consapevole che le speciali qualità di Zufolina sarranno sicuramente apprezzate dalla Regina, che dimostra di ben conoscere nelle sue originali attitudini.
“Due volte la mia sorte bona, ha mandato la vostra persona bella in casa mia, e d’altri: una vestita dà huomo essendo donna, e l’altra vestita dà donna essendo huomo…..”
Si riapre quindi il tema della speciale figura di Zufolina, che sembra quasi un dato di dominio pubblico, nella citazione di una relazione della giovane con Alessandro de’ Medici, Duca di Firenze, figlio illegittimo di Lorenzo o forse naturale di Giulio, futuro papa Clemente VII. Il giovane morirà poi trafitto dallo stiletto di un suo parente, Lorenzo de’ Medici, con il quale aveva un rapporto poco chiaro, che alcuni (celebre la descrizione del Cellini) vorrebbero addirittura omoerotico.
“..Certo che la natura vi ha in modo composta in utriusque sesso, che in uno istante vi dimostrate maschio e in un’ subito femmina, né per altro volle il Duca Alexandro copularsi insieme con voi, che per chiarirsi s’eravate hermafrodito da senno, o da beffe. Ecco il favellar’ di voi è di donzella, il proceder’ vostro di garzone..”
Continua, sostenendo che non si riesce a distinguere nemmeno dagli abiti che continuamente cambiano, se il ruolo è agente o paziente “ ..Stanno in forse se la zufolina è zufolone. Ò se zufolone è zufolina”
Ne loda ancora le arti di eloquenza “..le chiacchere molto insalate e molto appetitose, che fumano, vi scappano di bocca, e tra i denti..”
Cosi argute e rapide che nessuno vuole contrastarla
“..né Fiorenza, né Ferrara vuol la gatta con voi volpe da galline e da galli..”
Persino il tempo non osa toccarla.
“..ecco quel proprio volto, quella istessa faccia, quella medesima sembianza, che avevate dieci anni sono, havete anco adesso..”
Si lascia andare.
“..non ve ho io da dire? Sognavo istanotte, che io vi facevo quel fatto…”
Prosegue con dettagli espliciti, teneri e romantici e conclude.
“..hor sù, sorella cara, andate alla reina con ottima sorte, e viaggio. Però che essendo la Maestà sua fiorentina vi rimandarà a pistoia, patria vostra nativa; con la contentezza, che merita, lo scaltrito ingegno, e la faceta arguzia, e la signorile creanza, di cui havvi dotato l’aria del  toscano paese, la natura e la pratica..”

Ecco appunto, Zufolina dentro la sballottata cabina, abbracciata dalla giovane terrorizzata compagna, stava finalmente rientrando dai quasi dieci anni di permanenza alla corte di Francia. E sarebbe da aggiungere, anche di onorato servizio. Fin dal primo incontro con la Regina, aveva capito che L’Aretino non aveva sbagliato nelle predizioni. Caterina l’aveva fatta accomodare in una segreta del Castello e subito volle sincerarsi che non fossero solo fantasie quelle vantate dal poeta. La Regina apprezzò molto l’arguzia pronta con cui seppe tenerle testa durante l’interrogatorio che lentamente, ma senza troppi fronzoli, scivolò verso le sue doti speciali. Davvero serviva una verifica diretta, perché per l’occasione Zufolina aveva sfoggiato tutto il suo fascino femminile che la statura inconsueta slanciava in una snella figura, la fluente chioma ambrata poi, gli occhi verdi accesi di intelligente luce, il morbido incarnato, la bocca invitante illuminata dalla bianca dentatura, il seno quasi generoso e il profumo languido di cui si era furbescamente cosparsa, rendevano impossibile ipotizzare un rovesciamento delle parti.
“In verità mi pare che il generoso vostro protettore intenda beffare la mia credulità – esordì Caterina – ben sapendo che mia benevolenza nei suoi confronti consentirà il perdono.
Siete così bella che la vostra grazia comunque conquisterà un posto nel gruppo delle mie dame preferite, non servono burle speciali..”
“Maestà gli occhi interpretano il mondo con adeguata semplicità, perché è la loro natura di umili servi – rispose Zufolina con prontezza – ma la mente regina sa indagare in profondità oltre le apparenze…- proseguì avvicinandosi lentamente – talvolta semplici gesti possono svelare segreti misteriosi..”
La scena proseguì con dettagli che, per rispetto della regalità, non descriveremo. Basterà ricordare che Caterina inserì subito la giovane ventiquattrenne nel gruppo delle avvenenti signore da schierare nei letti dei vari cortigiani, per motivi di spionaggio. Quello squadrone volante di cui si è già detto. Si convinse che avrebbe suscitato l’entusiasmo degli amatori più raffinati, sempre alla ricerca di speciali fiori della notte, dalle prerogative insolite e inaspettate. Non solo, fu colpita in seguito dalla strepitosa memoria di Zufolina, che si rivelò persona di giudizio che sapeva tener ben custodito un segreto o stare alla tavola dei potenti, che intratteneva con gli ultimi pepati pettegolezzi delle corti. Ne fece dunque una delle sue confidenti speciali.
