Carla Barison
AUTORI 2024
Carla Barison
Laurea magistrale in Scienze Politiche Università di Padova.
Master Università La Sapienza di Roma.
Appassionata di letteratura e scrittura affronta, nei suoi
racconti e nelle sue poesie, tematiche attuali e sociali, quali la violenza
sulle donne e la solitudine dell’essere umano nella nostra società.
Finalista in numerosi concorsi letterari, con i suoi testi, cerca
di dare quel coraggio e quella forza a tutte le persone che continuano a
lottare, infondendo loro la bellezza e l’unicità della propria vita.
“Orti dei Dogi”
Narrativa
LA FORZA DI GIULIA
Aspettavo quel fatidico giorno da oltre tre anni.
Ogni mattina avevo il cuore in gola, speravo che Dario, mio marito, si dimenticasse di chiudermi in casa. Ero diventata una sorta di oggetto, senza cuore, senza cervello, dovevo esaudire esclusivamente le sue volontà. Non mi era concesso di parlare, di lamentarmi, di esprimere un desiderio. Non potevo!
Fu il giorno stesso del matrimonio che mi disse: “Ora ce l’ho fatta, tu sei mia, sei la mia schiava, non hai nessun diritto, devi fare solo quello che ti dico. Io ti amo Giulia e lo faccio per il tuo bene. Se ti comporterai nel migliore dei modi, avrai la giusta ricompensa, altrimenti, ti dovrò castigare. La ricompensa, ovviamente, la deciderò io, come pure il castigo”.
Quelle parole mi fecero rabbrividire, non riuscivo a capire il perché, ma nel giro di pochi giorni, capii tutto, fin troppo bene.
Vivevo in un bunker, non era una casa; Dario aveva fatto installare delle inferriate su tutte le finestre, mi aveva fatto intendere “per essere più protetti e tranquilli da intrusioni da parte di sconosciuti”, ed invece avevano un unico scopo, quello di non darmi la possibilità di fuggire dalle finestre.
Mi aveva sequestrato il cellulare, il suo computer portatile lo portava sempre con sé, non avevo modo di comunicare con l’esterno e, oltre ciò, aveva fatto installare in tutta la casa, un sistema di telecamere, così poteva controllare ogni mio movimento direttamente dal suo cellulare.
C’era solo un intervallo in cui lo spegneva tutte le mattine, dalle otto alle nove, quando andava a prendere sua madre per portarla a messa, per commemorare il padre defunto.
Avevo solo un’ora di tempo per muovermi in casa, senza la paura di essere osservata, in quell’ora di vita correvo, saltavo, urlavo, piangevo. In quell’ora avevo preparato una piccola valigia, con la speranza di poter scappare, conteneva un kit di sopravvivenza. A ogni cambio di stagione, oltre agli armadi, sostituivo anche gli abiti nella valigetta, e così passavano i giorni e i mesi.
Il tempo lo trascorrevo a pulire, pulivo sul pulito, era il mio compito, deciso da Dario. Era un maniaco dell’igiene e, quando la sera tornava a casa, controllava anche gli angoli più nascosti. Se c’era qualche traccia di polvere erano insulti, calci e botte.
Per sopravvivere dovevo accondiscendere in tutto, lui voleva che facessi “la buona e brava bambina”.
C’era una sola persona che poteva entrare nel bunker, era Giovanni, un signore di mezza età che doveva gestire il parco, poteva entrare solo in giardino. Ogni mattina arrivava alle 7.45, alzava lo sguardo per vedere se m’intravvedeva e, quando i suoi occhi incrociavano i miei, chinava la testa per un saluto sfuggente. Giovanni aveva capito tutto.
Un giovedì mattina d’inizio estate Dario, prima di uscire, mi disse: “Cara Giulia, è un mese che ti sto osservando molto attentamente e vedo che stai diventando davvero brava; per ricompensa, questa sera andremo a cena fuori. Per le 20 voglio trovarti pronta, vestiti bene e truccati, questa volta te lo concedo, mettiti anche il rossetto, che ti piace tanto”. Non mi sembrava vero, ero felice, finalmente dopo tanti anni sarei uscita, avrei visto gente, avrei visto il mondo.
Alle 20 ero pronta, avevo indossato un vestitino rosa pallido, avevo raccolto i capelli in uno chignon e una collana di perle mi accarezzava il collo. Avevo truccato leggermente gli occhi e messo il mio adorato rossetto rosa. Ai piedi avevo indossato un paio di sandali con i brillantini.
Rimasi seduta in salotto ad aspettarlo.
Sentii in lontananza il rumore della sua auto attraversare il viale, ero agitata ed emozionata, ero felice di uscire, mi sembrava un sogno. Sentii chiudere l’auto e poco dopo aprire il portone blindato dell’ingresso. Con la sua solita voce arrogante disse: “Giulia vieni qua, porta questi pacchi in cucina! Ora, da brava, prepara la tavola in giardino, ho comprato dell’ottimo pesce al forno, c’è anche il tuo dolce preferito!”. Capii immediatamente che il mio sogno era svanito!
Mi guardava con un sorriso sarcastico e disse: “Ma cosa credevi che ti portassi in ristorante? Ti ho solo detto che cenavamo fuori, e così è, mangeremo sì fuori, ma in giardino”.
