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Simone Bonato
LAGUNANDO 2023 > selezionati 2023 Poesia e narrativa > leggere lagune - poesia
Nato nel 1971 a Quarto d’Altino e residente a Jesolo, insegna materie di enogastronomia.
Laureato in Lettere (arti visive) all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si dedica da molti anni all’arte, esponendo in mostre e partecipando a concorsi di pittura.
La scrittura è sempre stata una passione intima e personale che lo coinvolge pienamente, accompagnandolo dai primi studi giovanili fino alla partecipazione ad alcuni premi letterari.
Primo classificato
Leggere Lagune -Silloge
Terzo classificato
Isole della Laguna - Narrativa
Leggere Lagune
(Tratto dalla silloge “Insegni”)



Nel tuo corpo esile creatura
abita un universo sensibile,
nel ventre caldo
sto ancora bene.
Ho bevuto da te il mondo
prima che sapessi il suo nome
e dai tuoi occhi ne ho tratto il volto
prima che imparassi a vedere.
Ho saputo fin dai primi vagiti
quanto fosti nata per tutti,
data sempre per gli altri
e nulla per sé.
Spoglia
donna senza doglia,
identità rubata sofferente e tacita,
tacciata e cacciata.
Mondo
cos’hai di divino?
Se non hai per la donna
alcun posto.
Cos’hai temuto?
Di dare in cambio
solo la centesima parte
di quel che hai avuto

(Tratto dalla silloge “Insegni”)




Si vive per amare,
per meravigliarsi dell’alba,
per godere del succedersi dei giorni,
dei tramonti
e vivi nel mistero vedersi invecchiare,
sfuggire ogni giorno
e ripensare la sera
al senso della vita.

(Tratto dalla silloge “Insegni”)


Odori d’intorno
ciliegi in fiore
di acqua e sale
brezza fresca.
È ancora presto
eppure ho già visto
dei miei anni
sbocciare il fiore,
ma piange il suo verde
brillante il salice.
Quante volte ancora
sarà quasi primavera.

(Tratto dalla silloge “Insegni”)



Volere in un solo tratto
tutta la vita
come un segno,
carbon di legno sul bianco
e tutto il rosso acceso.
Non il foglio,
non ne sono degno,
di tutto voglio il gesto.
Non le mele dell’albero,
per me disegno
la caduta nel cesto.

(Tratto dalla silloge “Insegni”)



Io porto dentro
il vociare di bambini sulla spiaggia
e schiamazzi di ragazzi,
accesi dalle mosse chiome delle compagne.
Porto dentro le piatte campagne,
i corsi d’acqua sfuggenti
e il dondolio dei salici piangenti,
i pianti dei vecchi soli
e porto dentro tutti i rumori.
Porto dentro gioie dolori
e fredda indifferenza,
di questa vita che è come
una fitta che fa male,
confondendo la gioia
con i suoi i dolori.
Questo quadro senza contorno
eppure di mille colori,
questa risata leggera a teatro,
per un sipario inceppato,
attori rimasti metà dentro
e metà fuori.

Isole della laguna
-poesia-
Essere Venezia



Son schivi gli sguardi
alcuni distratti,
altri ad angoli retti
come calli e canali stretti.
Vanno i veneziani di fretta
al poco tempo ribelli,
passeggiando celeri
evitandosi tra la calca,
incrociando talvolta gli ombrelli.
Come fanno i turisti
pure i più attenti
a non accorgersi di essere
Venezia essi stessi.
Nei loro passi veloci,
avanzando il mattino
e ritirandosi a sera,
non son forse marea?
Negli occhi malinconici
salmastri e lucidi paesaggi
o dolci mieli di barena.
Nei petti armati d’amore
oppure a cuori leggeri
brulica di vita
un arsenale di misteri.
La fredda pietra e l’acqua mossa,
la fragile riva e l’onda rotta
sono la stessa carne mortale,
le loro stesse ossa.
Terraferma sembri



Ci ricordi verso sera,
nelle tue gote rosse di vergogna,
il calar del sole
e rimembri coi tuoi cotti
terre brune di mattone.
Sciolte le bianche pietre
in rivoli tra le onde,
giochi da sempre a fare l’isola
abbracciando tutti popoli
tra tormentate sponde.
Eppure terraferma sembri
e anche per questo vali,
hai unito ogni gente
a piedi tutti uguali.
Quando torniamo
mentre si fa sera aspettaci
con la tua lunga ombra
e i tuoi canti divertici,
con i tuoi frammenti
di gondole rii e ponti.
Le tue leggende,
i nostri segreti
inconfessabili
raccontaci.
L’universo in un campo



Guardati albero
pur se rinchiuso
tra balaustre e terrazzi
sei tutto l’universo.
Stride il verde tuo a sprazzi
e tra i rami possenti
da confondere il cielo
i tagli d’azzurro rammendi.
Radici rovistano la pietra
sollevando di poco il selciato,
scorre linfa viva nel fusto
sotto il nido appoggiato.
Come l’uomo,
vivi nell’inganno
di non sentirti mai a posto,
non un filo d’erba
pur in mezzo a un campo.
A torto o a ragione,
la libertà non ha mai
un prezzo giusto,
bensì il costo
della contraddizione.

Bellezza e sventura


Sconsolata è la pace
se tutte le volte
rara bellezza
ti vedo e barcollo
come una tua gondola,
smarrisco lo sguardo
abbagliato a San Rocco
e mi sento pure stonato
a fronte del canto
di un tuo remo.
Ti contraddici però
mostrando a dismisura
del tuo passato e di questo mondo,
la gloria degli uomini
e la loro sventura.
Grazia di mani e menti,
di marmi e colori
tue le acque e l’umida terra,
opera dello stesso uomo
di un tempo e di adesso
che sa far la guerra.

Intarsio



San Marco in mille pezzi,
intarsio di anime e acque
in alto azzurri
in basso gli specchi.
Un carnevale non basta
per tutte le maschere,
una per ogni vita
sia essa triste o in festa.
Sui portici in fila
la luce di laguna,
il tramonto arriva
e su strascichi la luna.
Scende la notte sull’orologio
il tempo non si muove,
attende severo il sole
e vite di uomini,
in ogni dove.
La gente specchiata va
il campanile riflesso resta.



Isole della laguna
-Narrativa-
Non ti avrà mai il tempo





Il messo comunale al di là del vetro si rivolse al signor Scarpa:
“Prego, il suo documento e arrivederci”.
Il signor Scarpa ricambiò il saluto e messo nel borsello il documento, si avviò lungo il corridoio che dall’ufficio dell’anagrafe portava all’atrio. Si avvicinò al cestino accanto all’uscita e gettò il biglietto eliminacode; prese il suo ombrello e spinse la porta, tentennando un paio di volte, finché si accorse della scritta “tirare”. Una volta uscito, il suo procedere si fece subito spedito; con passo veloce avanzava verso i gradini, inclinando il busto in avanti, quasi volesse anticipare i passi rallentati dall’età. Superato il porticato, cominciò a gocciolare sul selciato e mentre camminava con andatura sostenuta, dettata dal succedersi dei suoi pensieri, osservava il formarsi dei cerchi concentrici nell’acqua che ristagnava sulle selci. Ad un certo punto si accorse che aveva scambiato il suo ombrello con un altro. Il signor Scarpa era propenso a pensare che tutte le coincidenze fossero dettate da chissà quale disegno e che innescassero un rapporto causa effetto incessante, che stava alla base sia dei piccoli che dei grandi eventi. Si apprestò velocemente a tornare. Fece due gradini alla volta e spinse il maniglione aprendo la porta.  In quel momento un giovane che cercò di scansarlo, lo urtò e fece cadere il borsello dal quale uscì il suo documento di identità. Il giovane, senza scusarsi, si chinò per raccogliere il borsello col documento e lo porse al signor Scarpa, non degnandolo nemmeno di uno sguardo. Il signor Scarpa prese in fretta l’ombrello e, accertatosi che fosse il suo, si allontanò rapidamente.
Il vento sbuffava con insistenza e piegava l’ombrello aperto, minacciando di rovesciarlo in più riprese. Talvolta lo alzava al disopra dei numerosi passanti che incrociava e altre volte si affrettava a chiuderlo e approfittava delle tende che, scendendo in fila da sopra gli ingressi dei negozi, riparavano dalla pioggia. Era così il percorso che faceva ogni giorno per recarsi nel suo negozio di arte e antiquariato, in Calle dei Cristi, nel Sestrier di San Polo. Quando piove a Venezia occorre essere scaltri e allenati con gli ombrelli, pronti a improvvisi cambiamenti di rotta per schivare i passanti. Questo diventava, allo sguardo del signor Scarpa, una sorta di danza, dettata dall’intersecarsi e incrociarsi di gesti, balzi e movimenti che a lui apparivano come segni di un disegno con le proprie leggi. Il signor Scarpa, non appena fatta l’apertura del negozio, salutò il primo cliente che entrato si guardò intorno, posando lo sguardo sugli oggetti più disparati. Egli dava a vedere di non avere una preferenza particolare e di essere capitato nel negozio quasi per caso. Fuori era ripreso a piovere insistentemente e il negozio diventava un rifugio di fortuna per quel cliente distratto. Il signor Scarpa osservava bene i suoi clienti ed era molto attento ai loro gesti; cercava di intuirne il carattere dalle poche parole che sussurravano o dai loro atteggiamenti. Amava associare gli oggetti che vendeva ai loro caratteri. Spesso trovava anche delle affinità tra il modo di atteggiarsi e di vestire dei clienti e quegli oggetti di altri tempi. Gli era capitato ad esempio di vendere un candelabro dorato in stile art nouveau a una cliente alquanto eccentrica che portava un cappotto intrigante e si era presentata con un’acconciatura biondo platino; una figura bizzarra, che non avrebbe potuto scegliere altro se non quel candelabro.
Il cliente entrato da poco era un signore elegante. In breve tempo il suo sguardo distratto si fissò su una categoria di oggetti. Capovolse una vecchia clessidra di vetro, scosse un pendolo facendolo oscillare. Passò in rassegna tutta la serie di orologi a cucù, soffermandosi su una sveglia vintage a carica manuale. Poi si mise a maneggiare un vecchio cronometro. Un orologio da tasca, fra tutti gli oggetti visti, attirò la sua attenzione. In quel momento gli ultimi granelli di sabbia caddero nella clessidra e il pendolo si fermò. Un breve trillare della sveglia e il canto di uno dei cucù fecero da sfondo alla sua domanda:
“Scusi, posso avere qualche informazione su questo orologio da tasca?”
“Certo, è un orologio da tasca dell’Ottocento, realizzato in Italia da una fabbrica oramai chiusa da tempo. Il quadrante è rifinito in argento come la catenella; la chiusura, come avrà notato, è incisa a sbalzo”.
Il cliente prese in mano l’oggetto e l’osservò, avvicinandolo all’orecchio, per ascoltarne il rumore. Lo chiuse e lo aprì a più riprese, dimostrando dimestichezza con gli orologi da tasca. Lo strano cliente era attratto dagli oggetti che, in qualche modo, avevano a che fare con il tempo. Il signor Scarpa si convinse che quella domanda, posta all’arrestarsi del pendolo e mentre cadevano gli ultimi granelli di sabbia nella clessidra, la coincidenza del canto del cucù e del trillo della sveglia, non fossero casuali. Di nuovo ritornava nei suoi pensieri la diatriba fra le coincidenze e il caso: la pioggia che aveva indotto quel cliente ad entrare, il suo orientamento nella scelta e i fenomeni che avevano interessato gli oggetti da lui toccati o scrutati.
Tenendo lo sguardo abbassato e fisso sull’oggetto d’antiquariato, il cliente ne chiese il prezzo. Il Signor Scarpa riflettendo su cosa dire per essere convincente rispose:
“Beh guardi, è un pezzo unico, gli ingranaggi e la scocca sono originali. Siamo sui 320 euro”.
Il misterioso cliente si fece più loquace:
“É una bella cifra. Come avrà capito io colleziono oggetti di antiquariato che sono in relazione al tempo; una passione che mi porto appresso, fin da quando mio nonno mi regalò un orologio da tasca del quale andavo fiero e che un po’ mi ricorda questo. Non so se mi può capire, ma io ho sempre sognato di guadagnarmi il tempo, di sorprenderlo, di non farmi dominare dal suo scorrere ma di possederlo. Gli oggetti, che in qualche misura ne scandiscono il divenire, mi affascinano. In un certo senso colleziono macchine del tempo”.
Il signor Scarpa, che credeva vi fosse affinità tra gli oggetti che vendeva e i caratteri degli acquirenti, si convinse che quel cliente e il suo orologio erano fatti l’uno per l’altro. L’uno avrebbe girato ingranaggi e lancette, misurando così il tempo; l’altro, viceversa, se ne sarebbe preso cura, ricaricandolo puntualmente.
Il cliente rientrò subito nella sua riservatezza:
“Bene allora, ha smesso di piovere. Devo proseguire, mi confezioni pure l’orologio, lo prendo”.
L’antiquario prese subito la custodia originale in velluto verde scuro. Una volta confezionato l’oggetto e ottenuto il pagamento, lo consegnò. Il cliente si diresse verso l’ingresso, accennò un saluto, aprì la porta e se ne andò.
A mezzogiorno il signor Scarpa chiuse dietro di sé la porta, incamminandosi lungo la calle verso la sua abitazione. Pur vivendo da sempre a Venezia, era continuamente affascinato dai suoi mille volti. Mentre camminava a passo veloce, si soffermava su alcuni particolari della sua città. Venezia era un’isola dall’anima in legno, dalle palizzate conficcate nel terreno ai tetti. Il legno era il materiale delle fondamenta e delle coperture. E nel mezzo? Nulla di più pesante che mattoni, pietre e marmi, una città che metteva insieme gli ocra e i rossi del cotto con i bianchi della pietra d’Istria, che vestiva i mattoni dei palazzi e chiese con i marmi più pregiati. Un’ isola in cui conviveva un via vai di popolo, sfrecciante a piedi nelle calli, con un popolo immobile di statue in marmo nelle nicchie delle facciate. A volte il signor Scarpa perdeva il ritmo del suo passo, oppure deviava di poco la sua camminata, avvicinandosi alla sponda di un rio, per cogliere un riflesso, un ondeggiare di colori  armoniosi. I tratti spezzati del cielo azzurro e i riverberi luminosi del sole facevano da contrappunto alle ombre nere increspate delle gondole. I colori delle abitazioni contrastavano con i verdi scuri delle acque in prossimità dei ponti. Venezia era città di storia e leggende. Gli oggetti che lui rivendeva erano spesso cimeli trovati nelle soffitte delle abitazioni e dei palazzi, “oggetti di superficie”. Lui amava definirli così, raccontandoli ai suoi clienti. Diversamente esistevano tutta una serie di “oggetti di profondità”, ritrovati nei fondali dei canali veneziani. In quel luogo vi era depositata un’altra vita, una Venezia dimenticata, capace di restituire cose antiche. Le soffitte e i fondali erano i luoghi di un tempo che si era arrestato e che poteva ridare nuova vita a tesori o anticaglie appartenuti al passato.