Zufolina ricordava con immutata chiarezza l’ultimo incontro segreto, quando dopo aver organizzato il viaggio di ritorno, la scorta e il lauto vitalizio, indugiò in una deliziosa conversazione che, nella brillantezza dell’eloquio cercava di mascherare il turbamento dell’abbandono.
“Siete stata una fedele servitrice – dichiarò la Regina – ma ancor più una preziosa amica… so che è  giusto torniate alla terra natia… ma ciò non toglie la malinconia di non udire più le vostre acute riflessioni… le vostre impagabili e utilissime confidenze e – aggiunse con una qualche titubante sincerità – la vostra gradita, speciale affettuosità.”
“Maestà io devo tutto alla vostra benevolenza e ovunque mi trovi sarò sempre pronta ai vostri comandi. Sono combattuta come Enea all’abbandono di Didone e so che il tempo aggiungerà sale alla ferita della lontanza. Mai potrò dimenticare l’onore della vostra intimità”
“Vi chiedo mia cara un’ultima confidenza – aggiunse Caterina – che da tempo pizzica la mia curiosità e riguarda la vostra speciale persona, che ben sappiamo ha riscosso tanto clamoroso successo tra i miei cortigiani.. e cortigiane..”
“Qualunque desiderio di vostra Maestà è per me orgoglio nella risposta, dite pure..”
La regina parve prendere tempo, quasi alla ricerca delle parole giuste per chiedere o forse solo per non far trasparire che in realtà conosceva essa stessa bene la risposta.
“Quale speciale piacere.. quale fascinosa voluttà… a vostro parere differenziava le prestazioni nel ruolo diverso …insomma a letto con gli uomini… o con le donne.. cosa cercavano?”
Zufolina finse per un attimo la riflessione. Invero da molto tempo aveva imparato la lezione che era divenuta anche una forte sensazione di potere, quasi di dominio, benché la sua natura d’animo gentile l’avesse presto trasformata in benevola tenerezza. Il che traspariva con brillante risultato nel momento del dopo, quando spenta la libido, si aprivano le porte se non del pentimento, almeno della riconsiderazione razionale dell’accaduto. In quegli istanti, la sua arguta retorica, la sincera empatia delle sue carezze, la divertente ironia con cui sapeva trasformare ogni dubbio in simpatica scenetta, l’assoluta discrezione che traspariva dal comportamento, le avevano garantito i migliori successi. Era allora che piano piano riusciva a carpire le notizie più segrete e i baci più riconoscenti.
“Vostra grazia sa bene che di me gli uomini furono i più voraci – iniziò Zufolina, avvicinandosi gentilmente in aggiunta al tono confidenziale – e non è sorpresa, dato il bell’aspetto femminile che dalla natura mi fu dato. Tuttavia – e qui finse davvero sorpresa –
capii ben presto che in me l’uomo cercava l’uomo – Attese che l’affermazione decantasse, poi proseguì – rassicurato dal dolce volto, dal tondo seno e dalla grazia ineffabile di tutto il restante seduttivo disegno di donna, l’uomo non teme più…. Di toccare il Priapo dominante… - non contenta aggiunse – anzi, si sente quasi proiettato in quel torbido rimescolamento che rimanda a forme primigenie. Allora, tutto è possibile.”
“Vi prego, proseguite” Implorò la regina che afferrò delicatamente la sua mano, quasi a incoraggiarla.
“Nel gioco mirabolante di specchi anch’egli si sente di osare sensazioni nuove segretamente desiderate- si fermò un attimo sapendo che si trovava la centro della questione. Fissò negli occhi la sua ascoltatrice e proseguì – E’ la curiosità forse di capire.. quanto e come l’essere posseduto concede di conoscere il segreto di quel piacere che la donna sembra manifestare ad libitum… chiedendo animatamente, ancora, ancora”
“Dunque foste più spesso voi a…?”
“Certo… spesso, ma – aggiunse – a volte servì anche il buon esempio. Un alibi forse, perché i più subirono la piacevole condanna che, superate le barriere di una sconfitta virilità, si trasformò in un grandioso piacere, che li fece urlare proprio come una femmina. “
“Era così che anch’io immaginavo – confermò Caterina, che si fece più audace e chiese – e con le donne?”
“La legge si ripete – confermò rapida Zufolina – In me la donna cercava la donna. Certo si serviva poi del solido argomento di cui sorprendentemente dispongo, ma come talvolta si dice, tra donne si parla la stessa lingua. E furono dunque le mie labbra, e i deliziosi puntuti capezzoli a suscitare l’impulso ad impugnare lo scettro, con dolcezza e tranquillità… sino anche all’esaltazione della fontana..”
Qui ancora il racconto si chiude lasciando a voi ultimare il bacio d’addio. Perché avrete capito che quest’ultima parte è frutto di giocosa libera fantasia, anche se del tutto verosimile.


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