Avrei voluto buttare tutto all’aria e dirgli che era un pazzo. Trattenni le lacrime, non volevo dargli quella soddisfazione che tanto desiderava. Con la massima calma, digrignando i denti tanto da farmi male, preparai la tavola in giardino.
Cenammo in silenzio, continuava a guardarmi senza dire nulla. Dopo cena mi disse: “Ci sei cascata. Povera stupida, stai diventando sempre più scema, un po’ alla volta ti farò impazzire!”.
Dario mi odiava, ma c’era un motivo, odiava tutte le donne, tranne ovviamente la sua cara mammina. Ero l’unica persona che sapeva il suo segreto e, proprio per questo motivo, mi aveva rinchiusa in casa, per paura che parlassi, che raccontassi quello che succedeva in quella maledetta villa blindata.
Dario era un uomo molto ricco e potente, aveva una grossa azienda con più di mille dipendenti. Tutti i suoi collaboratori lo odiavano e lui, ne era fiero.
Quando tornava a casa dal lavoro, c’era la sua trasformazione. Andava in bagno, si faceva la doccia e iniziava il suo rituale. Apriva l’armadio e, secondo l’umore che aveva, indossava un abito a fiori piuttosto che una gonna con camicetta, metteva una parrucca bionda e si truccava pesantemente il viso e gli occhi. Con la massima spudoratezza si sedeva a tavola e iniziava a cenare.
Mi faceva ribrezzo e, nello stesso tempo, paura. Ogni sera desideravo che quell’ora a tavola terminasse il prima possibile, non riuscivo più ad accettare e subire tutto ciò. Finito il teatrino, sistemavo la cucina e scappavo nella mia camera, sperando di dormire.
Una mattina la sua sveglia suonò prima del solito, erano le sei. Entrò nella mia camera e disse “Giulia preparami la colazione, oggi c’è la ricorrenza della morte di mio papà, voglio portare la mia mamma prima in cimitero e poi a messa”.
In silenzio mi diressi di corsa in cucina, gli preparai il solito tè al latte, due fette biscottate con la marmellata e una macedonia con lo yogurt.
Quella mattina Dario aveva un diavolo per capello, non riusciva a decidere che abito indossare, urlava, sbatteva le porte. Avevo paura, tremavo.
Comparve in cucina, prese la coppetta di macedonia e la lanciò contro il muro, poi sempre più in preda alla follia, prese la tazza di tè e me la rovesciò addosso. Il mio cuore batteva forte in gola, volevo piangere, aspettavo a occhi chiusi che mi arrivasse addosso qualcos’altro. Continuava a urlare e imprecare perché non trovava le chiavi dell’auto; si stava facendo tardi, sua madre iniziò a chiamarlo al cellulare, rispose urlando anche a lei che era in ritardo, ma che se sarebbe partito subito.
Trovò le chiavi, erano nella tasca della giacca che aveva indossato il giorno precedente e scappò di corsa.
Dalla foga e dalla rabbia si era dimenticato di chiudermi dentro casa. Guardai dalla finestra, era partito con l’auto. Mi fiondai di corsa in camera, anche se fradicia di tè e latte, indossai la prima tuta che avevo sottomano e le scarpe da ginnastica, presi la mia piccola valigetta e una cornice che avevo messo in salotto, dove ci ritraeva nel giorno del matrimonio.
Ero agitata, dovevo scappare, era il mio momento. Giovanni, vedendomi, mi disse: “Signora Giulia, faccia presto, vada via da questa casa maledetta prima, però, le devo dare una cosa”. Aprì la cassetta degli attrezzi e mi diede un sacchettino di stoffa blu dicendomi: “E’ da mesi che metto via dei soldi per lei, li tenga, glieli do con tutto il mio affetto, vedrà che le serviranno”.
Mi scesero le lacrime dall’emozione, lo abbracciai ringraziandolo e scappai di corsa.
Correvo come una matta, avevo paura che Dario ritornasse a casa, che si ricordasse di non avermi chiusa dentro. Mi diressi subito al Commissariato di Polizia, ero ansimante, non avevo più fiato e neppure la forza di stare in piedi, a un certo punto le gambe non mi reggevano più e svenni.
Dopo mezz’ora ripresi conoscenza, c’erano attorno a me un medico e un infermiere, mi dissero di stare tranquilla, che era stato solo un episodio dovuto all’ansia. Il Comandante della Polizia mi diede un bicchiere d’acqua che presi, tremante, con tutte e due le mani. Gli chiesi se poteva sporgermi la mia valigetta. La aprii e diedi a lui la cornicetta con la foto e gli dissi “Non serve che vi parli, questa cornice è digitale ed ha registrato tutto quello che ho subito, qui c’è la mia vita ed anche il mio riscatto”.
Ora lo avevo in pugno, avevo le prove e lo denunciai. La paura che lo scandalo apparisse sui quotidiani locali, era più forte della rabbia e dell’odio che Dario aveva nei miei confronti, tanto che lo rese inerme, per sempre.
Sono passati ormai diversi anni, abito in un’altra città, ho finalmente conquistato la libertà ma, soprattutto, la volontà di aiutare tutte quelle donne che vivono nel terrore e che non hanno la forza di ribellarsi.
A queste donne dedico la mia vita.