Il signor Scarpa, di ritorno dal negozio, giunse all’ingresso del palazzo in cui abitava e salutò il custode. Carlo Venier era un signore di mezza età che faceva bene il suo mestiere. Sempre attento a informare i condomini, relativamente a comunicazioni da parte dell’amministratore o a eventuali visite di estranei, svolgeva il suo dovere con devozione.
Il signor Scarpa aprì la porta di casa e lasciò il mazzo di chiavi in una ciotola che poggiava su una mezza colonna.  Appena entrato era solito cercare la moglie. In quel momento, la porta d’ingresso si aprì con fatica e Agnese si apprestò ad entrare, incedendo goffamente col suo carico di spese. Appoggiò un mazzo di fiori misti sul tavolo, prese il vaso nel quale li avrebbe riposti e chiese prontamente al marito:
“Come è andata al lavoro Francesco, sei riuscito ad aprire il negozio in tempo?”
Rispose il marito:
“Ho ritardato di poco, tuttavia ho venduto un orologio da tasca. Novità in ufficio?”
Agnese si stava togliendo il cappotto e, mentre lo appendeva all’attaccapanni all’ingresso, rispose:
“Stiamo concludendo un nuovo contratto; in questo mese è il terzo e forse se ne prospetta un quarto a breve. Speriamo sia un buon segno e che la crisi sia alle spalle”.
Il signor Scarpa estrasse il portafogli dal borsello e il documento di identità, riponendoli entrambi nel cassetto di un mobile all’ingresso. In quel momento Agnese si era recata in cucina a preparare il pranzo.  
Agnese Contarini e Francesco Scarpa si erano conosciuti in giovane età nell’azienda di famiglia del padre, Alvise Scarpa. Il signor Scarpa proveniva da una famiglia benestante. Il padre Alvise faceva l’impresario edile a Venezia e la madre Elena era insegnante di letteratura. Agnese era di origini umili; figlia di operai, aveva trovato in giovane età un impiego come segretaria nella ditta del suo futuro suocero. Agnese e il marito si volevano bene, ma stavano insieme soprattutto grazie a un equilibrio di opposti. Lui osservatore di tutto ciò che lo circondava, sempre pronto a farsi domande e alla ricerca di spiegazioni. Lei, al contrario, modellata sulla quotidianità senza quesiti né risposte, all’apparenza felice, ma di una felicità senza interrogativi. Il signor Scarpa era sempre pronto a guardare oltre, con un eccesso che si spingeva al visionario. Agnese invece, con un’ingenuità che la portava a una sorta di miopia, possedeva una visione semplice della realtà. Serbava in cuor suo discrezione e garbo, tale era il suo carattere mite e calmo. Non si sarebbe mai interrogata sul cadere della pioggia, sui cerchi d’acqua del selciato o sull’incastro dei movimenti delle persone, mentre procedevano spedite nella loro andatura, secondo chissà quale disegno di cause ed effetti. Di sicuro la vita li aveva condotti a quell’affetto reciproco che non era più l’amore e il sentimento di un tempo e che non si era potuto rinforzare con l’allargarsi della loro famiglia. Agnese e il marito non avevano potuto avere figli; vi avevano rinunciato definitivamente, non senza dolore, ma trovando conforto e superandolo in quello che facevano. Agnese assolveva agli impegni della sua quotidiana e comune sorte. Per il signor Scarpa invece l’importante era non seguire una strada che fosse spianata o già preparata. Per questo, ma anche per i suoi studi umanistici all’Università Ca’ Foscari, non trovava adatto proseguire nella professione di suo padre. Non gli interessava costruire, restaurare immobili a Venezia. Col tempo si sarebbe occupato piuttosto degli oggetti ritrovati nelle loro soffitte, rendendosi disponibile a trattare tutt’altro che immobili, bensì mobili antichi.
Per il signor Scarpa, il dopocena rappresentava il vero momento di riposo, quando poteva lasciarsi alle spalle la giornata, con tutte le sue considerazioni sulle persone incontrate in negozio o incrociate per strada. Prima di coricarsi per la notte, si dedicava a quel ristoro dell’anima che era per lui la lettura.
Quella sera, cercando il caricabatterie del telefonino tra le imprecazioni, si mise a rovistare nel primo cassetto posto in alto vicino al ripiano dei libri. Era il cassetto facile da raggiungere, dove solitamente metteva le cose di maggiore utilizzo: gli occhiali da lettura, penna e matita, dei fogli di carta e il suo cellulare col caricabatterie. Non trovandolo, aprì il secondo cassetto, dove giacevano, dimenticate da anni, le cose più disparate, una sorta di bazar dell’inutile. Dal fondo estrasse una custodia di velluto che gli era famigliare. Subito in lui si riaccese il ricordo. Prese l’astuccio e lo pose sopra il comodino. Spinse la lampada e distrattamente fece cadere il caricabatterie ritrovandolo.  Aprì il tessuto ed estrasse un suo manoscritto. Fu una gioia riaprire quelle pagine e una folgorazione rileggere alcune righe. Anche lui come i suoi clienti aveva trovato quell’oggetto di un tempo, verso il quale sentiva vicinanza.  
Non ti avrà mai il tempo era uno scritto steso da un venticinquenne ai tempi dell’università, tratto da alcune agende, in un periodo felice e spensierato della sua vita, quando era quasi alla fine del suo percorso di studi. Nell’ultimo anno alternò il lavoro della tesi di laurea alla sua passione per la scrittura, iniziando a stendere una sorta di romanzo. Egli analizzava il rapporto fra i protagonisti del suo romanzo psicologico e lo scorrere del tempo. Nonostante l’entusiasmo con cui aveva cominciato, il suo percorso di studi lo assorbiva. Ben presto quell’esperienza di giovane scrittore si esaurì. Ciononostante, la sua attitudine all’analisi delle persone per dedurne aspetti del carattere, quel suo spirito di osservazione dei luoghi, non li abbandonò mai. Progressivamente sarebbero diventati un suo modo di vivere la realtà.
La sera il signor Scarpa si immergeva nella lettura. Egli continuava a leggere, fino a notte inoltrata, quello che aveva scritto decenni prima. Riaffioravano dal cassetto le sue parole come quegli oggetti che, di tanto in tanto, tornavano in superficie dai canali di Venezia. Ora vedeva quello che non era riuscito a cogliere nei mesi in cui aveva scritto quel manoscritto: un filo conduttore. Poco più che ventenne, per quel manoscritto aveva scelto, dalle sue agende, testi spesso legati al concetto di tempo. Il suo scorrere e la sua percezione da parte dei vari personaggi sarebbero diventati la trama. Bastava collocarli in un contesto comune e farli interagire, perché il gioco fosse fatto: il gioco del tempo che scorre inesorabile.
Alternava la lettura al pensiero di come tornare a tessere quel racconto. Occorreva recuperare gli scritti di un tempo. Ma dove aveva riposto quelle agende? Sarebbe dovuto tornare nel vecchio deposito di famiglia e rovistare tra incartamenti, libri, scatoloni, in cui aveva raccolto i testi dei suoi studi di gioventù.
Cesco scese le scale, uscendo dall’ufficio anagrafe, s’incamminò lungo Riva del Carbon per raggiungere Rialto con un’andatura lenta e molleggiata. Con il passare delle ore il mercato prendeva vita. Casalinghe, pensionati, ma anche lavoratori in pausa o di ritorno dal lavoro e tanti turisti riempivano i loro occhi e le orecchie dei colori e suoni del mercato. Intorno, i bar lavoravano già a pieno ritmo dalle prime ore del mattino. Con le prime luci dell’alba i colori del mare brillavano sui banchi del pesce, misti ai riverberi del ghiaccio tritato. Si accendevano i rossi corallo dei crostacei, i rosa intensi delle triglie e degli scorfani. Gli occhi vitrei e le branchie arrossate del pescato fresco si illuminavano, il tutto come in una tavolozza di colori ben disposti e pronti per l’uso. Vi era un omaggio al mondo del pesce e della pesca, di cui ne erano intrisi gli occhi, le orecchie e il naso. Su richiesta i pescivendoli pulivano il pesce e i gabbiani chiassosi si contendevano le interiora. I suoni, dapprima sommessi, si facevano più intensi e confusi all’aumentare degli avventori. Alle loro richieste ai bordi dei banchi, rispondevano i venditori alzando i toni per farsi sentire e parlando in veneziano.
Poco lontano dalle bancarelle del pesce, Cesco si tolse subito il giubbotto, indossò un grembiule verde e si mise a pulire carciofi, togliendo le foglie più grosse esterne e separando i gambi da vendere a parte, ricavando dal cuore i fondi. Altri, una volta mondati, li tagliava a metà e li immergeva in acqua. A parte preparava le deliziose castraure, i primi germogli di carciofo tenerissimi. Cesco lavorava con la sua famiglia, portando avanti una tradizione che durava da alcune generazioni. Francesco era chiamato Cesco dagli amici, dai colleghi di lavoro del mercato e dai clienti abituali. Egli aveva da poco interrotto gli studi. Che non amasse la scuola, l’aveva già capito fin dall’inizio del percorso. Il Quarto anno era stato infruttuoso e aveva dovuto ripeterlo. Il quinto si apprestava ad essere simile al precedente, se non fosse stato lui stesso a risolvere la sua situazione di insofferenza per lo studio, ritirandosi dopo il primo quadrimestre. Il suo lavoro nell’attività di famiglia non era per lui un’opportunità, ma un ripiego comodo per sopravvivere nelle situazioni. Infatti, il giovane spesso rincasava tardi la sera e giungeva di conseguenza in ritardo al lavoro.
Cesco frequentava una compagnia di sbandati che scorrazzavano a tarda notte per il centro storico, passando di bàcaro in bàcaro a bere Spritz, qualche ombra e amari. Nel bàcaro, la tipica osteria veneziana, Cesco e la sua compagnia ripetevano quel rito che esiste a Venezia da tempo immemorabile: degustare appetitosi cicheti e bere ottime ombrete di vino o gli Spritz più disparati. Se “andar per bàcari” è un tour che tutti dovrebbero onorare più di qualche volta nella vita, Cesco teneva fede a questo “far bàcara” quasi tutte le sere, festeggiando Bacco. Cesco e la compagnia si immergevano nei bàcari affollati del Sestrier di San Polo, spizzicando assaggi a destra e sinistra, accompagnandoli nel tardo pomeriggio con un paio o più Spritz e in serata con l’intramontabile ombra de vin servita nel goto veneziano, un bicchiere basso e rustico. Cesco non disdiceva neppure il più moderno calice. In realtà non è che ne facesse una questione culturale. Probabilmente non sapeva l’origine del goto veneziano, con cui il maestro vetraio improvvisava in fornace un recipiente con il vetro di risulta, per poter dissetarsi durante il lavoro pesante davanti al forno. Cesco e i suoi amici conoscevano bene i bàcari e le osterie tipiche di San Polo a ridosso di Rialto. Nelle prime due osterie vi finivano dentro sobri, ancora lucidi e reattivi, riducendosi a ombre di sé stessi nelle ultime tappe del “giro bàcari”. Tutti gli avventori al banco tenevano il bicchiere stretto in una mano e il piatto di cicheti nell’altra, come in un rito e una danza con movenze calcolate. Il palato accogliente di Cesco alternava verdurine e polpettine di carne o di pesce fritte, a chele de granso, sarde fritte e schie. Non venivano invece affrontati i bovoletti, forse per l’eroicità di quel piatto, da consumare in piedi, con un calice in mano. La poca lucidità del momento rendeva difficile l’impresa di estrarre le lumache di mare dal loro guscio minuto con uno stuzzicadenti, per apprezzarne il dolce amaro del suo sapore.
Certamente Cesco non aveva la consapevolezza di cosa stesse bevendo e in quale luogo. Tantomeno si poneva il problema di quali cicheti fagocitare e in quale successione. Che capitasse alla Cantina do Mori, locale storico frequentato anche da Giacomo Casanova, o che tenesse tra le mani con uno Spritz un pezzo di storia del bere, a una certa ora del giorno Cesco lo capiva ancor meno. Quell’altro Francesco Scarpa invece, fin troppo sobrio e dedito alla riflessione, avrebbe visto anche in questo esempio una conferma di quel suo modo di leggere la realtà: un susseguirsi intrecciato di cause ed effetti, secondo cui una spruzzata di vino e acqua nell’800 sarebbe diventata nell’epoca moderna un fiume di aperitivo. Questo avrebbe investito il Veneto e la Riviera Romagnola, per spingersi nel resto dello “Stivale”, facendo l’unità del popolo italiano della notte. Ben presto lo Spritz dei soldati dell’Impero Asburgico, stanziati in Veneto nell’800, avrebbe superato i confini nazionali, sbarcando in altri paesi.
Cesco a tarda notte procedeva concentrato per riportare a casa sé stesso, con quel poco di coscienza che gli restava per rincasare senza problemi. Egli camminava a ridosso delle case per non finire nel canale, coordinando occhi e cervello nell’affrontare i ponti. Faceva mente locale, per distinguere nel caligo quali fossero le sagome scure, riferite alle persone, e quali invece da destinare ai parapetti dei ponti. Quando giunse al portone lo aprì infilando al terzo tentativo la serratura. La priorità era quella di riportare sé stesso sulle scale, vincere la rampa servendosi del corrimano, infilare la chiave giusta nella porta ed entrare in casa. Così fu per Cesco che superò il soggiorno. Il corridoio si deformava allungandosi a dismisura; se si fosse voltato, avrebbe visto il percorso lasciato alle sue spalle assottigliarsi come in un imbuto. Quella notte non finiva mai, come quel corridoio che si allungava sempre più fino a varcare la soglia del bagno dove avvenne la liberazione. Si avvicinò alla tazza, accasciato si abbandonò agli sforzi di conato, facendo non poco chiasso e svegliando i suoi genitori che si apprestarono a soccorrerlo. La madre lo avvolse in un asciugamano, il padre invece lo riprese pesantemente e, continuando a imprecare, tornò nella sua stanza. Rialzatosi, Cesco avanzò a piccoli passi strascicati verso la porta della sua camera, seguito dalla madre che cercava di calmare e zittire gli animi con dei sommessi sibili. Premurosamente gli teneva l’asciugamano sul collo. Lo accompagnò nella sua camera e lo fece sedere sul letto e subito Cesco la mandò via con un gesto di stizza. La sorella stava appoggiata allo stipite della porta, osservando da lontano la scena pietosa e senza proferire una parola. Entrambe presero la via delle loro camere, socchiudendo la porta.
Cesco si trovò solo con la sua miseria. La coscienza mordeva dentro bocconi amari, rancori covati fin dall’infanzia. Già allora il piccolo Cesco cominciava a nutrire risentimento per quei genitori sempre dediti al lavoro, poco inclini alla sua sensibilità e alle sue fragilità. Borbottando e farfugliando, sfatto nel corpo e nell’anima, cadde sconfitto dal sonno.
Agnese si rivolse al giovane garzone:
“Buongiorno, mi dia due chili di mele per cortesia”.
Agnese, di ritorno dal lavoro, a volte passava per il mercato di Rialto per cercare le primizie più fresche della giornata. Quando poteva si fermava mezzora a prendere del pesce, frutta e verdura, caricandole nel suo trolley per la spesa. Agnese era una donna semplice, di poche parole, per lo più dedita al lavoro e alle faccende domestiche. Ciò non significa che non avesse  dei desideri; il suo scrutarsi attorno, nel bel mezzo del mercato, era il suo svago.
Al mercato il banco delle verdure, al quale era solita fermarsi, era affiancato da una bancarella debordante di fiori. Nei suoi occhi si riflettevano i tulipani e sembravano osservarla, tra i bulbi fioriti, le gialle pupille dei narcisi; poi il suo sguardo spariva nel tuffo delle altre infiorescenze. I magnifici turbanti rigonfi dei tulipani si stringevano in fiamme raccolte di tutti i colori più caldi. Agnese si sentiva bene in quel tripudio cromatico e di profumi che si libravano nell’aria intiepidita. C’erano fiori per tutti i gusti e per ogni individuo. La varia natura e l’umanità sbocciavano in una giornata di sole al mercato. Le piante avevano una rara affinità con le diverse caratteristiche di chi si aggirava per le bancarelle. Fra quei passanti, ognuno sceglieva questo o quel fiore, influenzati dai loro stati d’animo e dal loro modo di essere. Lo facevano per lo più inconsciamente e secondo un codice di significato, un linguaggio in cui entrava in relazione anche il rapporto tra colore e fiore. Quelle persone mettevano in scena con le loro scelte un codice di comportamento, nel preferire un fiore piuttosto che un altro. In questo modo davano voce al linguaggio dei fiori e dei colori, esprimendo sé stessi. Agnese si muoveva spensierata tra i vasi e di sicuro non osservava queste dinamiche. Fosse stato lì, se ne sarebbe accorto certamente il marito, abituato a cogliere tutte le sfumature dell’agire umano, spesso forzandole con interpretazioni personali. Avrebbe attribuito un fiore ad ognuno dei volti che avrebbe incrociato al mercato.
Cesco richiamò Agnese alla realtà:
“Ehilà! Signora, Signora! Le può bastare così?”
“Mi dia cortesemente del radicchio”.
Cesco consegnò la merce. Dopo aver pagato, Agnese si girò verso il trolley della spesa, già occupato dal pesce che aveva comprato prima. Cesco allora si rivolse nuovamente ad Agnese:
“Se non le sta nel trolley facciamo anche consegne a domicilio, con un piccolo supplemento di due euro”.
Considerato che avrebbe avuto piacere acquistare anche dei fiori, Agnese accolse la proposta di Cesco e si accordarono sull’ora di consegna della verdura. Dato l’indirizzo della sua abitazione, salutò e ringraziò Cesco e volse lo sguardo al banco di fiori che aveva da poco esplorato, rivolgendosi subito al fioraio. Scelse un mazzo di tulipani dai colori più vari. Il bianco di alcuni le suggeriva una purezza senza domande, la pulizia e l’innocenza. Agnese scelse anche una piantina di viole dai fiori profumati e piccoli, simili a lei per modestia e riservatezza. Diede un ultimo sguardo alla bancarella e si avviò verso casa.
Il signor Scarpa uscì dal deposito di famiglia in Piazzale Roma, dove si era recato per cercare alcuni articoli da esporre in negozio,  e si incamminò verso l’approdo del vaporetto. Il mezzo sarebbe partito a momenti per procedere verso Rialto. La navigazione sarebbe proseguita  lungo tutto il Canal Grande, fermandosi agli approdi, fino a Piazza San Marco, infine dirigendosi verso il Lido di Venezia. Durante questo viaggio i turisti erano continuamente sollecitati dalla curiosità e dall’interesse per il paesaggio attorno, provando una sensazione di continuo stupore. Navigare sul Canal Grande dava l’opportunità di percepire una diversa dimensione spaziotemporale della città.
All’attracco stava ad aspettare un’umana varietà ritta in piedi. La sagoma scura del vaporetto gettava un’ombra profonda ed era interrotta a tratti. Avanzando verso il piccolo molo, lo scafo increspava la superficie dell’acqua e molti passeggeri stavano già accalcati pronti a scendere. Un popolo intero di tutte le età, estrazione sociale e censo sostava in pochi metri quadri. Per il signor Scarpa il vaporetto era il più grande laboratorio e osservatorio sociale. Il marinaio gettò la cima sull’ormeggio e si apprestò ad annodarla. Il mezzo su di giri la poneva in trazione, avvicinandosi all’attracco tra lo stridore della corda, il rumore del motore e lo scricchiolio dei legni. Al moto della barca, I passeggeri al cancelletto di sbarco si assestarono. Al sonoro “piazzale Roma”, ripetuto due volte dal marinaio, il fiume umano in piena sfogò la sua carica, attraversando l’uscita e prestando attenzione a non inciampare. Dalla sottile apertura della passerella, che separava il vaporetto dall’attracco, si poteva intravedere lo sciabordio delle onde, tra la chiglia e la banchina. La fiumana scendendo si divideva in più flussi che si dirigevano a destra e a sinistra. Il signor Scarpa era tra i corpi ancora schiacciati, in attesa di imbarcarsi, tutti costretti a guardare avanti e pronti a salire prestanti, per occupare i posti migliori. Una volta salito, occupò una posizione privilegiata di spettatore in prima fila. Dapprima il macchinista diede forza al motore che sollevò un gorgoglio di acque spumose. L’ombra nera dello scafo e l’acqua torbida e impenetrabile facevano da camera oscura alle immagini rovesciate dei palazzi, frammentati dai tratti di cielo azzurro. Venezia ora stava tutta in un riflesso, come negli specchi, di cui fu maestra di fabbrica per secoli. Si snodavano davanti al Signor Scarpa i palazzi fastosi, alternati ad abitazioni comuni. Lungo le rive fremevano nella camminata spedita tutta una serie di tipi sociali. Egli riprendeva a tessere la sua tela con un ritmo frenetico di considerazioni sulla sua città. Pensava che ogni pietra, ogni goccia del canale, ogni volto, gesto o passo non potessero essere lì per caso. Così vedeva, in quella abbondanza di particolari, la trama di un ricco tessuto, un equilibrio di cause ed effetti, assoggettati al divenire del tempo. Dal vaporetto avvertiva un volto dell’isola più aperto, rispetto alle sue calli e ai suoi campi. Spesso quando attraversava Venezia a piedi gli piaceva talvolta perdersi in essa, il che significava misurarsi con sé stesso. Di contro, percorrendola navigando, vi ritrovava la pace nella sua maestosità. A fil d’acqua il signor Scarpa da quella prospettiva poteva scrutare le pietre segrete delle dimore storiche, dalle fondamenta fino alle facciate. Sguardi che dalle strette calli o dai campi non riusciva a dare completamente. Venezia si negava sulla terra, ma si dava tutta nell’acqua, quasi senza segreti fino alle viscere.
Egli doveva arrivare al Lido per incontrare il signor Giancarlo Nesto. Il signor Nesto voleva sbarazzarsi di un vecchio mobile del Settecento. Il signor Scarpa avrebbe potuto far restaurare il comò. Si affrettò a guardare l’ora, sollevando brevemente il soprabito, accorgendosi di non avere l’orologio. Egli non si preoccupò più di tanto, ricordava di averlo riposto all’ingresso di casa, in prossimità del mobile dove depositava il suo portafogli.
Il signor Scarpa osservava il paesaggio come fosse la prima volta. Questo gli succedeva sempre quando viaggiava in vaporetto. In quel mentre calava su di lui l’ombra lunga del Ponte degli Scalzi. Nel Sestrier di Santa Croce gli sguardi dei passeggeri si preparavano ad accogliere, lungo e lento, l’avvicendarsi architettonico del Fontego dei Turchi. Il signor Scarpa, tutte le volte che transitava di fronte al fondaco, si interrogava su come potessero stare sospese nell’acqua tali imponenza e leggiadria. La facciata colava sulla superficie liquida i suoi bianchi e scuri in forme sinuose. La facciata veneziana, in stile veneto-bizantino, riempiva gli occhi del fascino d’oriente. Dietro ad essa andava in scena la grande funzionalità di un palazzo al servizio dei fitti traffici commerciali. Il signor Scarpa, abile com’era a saltare avanti e indietro nel tempo, metteva in scena i suoi pensieri come in un film: al piano terra, uomini di un tempo lontano, abbigliati all’orientale, scaricavano merci dalle imbarcazioni attraccate. Due turchi erano vestiti con tessuti broccati e arabeschi sgargianti. Immaginava la foggia cangiante e fascinosa dei loro copricapi,  che aumentava ad ogni giro di turbante sopra la loro la testa. Intuiva, nella sua febbrile fantasia, che il colore bianco era la tinta privilegiata di quei copricapi. Le loro grandi dimensioni dipendevano dal rango sociale di appartenenza. Con la stessa agilità con cui sbarcò il suo immaginario all’attracco del fondaco, risalì a bordo. Abilmente associò i bei turbanti che aveva fantasticato ad un’immagine con la quale si era congedato prima di uscire di casa: il vaso di fiori all’ingresso. Su alcuni steli si reggevano i tulipani, con l’eleganza di turbanti candidi. La loro fioritura breve suggeriva in cuor suo la fugacità e l’ineluttabilità del tempo, della giovinezza e della freschezza della vita. Egli mise d’accordo i vari episodi della realtà e della sua fantasia: la visione dei tulipani e la foggia di quei turbanti, il presente e il sogno ad occhi aperti al fondaco.
“San Marcuola, San Marcuola!”
Il signor Scarpa fu svegliato di soprassalto dal suo sogno, dal marinaio che annunciava ai passeggeri la fermata. I vaporetti a Venezia erano come cuori pulsanti. Alle fermate alternavano un flusso ematico in uscita con uno contrario in entrata, come un ricambio di sangue e ossigeno. Un rinnovo di vita veniva traghettato lungo l’arteria principale di Venezia, qual era il Canal Grande, prima di irrorare la laguna.
La fantasia del signor Scarpa ricominciò a lavorare. Si ripeteva su larga scala il gioco dei cerchi nell’acqua, che amava osservare quando  pioveva  sui selciati. Se avesse visto la scena dall’alto, avrebbe potuto leggere un astratto di linee e colori, scie e curve. L’incrociarsi di imbarcazioni, le più disparate in lunghezza e carico, velocità e andatura, sottendevano alla stessa legge che vigeva nelle calli, dove i passanti procedevano, schivandosi come in una danza. Rallentavano e acceleravano il passo secondo un disegno con le sue leggi, un ritmo che aveva una sua cadenza e regolarità, dettato dallo scorrere fluido del tempo.
“Biglietti signori, prego signori il biglietto!”
Richiamato al presente, il signor Scarpa distolse lo sguardo dal panorama. All’avanzare del controllore egli rovistò nelle tasche del suo soprabito sempre più freneticamente. Preso dalla foga e agitato dalla presenza dell’uomo in divisa, ormai in piedi di fronte a lui, dal portafogli estrasse il suo biglietto di viaggio. Il controllore lo visionò e  glielo restituì. Il signor Scarpa nel rimetterlo all’interno del portafogli, vedendo una piega nell’angolo del suo documento d’identità nuovo, lo aprì. Con sorpresa notò che non si trattava della sua carta d‘ identità. Il nome era lo stesso, la foto invece era quella di un giovane ventenne. Com’era potuto succedere che all’ufficio anagrafe si fossero sbagliati a consegnare il documento? Andando con la memoria a quella mattina, gli sovvenne l’episodio accaduto all’ingresso, ovvero l’urto col giovane che stava uscendo. Giunse alla conclusione che il giovane aveva raccolto il suo borsello e il documento, scambiandolo con il proprio.
L’imprevisto gli procurava non poche grane. Avrebbe dovuto far denuncia alla polizia  per lo scambio avvenuto. Se non lo avesse recuperato, sarebbe dovuto ritornare in comune, perdendo ancora un sacco di tempo per rifarlo. Non riusciva a pacificarsi e metteva in relazione le cose avvenute in successione: l’episodio dell’ombrello, l’incontro casuale col ragazzo e lo scambio rocambolesco dei documenti. Ci doveva essere una chiave di lettura, non poteva trattarsi del caso. Il signor Scarpa riprese in mano il documento quasi cercando un indizio, un suggerimento in quella foto. Un po’ alla volta immaginava sé stesso ringiovanire. Notava che i suoi capelli diradati rinfoltivano i lati della fronte, attenuando gradualmente il bagliore della stempiatura, per poi rinvigorire tutto il capo. I suoi occhi profondi, incavati nelle orbite, ringiovanivano affiorando in superficie. Le zone in ombra agli angoli si rischiaravano e le rughe si stendevano. Le labbra sottili si rimpolpavano. Per un attimo il signor Scarpa, giovane studente universitario, con occhi nuovi riprese la sua navigazione di fantasia nel Canal Grande.
Le meraviglie sul Canal Grande lasciavano il posto al pensiero che più lo turbava: il suo documento di identità. Il vaporetto avanzava e sulle sponde si affacciavano le eleganti Ca’ Foscari, sede dell’Università, seguita da Ca’ Rezzonico in grande stile barocco, a fronte della quale stava Palazzo Grassi.
Il signor Scarpa ritornava a navigare dentro di sé, ripensando agli anni giovanili dell’università, alla sua passione per la letteratura, per l’arte e la scrittura. Il suo pensiero si infittiva, ritornando a quel manoscritto sepolto nel cassetto di camera sua e ora pronto per una  risistemazione.  Iniziava a credere sul serio che potesse avere una seconda occasione. C’era in tutta questa storia un qualcosa di irrisolto che andava sondato e svelato. L’atmosfera in lui si tingeva di mistero. Il vaporetto proseguiva e al mistero si sommava l’alone funereo che avvolgeva Cà Dario.  Il mezzo accostò nuovamente per fare l’ultima sosta sul Canal Grande. A destra il signor Scarpa fu folgorato dalla visione della Basilica della Madonna della Salute. Ai suoi occhi, la chiesa si presentava come un immenso ingranaggio. Un’ energia, dall’alto basamento a gradini, risaliva sulla pianta ottagonale e si trasmetteva agli imponenti contrafforti. Questi apparivano muoversi con le loro volute in un immenso meccanismo. Di lì a poco la cupola maggiore e quella più piccola si sarebbero messe a girare lentamente nella sua fantasia. Come nel moto di un immenso orologio, il più grande degli ingranaggi aveva bisogno del più piccolo e viceversa, per dar forma e misura al tempo. Il moto circolare si sarebbe perpetuato, accelerato dal gioco della luce sui costoloni della cupola. Ecco per il signor Scarpa un altro tassello del suo puzzle: il manoscritto ritrovato, il tempo rallentato della navigazione, il salto tra il presente e il passato suscitato dai palazzi affacciati, il documento scambiato, il giovane ed il vecchio Francesco Scarpa, la fantasia della basilica trasfigurata in un orologio e l’orologio da tasca, venduto giorni fa al “collezionista di macchine del tempo”. Aveva trovato un filo conduttore per continuare a tessere trame e aveva deciso di non denunciare lo scambio dei documenti. Il Vaporetto a velocità più sostenuta lasciava dietro di sé Punta della Dogana diretto a San Marco e a San Zaccaria, per poi girare le spalle alla Riva degli Schiavoni e proseguire per il Lido di Venezia.
     
Al ritorno dal lido di Venezia il vaporetto accostò all’imbarco di San Marco. La folla stava già tutta in piedi e si accingeva a sbarcare. Il signor Scarpa aveva deciso che sarebbe sceso per proseguire a piedi, passando per Piazza San Marco. In breve tempo il suo incedere spedito lo portò di fronte alla Basilica, per proseguire verso la Torre dell’Orologio. Avanzando, il suo sguardo si fece più indagatore; man mano che si avvicinava alzava il mento verso il quadrante. Il grande cerchio segnava le ore in numeri romani e mostrava i segni zodiacali con le relative costellazioni, i nomi dei mesi e i numeri dei giorni. La lancetta delle ore in forma di sole era una meraviglia. Nel disco più interno la terra e la luna erano pronti a ruotare sul loro asse. Il signor Scarpa aveva visto l’interno della torre più di una volta, restandone incantato. Superate  le  prime  scalette,  ricordava  di  aver  intravisto  il  gioco  di  pulegge,  pesi  e contrappesi  dell’orologio,  che  scendevano  e  salivano  silenziosi  a  intervalli  regolari. Oltrepassata una scala metallica a chiocciola, il suo ricordo giungeva in prossimità del complesso meccanismo dell’orologio: un’enorme macchina del tempo. Il cuore dell’intero sistema era un complicato insieme di ingranaggi, composto da quattro sezioni, dette treni. Mentre il signor Scarpa passava sotto l’orologio, ripensava a ciò che più l’aveva colpito: il treno del tempo. Emblematico e proverbiale già nel nome, questo sistema di catene e ingranaggi  trasmetteva  gli  impulsi  che  consentivano  al  pendolo  di  perpetuare  la  sua oscillazione. Nella terrazza all’esterno andava in scena il tempo, scandito dalle colossali statue dei Mori che battevano sulla campana sommitale ciascuno con il proprio martello. Il rintocco della campana riportò il signor Scarpa al suo presente e tornò così ad accelerare il passo lungo le Mercerie, arrivando dopo alcuni minuti alla sua abitazione.
Entrò in casa e percorse il corridoio fino alla cucina. Agnese era intenta a preparare la cena:
“Ciao Agnese sono tornato”.
“Bentornato Francesco come è andata al Lido?”
Il signor Scarpa tornò in corridoio e, procedendo verso il bagno, fece il gesto di togliersi l’orologio dal polso. Gli sovvenne di averlo lasciato la mattina sul mobile in prossimità dell’ingresso. Spostò il vaso per cercarlo; non trovandolo, cercò nel cassetto e tornò in cucina:
“Molto bene! Il comò è in buono stato per essere un originale del Settecento. Credo che me ne occuperò presto. Occorrerà portarlo in laboratorio da Franco Martegan a rinforzare il telaio”.
“Dove hai messo il mio orologio, Agnese? L’ho dimenticato questa mattina”
“Non ho visto il tuo orologio Francesco. Non è che l’hai riposto sul cassetto dove tieni di solito il portafogli?”
Il signor Scarpa iniziò a punzecchiare la verdura con la forchetta:
“Croccanti queste verdure, vai sempre al solito banco a prenderle?”
“Certo! Dagli Scarpa. Sai, ultimamente fanno pure consegne a domicilio. Me le sono fatte portare dal loro figlio”.
“Agnese, non trovo più il mio orologio; ho guardato anche nel cassetto”.
“Non è che l’hai lasciato in negozio prima di recarti al Lido? Speriamo tu non l’abbia perso!”
“No no! In negozio di certo non l’ho lasciato; comunque vedrò domani”.
Dopo cena il signor Scarpa coricatosi accese la sua lampada e rilesse le ultime righe scritte. Il romanzo era oramai alla sua conclusione e l’idea di provare a partecipare ad un concorso letterario era un pensiero che si ripresentava sempre più spesso nella sua testa.
Gli occhi del signor Scarpa cadevano sotto il peso delle palpebre. Si chiudevano e si riaprivano, come fossero in balia di un brulicare di farfalle in un campo di fiori. La stanchezza cominciava ad avere il sopravvento sulla lettura. Si addormentò sul fianco sotto la lampada accesa, i fogli che teneva in mano si sparsero sul parquet di legno. Si svegliò nel cuore della notte, spense la lampada e si mise a dormire profondamente. I suoi sogni avrebbero riordinato le idee per il giorno dopo. I tasselli  sarebbero andati al loro posto e avrebbe recuperato le sue energie, ricaricando il congegno di pulegge, ingranaggi e catene, pronto per scandire il tempo di un nuovo giorno.
      
Il mattino successivo, dopo essere sceso dalle scale, il signor Scarpa incontrò Carlo Venier:
“Buongiorno Carlo come sta? Ci sono novità per me?
“Buongiorno signor Scarpa, nessuna novità”.
Il signor Scarpa, lasciandosi alle spalle la guardiola, stava per uscire celermente per recarsi al negozio. Si girò bruscamente verso il custode, puntando il suo indice al mento in segno di dubbio:
“Ha visto qualcosa di strano ieri? Mi spiego, ha notato qualche estraneo aggirarsi nel palazzo?”
Carlo Venier lo osservava attentamente, alzando lo sguardo sopra gli occhiali e corrugando la fronte:
“Niente in particolare, soltanto una consegna di frutta e verdura a sua moglie da parte di un giovanotto”
“Ha avuto modo di notare qualcosa di particolare in quel giovane?”
“Era un giovanotto di poche parole, indaffarato frugava nelle sue borse di frutta e verdura; sbrigativo andava di fretta. No! Non ho notato nulla di strano”.
Il signor Scarpa, a questo punto, fece un cenno di saluto e uscì. Man mano che proseguiva a passo veloce, i suoi pensieri si ingarbugliavano, arruffandosi nella mente. Prendeva le ultime parole del portinaio e costruiva con queste una sua versione. Il giovane che aveva consegnato la frutta e la verdura a casa sua, andava di fretta ed era un ragazzo di poche parole, probabilmente aveva qualcosa da nascondere e il suo dileguarsi frettoloso lo confermava. Sospettava che fosse stato lui l’autore del furto del suo orologio. Ne avrebbe avuto conferma, soltanto dopo aver verificato di non averlo lasciato in negozio. Non appena vi giunse, la prima cosa che fece fu di controllare se avesse lasciato l’orologio da qualche parte. Andò in bagno per accertarsi che non fosse sul lavello, ma non lo trovò. Tantomeno stava nel cassetto in cui teneva il portafogli. Egli era giunto ad una conclusione: quel giovane era l’autore del furto del suo orologio nuovo. Del resto si trattava di un cronografo molto appetibile, di grande eleganza e non sarebbe stato difficile per il giovane averlo notato in prossimità dell’ingresso di casa sua. Lo avrebbe preso, in un momento di distrazione di Agnese, riponendolo nelle borse del suo carrello.
La mattinata passò rallentata da quell’episodio che puntualmente si ripresentava come un tarlo nel suo pensiero. Poco prima di mezzogiorno chiuse il negozio per recarsi alla bancarella di frutta e verdura, dove sovente si fermava Agnese.
Con grande stupore riconobbe subito Cesco, non per averlo conosciuto in altre occasioni,  bensì  perché teneva il suo documento chiuso nel portafogli in tasca. Non sapendo come procedere indietreggiò, continuando ad osservarlo da lontano. Riprendendo la via di casa, cercava di riordinare le idee. Il furto dell’orologio, il riconoscimento di Cesco alla bancarella del mercato erano altre due tessere del nuovo puzzle che stava completando nella sua testa. Secondo il suo modo di vedere la realtà, quel susseguirsi concatenato di eventi non era accaduto per caso, ma per quella sua legge di rapporti e relazioni, tessuti in un’unica trama nel tempo. Nei giorni successivi preferì far decantare i suoi pensieri per far ordine. In quel periodo lavorò alacremente al completamento del suo manoscritto.
Dopo alcuni giorni dedicati alla rilettura, decise di partecipare al concorso letterario “La Penna d’Oro”, che si teneva ogni anno a Venezia e premiava il miglior romanzo con una pubblicazione. Contento di aver concluso il romanzo, era come se avesse chiuso una parentesi aperta da decenni. Tuttavia non credeva che l’opera potesse avere la possibilità di essere selezionata tra le cinque finaliste. Che interesse poteva suscitare la prima opera di uno scrittore settantenne, dedito all’antiquariato da oltre quarant’anni? L’editoria avrebbe probabilmente optato per un giovane scrittore, che potesse garantire una produttività anche per il futuro. Fu così che mise l’ultima tessera nel suo puzzle. Sapeva che temporeggiare avrebbe significato trovare una soluzione.
Approfittando del caso di omonimia, avrebbe spedito il manoscritto con i dati anagrafici di Cesco. Sicuramente sarebbe stato maggiormente considerato dalla giuria di selezione. Occorreva però progettare il seguito del piano. Ovvero, in caso di selezione, Cesco avrebbe dovuto reggere il gioco. Come fare a convincerlo?
L’indomani il signor Scarpa, mentre compilava la scheda di adesione con i dati di Cesco, allegò la copia del documento del giovane e imbustò il tutto. A parte confezionò il manoscritto. Poi scese le scale, si avvicinò alla guardiola di Carlo Venier e diede il pacchetto e la busta al custode, affinché li spedisse.
Il signor Scarpa uscì dal palazzo e si incamminò verso il negozio.
I suoi pensieri non gli diedero tregua per tutto il tragitto. Proseguirono tutta la mattinata, interrotti soltanto dall’ingresso dei clienti e dalle loro richieste. Chiuso il negozio per la pausa pranzo, pensò bene di passare per il mercato di Rialto a far visita a Cesco.
Giunto alla bancarella trovatosi faccia a faccia con Cesco, si sentì rivolgere la parola:
“Cosa le serve?”
Il signor Scarpa, mentre prendeva tempo per cogliere il momento giusto, tentennava nella scelta. Cesco lo incalzava:
“Ehi signore! Ha deciso?”
“Ehm mi dia del radicchio di Chioggia e delle patate”
A questo punto il signor Scarpa si avviò a lato della bancarella. Con una scusa avvicinò Cesco, allontanandolo dagli altri clienti e gli sussurrò all’orecchio:
“So cosa hai fatto, chiamami questa sera”.
Il signor Scarpa, in quel momento, mise in mano a Cesco una banconota di dieci euro, con scritto il suo numero di cellulare e l’indirizzo della sua abitazione.
Cesco, colto di sorpresa, non capendo cosa stesse succedendo, in un primo momento stava per mettere il denaro in cassa. Accortosi che la banconota recava una scritta, la trattenne nel palmo della mano. Ricevuto il resto, il signor Scarpa si dileguò tra la folla, mentre Cesco mise in tasca la banconota. La curiosità, mista a timore, accompagnò la giornata lavorativa di Cesco. Quella frase “so cosa hai fatto” diventava un tarlo nella sua testa. Quali cose poco edificanti poteva aver fatto? Di sicuro serate e bagordi ne aveva combinati in giro per Venezia, ma Cesco stava cambiando. Da qualche tempo frequentava una ragazza; Genni era riuscita a smuovere quella dura corteccia e a fare breccia nel suo cuore. Cesco, da allora, aveva cominciato a lavorare su sé stesso. Usciva molto meno la sera e, quando lo faceva, rincasava sobrio e a un’ora decente. Già da un po’ non c’era più il padre a  rimproverarlo  e  la  madre  ad  accudirlo,  per  essere  ritornato  sfatto. Le parole del signor Scarpa tuonavano nella sua testa.
La curiosità si faceva sempre più intrigante nei suoi pensieri e giunta sera decise di telefonare. Rovistò nelle sue tasche, srotolò la banconota e lesse un numero di cellulare e l’indirizzo che il signor Scarpa aveva segnato per ricordargli la consegna fatta alla moglie, in modo che potesse intuire il male fatto. La telefonata durò qualche minuto; il signor Scarpa temeva una reazione scontrosa del giovane, per questo rimase nel vago, lasciandogli intendere che ci fosse una possibilità di rimediare all’accaduto. Il ragazzo negò qualsiasi fatto in merito al furto. Si difese, dicendo di essere rimasto all’ingresso di casa e che, qualsiasi cosa fosse sparita, non lo riguardava. A questo punto il signor Scarpa abbassò i toni. Si aspettava da un momento all’altro che Cesco ponesse la questione del documento scambiato. La conversazione ad un certo punto si fece più pacata e si concluse.  Cesco disorientato e confuso decise di lasciar correre la serata e di attendere la seconda mossa del signor Scarpa, che puntualmente sarebbe arrivata l’indomani.
Questa volta andò dritto al dunque. Avvicinatosi alla bancarella di Cesco, visto che c’era poca gente, subito attirò l’attenzione del giovane. Ordinati frutta e verdura gli passò una borsa di stoffa. Aprendola sotto il suo naso, sussurrò di prenderne il contenuto e di introdurre la spesa. Cesco con movimento rapido fece lo scambio. I due non proferirono altre parole. Il giovane si interrogava dove volesse andare a parare quell’anziano che improvvisamente era comparso nella sua vita.
Ritornato a casa, dopo aver cenato, si chiuse in camera sua, prese il pacco datogli dal signor Scarpa, avvolto con carta di giornale e un nastro. La  sua  curiosità si faceva sempre più pressante. Scartò il pacchetto ed estrasse la copia del manoscritto con sopra una lettera.

Cesco aprì la lettera e iniziò la lettura:

“Francesco, ti scrivo affinché tu possa riparare a quello che hai fatto. Anche se tu non possedessi più quello che era mio, potresti avere la tua seconda possibilità. Leggi il manoscritto che ti ho fatto avere; si tratta di una mia opera iniziata molti anni or sono e terminata da poco. La tua seconda possibilità sarà la mia seconda occasione. Far rivivere negli occhi e nella mente di un giovane i pensieri scritti tanto tempo fa e ora completati da un vecchio. Ti prometto che non denuncerò alle autorità il furto subito e non ti coinvolgerò in questo senso. Per riscattare la tua libertà, tuttavia non ti basterà una semplice lettura. Una copia del manoscritto è stata spedita con i tuoi dati personali e parteciperà alla selezione del concorso letterario veneziano “La Penna d’Oro”. Nel caso venisse sorteggiato tra i cinque finalisti, dovrai partecipare alla serata finale al posto mio, prendendo parte al dibattito. Il vincitore avrà la possibilità di vedere pubblicata la propria opera. In questo caso sarò io a beneficiare degli utili di pubblicazione. Sarà più semplice per la giuria riconoscere l’opera quale frutto della freschezza di un giovane scrittore, piuttosto che il lavoro tardivo di un vecchio settantenne. Fa questo per me e potrai scordare di avermi incontrato e io dimenticherò la tua visita furtiva a casa mia”.
Cesco rimase sveglio fino a tardi pensando a quella lettera e andò maturando una decisione da prendere. Cominciò a sfogliare il manoscritto e a leggere le prime pagine; la lettura non era semplice per lui. Di sicuro non era un lettore abituale e i suoi insuccessi scolastici non lo aiutavano. Continuando con la lettura, i suoi pensieri venivano di frequente interrotti; nella sua mente si inserivano l’immagine della sua ragazza, i suoi sorrisi, alcune frasi. Sgranati gli occhi, Cesco riprendeva la lettura fino al cedere delle palpebre. Si addormentò con il pensiero di dover prendere una decisione. Rinunciare o accettare la proposta?
L’indomani il signor Scarpa si fermò di ritorno dal lavoro alla bancarella di Cesco, con la scusa di prendere altra frutta e verdura. Non sarebbe più tornato, doveva essere per forza l’ultima volta, poiché Agnese si stava insospettendo. Troppa frutta e verdura in pochi giorni ravvicinati e, per di più, presa dal marito che prima d’allora non era mai andato a far la spesa. Egli giustificò ad Agnese la scomparsa dell’orologio con lo smarrimento, probabilmente accaduto, nel tragitto verso il Lido. Non amava mentire alla moglie, ma viveva la cosa come una giusta causa per portare a compimento il suo piano. La possibilità di riappropriarsi del tempo perduto, attraverso una seconda occasione, poteva essere un “treno del tempo” che non sarebbe più passato. Cesco vide avanzare da lontano il signor Scarpa e, seguendolo con lo sguardo, fece in modo di liberarsi dagli altri clienti, così da servirlo velocemente. Nell’insaccare la spesa borbottò sottovoce e a denti stretti:
“Va bene, può contare su di me”.
Al signor Scarpa bastarono queste poche parole per andarsene soddisfatto del risultato ottenuto. Il suo piano finalmente aveva una forma e una compiutezza. Non si spiegava come Cesco avesse potuto accettare la sua proposta. Forse per il timore di essere denunciato del furto fatto. Cesco inoltre non aveva ancora detto di possedere il documento del signor Scarpa. Il piano si reggeva più sulle cose celate che sulle certezze.
       
Cesco trascorreva le sere con Genni. Rincasando ad un’ora accettabile, si dedicava in seconda serata alla lettura dell’opera Non ti avrà mai il tempo. All’inizio non era proprio convinto della buona riuscita del piano. Non aveva fatto grandi letture e questo non gli dava gli strumenti necessari per valutare il testo e tantomeno per comprenderne fino in fondo il senso. Tuttavia, dopo le prime pagine, la sua attenzione crebbe e ugualmente l’interesse per i personaggi e il loro rapporto col protagonista principale: il tempo e il suo scorrere inesorabile. Cesco rifletteva sul valore del tempo e su quale fosse stato il suo rapporto con esso. In passato sicuramente ne aveva sprecato molto, insieme alle occasioni dalle quali sarebbero potute nascere delle opportunità. Ma ora che la sua vita aveva cominciato a prendere una piega diversa, si sentiva motivato in quel che faceva.
Proseguendo nella lettura, Cesco si faceva parte attiva, riflettendo sulle parole, immedesimandosi nei personaggi e nel loro vissuto. Nella sua testa faceva breccia un’ipotesi, un pensiero torbido misto a turbamento, ma al tempo stesso attraente. Cesco avrebbe voluto avere un ruolo principale in tutta questa storia. Finalmente vedeva la possibilità di parteciparvi più attivamente. Non gli bastava più soltanto una lettura passiva. Ora iniziava a capire la trama e le sue sfumature. Sentiva sue quelle parole e comprendeva i sentimenti dei personaggi. Avrebbe potuto scriverle lui quelle frasi, se gli eventi della vita l’avessero condotto tempo prima a quella sensibilità. Si presentava solo ora una seconda occasione ed era il signor Scarpa ad avergliela servita su un piatto d’argento. Giunta la notte tarda, Cesco aveva oramai chiaro in testa che tipo di ruolo attivo avrebbe voluto per sé: il ruolo principale di autore unico dell’opera, esserne l’autore a tutti gli effetti. Ne avrebbe beneficiato economicamente con i diritti di autore e, agli occhi di Genni, nella sua nuova veste di giovane scrittore. Se avesse voluto rivendicare i suoi diritti fino in fondo, l’organizzazione avrebbe creduto sicuramente a lui. Restava da sciogliere il nodo della ritorsione che il signor Scarpa avrebbe potuto fare, denunciandolo quale autore del furto in casa sua, ma di questo Cesco non si preoccupava più di tanto. Qualsiasi cosa fosse successa, era la sua parola contro quella del signor Scarpa.
Agnese, alzatasi di buonora, si avvicinò all’armadio dei vestiti. Aprì l’anta e fece scorrere le grucce da destra a sinistra. Conservava in un vecchio armadio i bei vestiti suoi e del marito, da indossare in particolari eventi. Gli abiti, per le occasioni importanti di un tempo, stavano appesi e chiusi in custodie trasparenti. Alcuni di questi avevano avuto qualche occasione in più per essere indossati. Ma i più rimasero lì, a suggellare i momenti di festa, le cerimonie del passato. Da destra a sinistra stavano gli abiti usati più volte; seguivano quelli dimenticati. Appena aperto l’armadio, primeggiava un abito blu del marito, seguito da un paio di grucce vuote. L’anta a sinistra si apriva facendo più resistenza e con un cigolio che Agnese non ricordava da tempo. Un grande involucro in nylon opaco, dal quale debordavano dei pizzi, occupava una buona metà dell’anta. Sapendo che si trattava del suo abito da sposa, Agnese tornò ai primi abiti quasi cercando distrazione, per  poi ritornare sull’abito bianco. Aveva voluto per il suo matrimonio un abito da sposa modello scivolato, semplice e sobrio. Non resistette all’idea di rivederlo, prese dall’armadio la busta e tolse il vestito dall’involucro. Lo avvicinò al suo busto, la forma seguiva ancora le linee del suo corpo. Agnese si immaginò vestita come un tempo. Prese dalla gruccia vicina l’abito da sposo del signor Scarpa, lo tolse dal suo involucro e lo stese a fianco al suo. Il completo classico era ancora intatto: una giacca a doppio petto con sei bottoni, un pantalone dello stesso tessuto grigio scuro e sobrio, una camicia bianca e una cravatta. I due abiti stavano uno vicino all’altro. Inanimati rivivevano nella fantasia di Agnese che si accese di bei ricordi. Il bianco del suo abito riassumeva in sé la luce di tutti i colori dello spettro luminoso. Rivitalizzava in lei dolci ricordi e purezza misti a sensualità. L’abito da sposo grigio ben si accostava in eleganza e linearità.
Gli indumenti in quell’armadio avevano vestito Agnese e il signor Scarpa, li avevano accompagnati nel tempo, rappresentandoli agli occhi degli altri e ai loro occhi. Attraverso le loro fogge e colori comunicavano ancora i loro stati d’animo e le occasioni di allora. Attraverso gli abiti Agnese e il signor Scarpa si vestivano soltanto in parte, coprendo i loro corpi e svestendosi nell’anima.
Nello scorrere le grucce Agnese tornò nuovamente agli abiti della prima anta. Staccò col bastone appendiabiti il vestito blu e lo mise da parte. Dopo aver rivisto un paio di giacche nere, la sua attenzione si soffermò su un ultimo vestito rosa che le si addiceva molto.
In quel momento entrò il marito:
“Agnese, stai preparando gli abiti per stasera? Sarà una serata memorabile. Mi prepari il vestito blu per cortesia?”
Agnese aveva già messo da parte il vestito del marito, conoscendo la sua predilezione per il blu e decise per sé il vestito rosa. Il signor Scarpa, tutto preso da sé stesso, non notò che gli abiti nuziali stavano stesi sul letto; tantomeno chiese ad Agnese come si sarebbe vestita per la serata. Agnese riappese gli abiti da sposi e chiuse l’armadio. L’anta di sinistra col suo cigolio sigillò i suoi ricordi.
Nel frattempo il signor Scarpa si fece coraggio nel portare avanti la sua finzione:
“Agnese, volevo chiederti una cortesia. Andresti in deposito a cercare per me un candelabro di ottone in stile bizantino? Domani mattina presto passerà in negozio un cliente a vederlo. Non riuscirei ad andare al deposito a cercarlo. Vorrei anche rivedere qualche passo del mio romanzo, per non essere colto impreparato stasera”
“A che ora sarebbe l’inizio della cerimonia?”
“Alle 21.00 Agnese, potresti farcela se tu andassi al deposito già pronta per la serata. Nel frattempo manderei Carlo a prenderti con un taxi, per accompagnarti  fino a Palazzo Pisani Moretta”.
Agnese non poteva sapere cosa avesse in mente il marito. Egli continuava a tessere la sua tela, non più immaginando e fantasticando. Aveva innescato un meccanismo dal quale non poteva più tornare indietro. La macchina del tempo, gli ingranaggi degli eventi, la successione di cause ed effetti erano oramai in movimento. Aveva coinvolto Cesco, spedendo il manoscritto con i suoi dati e con la copia del suo documento, ora doveva coinvolgere Agnese. Era necessario che la moglie non fosse presente alla serata di gala, non avrebbe dovuto sapere in nessun modo del coinvolgimento di Cesco in questa storia. Avrebbe fatto tardare Agnese, incaricando il custode di accompagnarla alla festa per le 21.00. Il marito aveva fatto credere ad Agnese che si trattasse di una cena di gala. In realtà, dopo l’invito dei finalisti sul palco, si sarebbe consumato un cocktail aperitivo e per quell’ora il tutto sarebbe già stato concluso. Avrebbe impedito alla moglie di giungere sul posto, avvisandola per telefono, rammaricandosi e scusandosi infinitamente per aver confuso l’orario. Il signor Scarpa, in questo modo, la sera della premiazione sarebbe rimasto solo tra la folla ad osservare che tutto andasse liscio.
         
Quella sera Palazzo Pisani Moretta splendeva in tutta la sua magnificenza. Si faceva largo a forza tra Palazzo Barbarigo della Terrazza e Palazzo Tiepolo. Il gioiello del Sestrier di San Polo era stato recentemente ristrutturato. Il signor Scarpa aveva avuto modo di vederlo e frequentarlo in occasione del carnevale, durante un sontuoso ballo in maschera. Ogni anno vi si celebrava la festa del Doge danzante. Visto dal Canal Grande, il palazzo la sera si accendeva e srotolava il suo drappo di luci dorate sulla superficie dell’acqua. I  magnifici  saloni erano ancora sontuosamente arredati ed illuminati dalle candele dei meravigliosi lampadari di Murano. Nel Salone delle Feste trionfavano orchidee, rose e anthurium in centritavola. Alcuni ospiti cominciavano ad arrivare con le gondole, mentre un quartetto di archi diffondeva nell’aria una dolce melodia. Dagli splendidi finestrati a traforo filtrava la luce in un gioco vibrante; gli archi delle finestre apparivano intrecciati e abbracciati ai motivi quadrilobi soprastanti. La superficie architettonica prendeva corpo e volume dalla sporgenza dei balconcini, mentre la meravigliosa facciata celava splendidi affreschi settecenteschi.
Il signor Scarpa viveva ogni momento con incanto e ammirazione. Gli ospiti venivano accolti al piano terra e poi condotti al piano nobile per la premiazione. Il salone del piano nobile era splendido, illuminato soltanto dalle candele, il tempo sembrava essersi arrestato. La sala lentamente si andava riempiendo e il signor Scarpa allungava il collo a destra e sinistra, alzandosi sulle punte dei piedi. Il suo sguardo si faceva largo tra la folla, scrutando i volti dei presenti. Cercava di intravedere Cesco; la sua ansia si faceva sentire, finché lo notò all’ingresso del salone, mentre cercava un posto per sé e Genni.
Agnese, giunta nel frattempo al deposito, aprì il cassetto della scrivania, dove solitamente il signor Scarpa lasciava il registro dell’inventario. Non trovandolo, si mise a cercare comunque gli articoli. Questi non erano divisi per tipo ma per codici e il fatto che fossero confezionati la costringevano a fare una ricerca per forma e dimensione dell’involucro. Ogni tanto guardava il cellulare per controllare l’ora, erano già le 19.30. Nel frattempo il custode, che era giunto col taxi, attese all’esterno qualche minuto e, non vedendo arrivare Agnese, entrò nel deposito per aiutarla. Agnese si era oramai decisa ad abbandonare la ricerca, quando Carlo Venier vide sopra uno scaffale l’inventario generale e velocemente si mise a sfogliarne le pagine. Finalmente trovarono quello che stavano cercando. Agnese, precipitatasi in bagno a sciacquarsi le mani, uscendo vide sullo sgabello l’orologio del marito. Ricordava bene che le aveva detto di averlo perso, probabilmente scendendo dal vaporetto. Agnese non sospettava di nulla, conosceva la sbadataggine del marito. Prese in fretta l’orologio e spense le luci. Chiuso il portone, aiutata dal custode che le tese la mano, salì a bordo del taxi che si avviò sul Canal Grande, verso la destinazione. La cerimonia doveva iniziare verso le 21.00. A quell’ora sarebbe stato tutto concluso e il signor Scarpa le avrebbe telefonato per scusarsi dell’accaduto. Secondo il suo piano, avrebbe lasciato in anticipo il brindisi finale per raggiungere la moglie che, avvisata del malinteso, sarebbe rincasata. Ma Agnese quella telefonata non la ricevette. Alle 21.00 arrivò all’attracco del Palazzo Pisani Moretta.
Qualcosa di imprevedibile aveva colto di sorpresa il signor Scarpa. La cerimonia subì uno slittamento a causa di un forte ritardo delle autorità. Il buffet aperitivo fu anticipato per allietare i tempi dell’attesa. All’annuncio dell’organizzazione, che l’inizio della serata sarebbe slittato di un’ora, il signor Scarpa perse le speranze. Agnese di lì a poco sarebbe arrivata, se lui non le avesse telefonato.
Gli ospiti si avvicinarono al buffet, dove poterono sorbire aperitivi veneziani e cicchetteria tipica. Il signor Scarpa non beveva né assaggiava nulla. Egli era oppresso dal pensiero di come porre rimedio alla situazione che stava precipitando. Si aggirava fra i tavoli come un fantasma a palazzo. Il girovagare senza meta si protrasse per alcuni minuti, fino a quando Agnese lo colse di sorpresa. Si girò di scatto e fece un balzo indietro, come avesse visto lo spettro della moglie che invece gli sorrise. Il marito non disse una parola per alcuni minuti; non era da lui stare zitto in un momento così importante, lo conosceva molto bene. Egli, in un altro stato d’animo, avrebbe parlato all’infinito per scaricare la tensione.

“Ti senti bene Francesco? Hai un’aria spettrale!”
Le parole di Agnese rimbombavano nella testa del marito, come se una boccia colpisse le sponde di un biliardo ripetutamente, prima di finire in buca. Proprio al tracollo del suo piano, Agnese gli offrì la soluzione: il signor Scarpa avrebbe finto di star male, per allontanarsi poco prima della premiazione. A questo punto il suo pallore lasciò il posto al roseo delle guance, anche se durante la serata, finse di star poco bene. Muovendosi furtivamente tra i tavoli, cercava Cesco senza dare nell’occhio. Avvicinandosi gli fece segno con lo sguardo e l’indice puntato in direzione del bagno. Cesco congedò momentaneamente Genni e si diresse al bagno, dove lo attendeva il signor Scarpa. I due si trattennero un paio di minuti per definire gli ultimi dettagli. Il signor Scarpa informò Cesco del cambiamento repentino di programma. Se avessero pronunciato il suo nome, fra i tre finalisti, avrebbe finto un mancamento e si sarebbe allontanato, assistito da Agnese. Cesco, prima di salire su palco, avrebbe dovuto temporeggiare e aspettare che i due uscissero dalla sala. A questo punto la serata per il signor Scarpa e Agnese si sarebbe conclusa con un immediato ritorno a casa. I due, accordatisi, uscirono dal bagno uno alla volta e ritornarono dalle loro rispettive donne. Il signor Scarpa riacquistò un po’ di fiducia in sé stesso e nel suo piano. Non era facile per lui fidarsi di Cesco. I ruoli si erano oramai invertiti. Egli da una posizione dominante, che dettava le regole del copione, doveva ora affidarsi alla vittima del suo piano. Il signor Scarpa, da calcolatore di eventi, era costretto a fidarsi degli altri e questo non era nella sua indole. La sua attitudine a voler tenere tutto sotto controllo non poteva lasciare spazio alla fiducia. Il carnefice costretto a fidarsi della vittima era un copione che non poteva reggere lungamente. Non a caso passò il resto della serata a pianificare delle contromosse.
Gli ospiti si accomodarono nuovamente in sala. Il signor Scarpa, pur essendoci dei posti liberi nelle prime file, preferì sedersi nei posti laterali a metà, lontano dal palco e vicino all’uscita. Agnese era andata avanti convinta che il marito la seguisse. Giratasi, tornò indietro e lo trovò già accomodato. Il tempo di scambiare qualche battuta e le poltroncine davanti si riempirono. Ad Agnese non restò che il posto a fianco del marito. Cesco e Genni si erano spostati più indietro e al centro della fila. Il signor Scarpa si accertò che la posizione lontana e centrale permettesse a Cesco di avanzare lentamente verso il palco. Avrebbe dovuto scomodare i vicini di posto, guadagnando così il tempo necessario per permettere ad Agnese di uscire di scena, senza che lei lo notasse avanzare. La sala si riempì definitivamente. Nel frattempo arrivarono le autorità che si sedettero in prima fila. Le luci in platea si spensero e la presentatrice della serata prese la parola.
La serata era cominciata bene e proseguiva per il meglio. La presentatrice interveniva interloquendo con gli ospiti in giuria che avevano già selezionato le cinque opere. Di lì a poco si  sarebbero  pronunciati sulla ulteriore selezione per la finale. Il signor Scarpa puntualmente si girava a cercare il volto di Cesco. Lo intravedeva a tratti tra le file, dalla parte opposta della sala.
Mentre la presentatrice si avvicinava al leggio, in sala calò il silenzio. Il signor Scarpa si fece cupo in volto. Era il momento della selezione e lettura di alcuni passi significativi delle tre opere finaliste. Alla nomina della prima opera selezionata, il romanzo Menzogne d’amore, dal pubblico si alzò a gran voce un grido di gioia. All’udire il titolo, il signor Scarpa si sentì quasi chiamato in causa. La seconda opera selezionata fu il romanzo Giovani e vecchie realtà. Il passo letto era di grande intensità. Le due opere selezionate sembravano ispirate al signor Scarpa. Da una parte le sue menzogne ad Agnese e dall’altra il sogno del giovane scrittore, rivelatosi in realtà come il piano rocambolesco voluto da un vecchio. Mancava una sola opera alla selezione. In sala scese di nuovo il silenzio, mentre il signor Scarpa si voltò alla ricerca di Cesco.
La presentatrice annunciò a gran voce il terzo romanzo selezionato:
“Signore e signori, la giuria ha selezionato il romanzo Non ti avrà mai il tempo come terza opera finalista”.
Agnese fece un balzo sulla sedia. Il signor Scarpa si teneva il petto. In quel momento Agnese, rovistando nella borsa alla ricerca del fazzoletto, trovò nel fondo l’orologio del marito. Prese la sua mano, gli sollevò il polsino e infilò il suo crono.
Il marito sbiancò e si rivolse ad Agnese:
“No, e questo dove l’hai trovato?”
Agnese, tagliando corto per non perdere la lettura che stava per iniziare, replicò: “l’avevi lasciato sullo sgabello nel bagno del deposito”.
Il signor Scarpa si fece di ghiaccio e si toccò nuovamente il petto. La lettrice iniziò a leggere. Egli non ascoltava. Il suo orologio al polso rimescolava le carte in gioco. Cesco non era responsabile del furto. Occorreva agire ancora una volta e subito. Il rapporto tra I due non si reggeva più sul ricatto. Il signor Scarpa continuava a interrogarsi sul vero motivo che aveva spinto Cesco ad accettare lo scambio dei ruoli. Del resto Cesco all’inizio aveva negato di essere l’autore di qualsiasi furto e non aveva mai accennato di possedere il documento del signor Scarpa.
Il tempo della presentazione era oramai agli sgoccioli e la lettrice continuava:
“…oh madre…un grande cuore palpita sempre irregolare… per questo non ti avrà mai il tempo e non avrà cura di te”.
Cosa aveva spinto Cesco ad accettare il ricatto? Mancava un paio di minuti al termine della lettura introduttiva e di lì a poco Cesco sarebbe dovuto salire sul palco al suo posto. La macchina delle relazioni tra gli eventi prendeva corsa, fino all’illuminazione finale: il signor Scarpa aveva tratto una conclusione. Cesco, sin da subito, aveva visto nella sua proposta una possibilità  di riscatto. Essersi presentato alla serata con la sua ragazza, confermava la probabilità che a spingere Cesco fosse la brama di successo, il volere far bella figura agli occhi di Genni. Non la minaccia e il ricatto, ma la vanità di quel ragazzo arrogante stava all’origine del fatto che aveva accettato pacificamente l’incarico. L’unico che avrebbe tratto beneficio sarebbe stato Cesco. La copia del suo documento era stata imbustata dal signor Scarpa con la scheda di adesione che accompagnava il volume. Il signor Scarpa ormai era giunto alla sua conclusione, aveva tessuto ancora una volta la sua trama. Prontamente, in soli due minuti, scrisse il finale di quella serata. Dapprima Cesco avrebbe occupato la scena dell’evento, come da accordi, poi, nel caso l’opera fosse stata pubblicata, avrebbe potuto pretenderne tutti i diritti. Cesco non poteva più essere ostacolato da nessuno.
La presentatrice si avvicinò nuovamente al microfono, sistemò l’asta e pronunciò le fatidiche parole:
“Signore e signori è un immenso piacere invitare sul palco l’ultimo dei tre finalisti che accederanno alla selezione per la pubblicazione dell’opera. Il signor Francesco Scarpa salga e si accomodi tra gli ospiti, grazie”.
Nella poltrona del signor Scarpa si scatenò il putiferio. In quei pochi secondi fu investito da due cicloni contrari e uniti in una tempesta perfetta. Cosa fare? Si mise la mano destra sul petto, simulando  l’accidenti che l’avrebbe portato fuori scena, per lasciare il posto a Cesco. Con l’altra mano invece si trattenne con forza al poggiolo della poltroncina. Mentre la metà sinistra del corpo stava ancorata alla sedia, la parte destra balzava quasi in piedi. Agnese lo osservava stupita per la reazione. Egli immaginò in pochissimi frammenti due scene opposte: lui e Cesco che avanzavano verso il palco a contendersi la paternità dell’opera e, di contro, sé stesso accasciato mentre imboccava l’uscita dalla sala. Cosa fare in quel momento? Lasciare libero campo a Cesco e fidarsi di lui o fidarsi solo di sé? A questo punto Agnese scattò in piedi e lo tirò per il braccio con una presa forte e sicura. Lo strattonò, allontanando la sua mano dal petto e lo spinse verso il palco. Agnese, che solitamente agiva con mitezza, prese in mano la situazione, svegliando il marito dal suo immobilismo. Il signor Scarpa, a questo punto, procedeva sempre più spedito verso il palco, sistemandosi la giacca e il polsino. Non osava voltarsi in dietro, ma immaginava Cesco mentre avanzava con passo sicuro e regolare. Non aveva più soluzioni in tasca, non più assi nella manica; nessun meccanismo avrebbe agito secondo un ordine precostituito. Egli era in balia degli eventi da lui scatenati. Sarebbe salito sul palco e, alla vista di Cesco che avanzava, avrebbe gridato a gran voce contro l’impostore. Il signor Scarpa prese posto nell’unica sedia rimasta libera. A questo punto Cesco sarebbe rimasto ai margini a pretenderne il posto. Il signor Scarpa sgranò gli occhi, si guardò attorno. Scrutò velocemente la sala, arrivando con lo sguardo fino alle ultime file. Cesco era seduto al solito posto con Genni e non si alzò fino al termine della serata.
Il dibattito giunse alla fine, il signor Scarpa scese dal palcoscenico, estenuato ma felice. Andò incontro ad Agnese, l’abbracciò come non aveva mai fatto e la prese sottobraccio. Cercò con lo sguardo Cesco che però non era più tra gli ospiti. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, ma quello che contava adesso era godersi quel momento. Egli era incredulo, il tempo aveva girato ancora a suo favore, ma non era stato lui l’artefice di tutto questo. Finalmente non si sentiva più solo di fronte al gigante che regolava il divenire degli eventi. Intuì che tutti agivano intervenendo autonomamente nel tempo, secondo coscienza e libero arbitrio. Comprese che il suo modo di relazionarsi con esso era un modo per starsene da solo con le proprie false certezze. Egli, in quel momento, capì la grande fortuna di avere al suo fianco Agnese e comprese anche gli intenti di Cesco.
La serata si avviava alla conclusione e il signor Scarpa con Agnese uscì da Palazzo Pisani Moretta; i due scelsero di andare a piedi per godersi una passeggiata. Stava cominciando a piovigginare, ma fortunatamente il signor Scarpa aveva portato con sé il suo ombrello. Le gocce cadevano sempre più fitte, formando delle piccole chiazze d’acqua sul selciato, una dietro l’altra, come in una collana di perle. Poteva essere uno di quei momenti tanto cari al signor Scarpa, osservare l’intreccio di cerchi che la pioggia tesseva, ma prima ancora che l’incanto cominciasse, i coniugi Scarpa furono avvicinati da una persona misteriosa. Si trattava dello strano cliente che settimane prima era stato nel negozio del signor Scarpa e che aveva acquistato l’orologio da tasca. “Il collezionista di macchine del tempo” era fra gli invitati a Palazzo Pisani Moretta.
“I miei più vivi complimenti. Bel romanzo veramente; i passi letti sono stati sublimi”.
Il signor Scarpa non fece in tempo a ringraziare, che il collezionista tirò fuori dal taschino l’orologio acquistato e lo mostrò commentando:
“Guardi, si è fermato alle 21.00 e non so più come riavviarlo. Lei crede sia una cosa grave?”
Nella mente del signor Scarpa cominciarono a risalire i pensieri più arditi come in una scalata. In successione, l’orologio ritrovato, l’arrivo puntuale di Agnese alle 21.00, coincidente con il ritardo dell’inizio serata, il “collezionista di macchine del tempo” con l’orologio fermo proprio alle nove di sera. Il surreale iniziava a rifare breccia nella sua mente. Già non sentiva più il braccio di Agnese che cingeva il suo.
Egli scrollò la testa e si ridestò:
“Niente di grave signore, passi da me domani, ungerò un po’ gli ingranaggi e tornerà come nuovo”.
I coniugi Scarpa ripresero a camminare sotto la pioggia, schivando le persone che incrociavano il loro ombrello, rompendo il gocciolare sul selciato coi loro passi, distesi e calmi. Egli strinse Agnese a sé e la guardò negli occhi, ignaro di ciò che accadeva intorno a loro.
          
Il mattino seguente, il signor Scarpa scese le scale e si avvicinò alla guardiola di Carlo Venier.
Il custode, con fare disinteressato, salutò per primo come era solito: “Buongiorno, ha riposato bene?”
“Sì Carlo. La ringrazio per aver accompagnato mia moglie alla serata di ieri”.
Carlo Venier estrasse dal mobiletto sotto la guardiola il pacchetto che conteneva il candelabro. Mentre il signor Scarpa stava per andare verso l’ingresso, egli prese dal cassetto una busta e lo richiamò:
“Scusi, un giovanotto è passato questa mattina presto e mi ha lasciato questa per lei”.
Il signor Scarpa prese in mano  la  busta  e  il  candelabro  e  si  diresse  al  negozio. Non appena entrato, la prima cosa che fece, fu di aprire immediatamente la busta. Al suo interno vi era il suo documento. Egli intuiva, ma non pienamente, il senso di tutto.
Quella stessa mattina il custode passò davanti alla bancarella di frutta e verdura della famiglia di Cesco, affiancata dal banco dei fiori. La sua memoria andò alla mattina di alcune settimane prima, in cui vide Agnese che rientrava dal mercato con un mazzo di fiori splendidi; in quel pomeriggio Cesco era salito da lei a consegnare la spesa. Il custode non si era limitato ad attenderlo giù e, fatti alcuni gradini, si era affacciato dal pianerottolo e lo aveva visto entrare in casa, su invito di Agnese. In seguito lo aveva atteso di sotto. Mentre si aprivano le porte dell’ascensore, non aveva notato nulla di insolito, se non il rovistare un po’ frettoloso nello zainetto appeso al carrello. Salutato il giovane, ritornando verso la guardiola, aveva colto davanti all’ascensore un petalo bianco di tulipano. La sera Carlo Venier rincasò. Come tutte le sere era abituato a passare nella stanza della figlia mentre studiava, per salutarla. Fu in quel momento che notò un vasetto con due tulipani bianchi sopra uno scaffale, seminascosto dai volumi della libreria a giorno. Alla vista dei fiori, la sua mente andò subito all’episodio del pomeriggio. Tra padre e figlia vi era un rapporto speciale. In virtù di questo egli riuscì a farsi confidare chi fosse il suo ragazzo, Francesco Scarpa detto Cesco, il figlio della famiglia Scarpa che gestiva l’ortofrutta a Rialto. Per alcuni giorni Carlo Venier temette che quei tulipani fossero stati il frutto del gesto di un giovane innamorato. Cesco avrebbe potuto prendere quei fiori all’ingresso dell’appartamento di Agnese. Del resto Carlo Venier stesso aveva notato i bei tulipani con i quali Agnese era rincasata la mattina. Il sospetto era stato alimentato anche dall’insistenza con cui il signor Scarpa si informava se avesse notato estranei nel condomino. Il custode non sapeva del furto dell’orologio, sospettato dal signor Scarpa. Il suo timore era per un peccato minore, il gesto impulsivo di un innamorato. Aspettò alcuni giorni, dando fiducia al giovane e preservando l’amore di Genni. In quelle mattine si recò al mercato più frequentemente per osservare Cesco, finché un giorno, allontanandosi dalla sua bancarella, il custode passò davanti al fioraio. Colse un paio di tulipani bianchi, li osservò e sorridendo li ripose tra gli altri fiori rasserenandosi. Concluse che i boccioli visti in camera della figlia erano l’acquisto di Cesco per la sua amata.
Carlo Venier il giorno in cui aveva ricevuto il pacco con la busta da parte del signor Scarpa, affinché provvedesse alla spedizione, uscendo dal palazzo si era incamminato lungo la calle. La pioggia era caduta fino a pochi minuti prima. L’urto distratto di un passante aveva causato la caduta della busta. Il custode l’aveva raccolta prontamente facendo il possibile affinché non si bagnasse. Arrivato alle poste aveva visto lo stato della busta e decise che fosse meglio passarne il contenuto in una nuova e ricompilare l’indirizzo. Se ne sarebbe occupato immediatamente e avrebbe poi avvisato il signor Scarpa. Non appena aperta, era rimasto stupefatto alla vista della copia del documento di Cesco. Carlo Venier aveva intuito che c’era qualcosa di poco chiaro, che avrebbe potuto nuocere al ragazzo di sua figlia e indirettamente a lei. La stima per il signor Scarpa aveva vacillato in quel momento. Giustamente il custode aveva pensato che Agnese non fosse al corrente dell’intento del marito, qualunque esso fosse. Decise allora di spedire solo il pacco con l’opera, senza la lettera di adesione e il documento allegati, il tutto all’insaputa del signor Scarpa. La seconda possibilità tanto desiderata dal signor Scarpa gli era giunta non da sé stesso, bensì da chi gli stava intorno. Gliela aveva data Cesco, rinunciando al suo piano e Carlo Venier, neutralizzando il suo inganno. Agnese aveva contributo con il ritrovamento dell’orologio, che aveva messo fuori gioco lo scempio del marito. Costoro avevano agito liberamente nel tempo, senza finzioni. La fortuna del signor Scarpa era stata quella di aver coinvolto personaggi liberi, perché capaci di muoversi nel divenire del tempo. Lui invece sarebbe rimasto rinchiuso fino alla premiazione nella sua dimensione immaginaria e inconcludente.
Un paio di giorni dopo la serata delle selezioni, rincasando, il signor Scarpa si rivolse come di consueto al custode:
“Buongiorno Carlo, c’è qualcosa per me? “
“Buongiorno signor Scarpa. Certo, c’è una lettera”.
Il signor Scarpa prontamente prese la lettera e salì in fretta in ascensore per arrivare velocemente alla sua abitazione. Per l’attesa i piani diventavano cento e il vano dell’ascensore, dalla dimensione di uno sgabuzzino, appariva allungarsi all’infinito. Il signor Scarpa viveva quell’attesa trepidando, mentre il suo cuore si rianimava di spasmi che solo in una lontana giovinezza aveva vissuto. Entrato in casa, chiamò la moglie che stava in camera da letto e subito la raggiunse. Il momento necessitava dei tempi e riti di una liturgia. Prese il tagliacarte che stava sul mobile e aprì la busta.
Seguì con gli occhi le prime righe, poi ritornò dall’inizio e ad alta voce:
“Con la presente siamo a comunicare con grande gioia che il romanzo Non ti avrà mai il tempo, selezionato tra le tre opere finaliste del XVII concorso La Penna d’Oro, è stato riconosciuto quale opera meritoria di pubblicazione. La Signoria Vostra è invitata a partecipare a un incontro con la casa editrice “Il Calamaio Veneziano” per la stipula del contratto”.
Agnese si avvicinò a lui, entrambi seduti sul letto si guardarono in silenzio. Il signor Scarpa abbracciò Agnese ed esplose in un pianto di gioia.
           
Passarono alcune settimane, il signor Scarpa si recò fuori della scuola ad aspettare Cesco. I due non si erano più visti dal giorno in cui il signor Scarpa aveva fatto l’ultimo acquisto al mercato, occasione in cui aveva restituito il documento al ragazzo. Il signor Scarpa non aveva ancora tutto chiaro. Non riusciva a capire come mai Cesco non fosse salito sul palco quella sera. Egli era ancora all’oscuro della mancata spedizione della copia del documento di Cesco da parte di Carlo Venier. Il ragazzo si era deciso a riprendere gli studi e a portare a termine il suo percorso. La vicinanza e il sostegno di Genni furono determinanti per un suo profondo cambiamento, il cui segno fu il rifiuto di voler trarre beneficio da una situazione ingannevole. Cesco, alla vista del signor Scarpa, non ebbe nessuna reazione. Ritenevano entrambi che ci dovesse essere un chiarimento. Il signor Scarpa si affiancò al ragazzo e gli porse una copia del volume edito. I due rimasero per un po’ in silenzio, poi il signor Scarpa parlò per primo, scusandosi per le accuse e per averlo coinvolto. Cesco scrollò le spalle. La conversazione si fece più animata e dopo qualche minuto la confidenza prese il sopravvento. Cesco confidò cosa lo aveva trattenuto dal portare a compimento il suo piano. In un primo momento, non aveva dato peso al fatto che il signor Scarpa aveva inviato l’opera con i suoi dati personali. Ripensando a come egli avesse potuto procurarseli, aveva controllato di avere con sé il documento. Era stato allora che, cercando la carta d’identità nel portafogli, aveva capito dello scambio avvenuto, riconducendolo all’episodio accaduto in municipio. In quel momento Cesco aveva realizzato pienamente le intenzioni del signor Scarpa. Se in un primo periodo aveva maturato l’ipotesi di trarre il massimo beneficio dalla situazione creatasi, col passare dei giorni aveva rinunciato all’idea di fingersi l’autore dell’opera per non ingannare Genni, l’unica persona che aveva dimostrato fiducia e aveva reso possibile il suo cambiamento. Inoltre, cresceva in lui il desiderio di volere per sé una vita autentica e di riprenderla in mano portando a compimento i suoi studi. Così aveva deciso di inviare la copia del manoscritto in suo possesso, compilando la scheda di adesione con i dati del vero autore. Non gli restava che allegare la copia dell’unico documento che aveva, quello del signor Scarpa, e inviare il tutto. Cesco non poteva sapere che la prima copia inviata da Carlo Venier sarebbe arrivata senza scheda di adesione e senza documento. Il secondo invio dell’opera aveva reso così possibile la regolare ammissione al concorso del signor Scarpa.
L’indomani il signor Scarpa, rincasando dal suo negozio di antiquariato, salutò il custode che ritto in piedi nella guardiola, osservando attorno distrattamente, rispose:
“Buongiorno signor Scarpa. Sono passato alla posta per ritirare i cataloghi del suo negozio. In consegna c’era pure la lettera che avevo inviato col pacco alcune settimane fa, ma non capisco come mai non sia stata inviata insieme”.
Il signor Scarpa guardò il custode. I due si scrutarono. Carlo Venier distoglieva gli occhi da sopra gli occhiali e distendeva la sua fronte corrugata. Entrambi si mossero l’uno verso l’altro. Il signor Scarpa, con un sorriso accennato, allungò il braccio verso Carlo Venier e gli porse il volume del suo romanzo. Il custode, ringraziando, gli diede  la busta un po’ sgualcita e accuratamente risigillata. I due si scambiarono nuovamente uno sguardo e si congedarono.
Il signor Scarpa salì le scale ed entrò in casa.  Ad  attenderlo c’era Agnese, la tavola era apparecchiata. Tolse il suo orologio e lo ripose nel cassetto assieme al portafogli. Si recò al bagno per lavarsi le mani, prese il vaso vuoto all’ingresso e mise dell’acqua prelevandola dal rubinetto della cucina. Messi all’interno un paio di fiori acquistati al mercato,  pose il vaso a tavola. Il signor Scarpa e Agnese si misero a pranzare, incrociando gli sguardi tra il giallo dei girasoli.




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