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Gabriele Astolfi
AUTORI 2024
Gabriele Astolfi

Sono nato il 22/2/1955 a Bologna.
Ho pubblicato “Una giornata normale” (Giraldi Editore, 2005), “Due zampe di troppo” (Giraldi, 2007), “…andremo ancora a giocare” (Giraldi, 2009), “La pratica” (Giraldi, 2011), “I cani non fanno colazione” (Este-Edition, 2011), “Tumuori” (Puntoacapo Editrice, 2013), “ERVIRNA Una storia d’amore” (Italic Pequod Editore, 2013), “A pungere sono le femmine” (MJM Editore, 2014), “Storie di umani e consimili” (Montag Edizioni 2014), “Poker di donne” (SIDEBOOK Edizioni, 2015) e “L’inumano difettoso” (Caosfera, 2016).
Sono presente in diverse antologie e ha vinto diversi premi in concorsi letterari, consultabili sul sito  www.gabrieleastolfi.com.   
“Orti dei Dogi”
Narrativa
LA MADRE NERA








Giorgio non ricordava granché di sua madre quando era piccolo. Solo che c’era un’altra donna che si prendeva cura di lui con l’affetto di una vera madre. Era la sua tata; per lui era la mamma. Finché non aveva imparato che non lo era, e sua madre era la donna che veniva a trovarlo il tempo di chiedere come stava e guardarlo come una bizzarra entità che cresceva a vista d’occhio.
Viveva col nonno materno, Vittorio, e la tata che, in principio, c’era sempre.
I primi anni erano stati abbastanza spensierati, almeno fin quasi al termine delle elementari, con l’unico neo della madre, che veniva a trovarlo con la frequenza di una luna piena, oscurando le stelle che c’erano ogni giorno al suo fianco.
Abitavano in campagna, e tutte le mattine uscivano alla scoperta della natura che li circondava. Se pioveva, restavano a casa, e il nonno gli raccontava storie della sua infanzia e della sua terra o di sua moglie che era andata via troppo presto e sarebbe impazzita per un nipotino, o gli leggeva delle favole o le inventava lì per lì. Ma, appena spioveva, lo prendeva per mano per mostrargli il mondo da scoprire e vedere con lui non solo le apparenze ma i segreti nascosti.
“Oggi è migliore di ieri” ripeteva sempre “e domani lo sarà di oggi. I giorni più belli devono ancora venire.”
La sera di nuovo favole, quelle che si leggono o si raccontano ai bambini, nelle quali Giorgio trovava normale che un animale lo ascoltasse e gli dicesse di essere magico o stregato. Provava una sensazione strana di fronte a quelle storie; gli piacevano ma, al tempo stesso, gli facevano paura. E più aveva paura, più ne era attratto.
Il nonno gli diceva che le favole sono il subconscio della gente, quello che non sa di essere o ha dimenticato. Talvolta gli si inumidivano gli occhi ma non piangeva. Giorgio all’inizio non sapeva perché, poi aveva capito che era il pensiero della nonna a renderlo triste, ma lo scacciava, c’era suo nipote che aveva bisogno di lui. Un bambino che lo guardava e lo ascoltava attentissimo, il viso quasi levato al cielo. E nel guardarlo pronunciava quel suono che pareva un balbettio, nonno, che sapeva di miracolo.
Vecchi e bambini sono un’unione di opposti, una contrapposizione ma anche un insieme naturale; hanno bisogno l’uno dell’altro.  
La sera dormivano nella stessa camera, benché a volte faticasse ad addormentarsi perché il compagno di stanza russava e spesso tossiva. Quella tosse tenace e stizzosa dei fumatori incalliti che avevano smesso, ma ormai i polmoni erano da buttare.
Quando gli chiedeva della madre, il nonno si avvicinava col viso rugoso e la raucedine cronica e gli rispondeva che era molto occupata - era responsabile di un’impresa di trasporti con più sedi e molti dipendenti -, non di rado era via per lavoro, talora pure all’estero, e anche quando c’era, l’azienda le assorbiva tutto il tempo. Ma non per questo doveva pensare che non lo amasse; lo amava molto invece, solo che gli impegni erano tali e tanti che non poteva seguirlo. Doveva soltanto aver pazienza, aspettare che si liberasse un po’ di quel fardello pesante.
I giorni scorrevano tutti uguali, anche la domenica; la madre lavorava pure il dì di festa. O così gli raccontava. E in parte la detestava perché lo trascurava; anzi, lo ignorava. Ma in parte era preoccupato, perché temeva che tutta questa fatica avrebbe potuto ucciderla. Il nonno gli diceva che sgobbava per farlo stare bene, garantirgli un futuro sereno ma, se fosse morta, a che gli sarebbe servito il denaro. Una madre è più importante dei soldi. Perciò, in entrambi i casi, non si dava pace.
Le rare volte in cui si faceva vedere era peggio di quando non c’era; appena stava per andarsene, Giorgio le si attaccava alla cintola e singhiozzava e gridava di non lasciarlo, ma lei gli dava il bacio sulla fronte che avrebbe dato al figlio di uno sconosciuto e lo staccava senza dirgli se e quando sarebbe tornata.
Il nonno lo confortava, gli diceva che ognuno ha il suo modo di amare, e lei lo amava alla sua maniera. Era sua madre, come non poteva. Poi uscivano insieme e il dolore veniva sepolto in un angolo del cuore; il nonno era bravo a distrarlo dal mondo degli adulti e richiamarlo in quello dei bambini. E quando la sofferenza era così opprimente che non riusciva a scollarsela di dosso, gli suggeriva di prenderla fra le mani e comprimerla fino a farne una palla e calciarla lontano, oltre il cielo, le nuvole. Oppure, per non soffrire, gli consigliava di chiudere gli occhi e immaginare che lo stringesse al seno. Il buio è il regno delle cose che non sono ma possono essere.
Una notte il nonno aveva tossito più del solito finché, emesso un gemito prolungato, aveva smesso. Era precipitato in un silenzio che non faceva parte del suo dormire. Si era alzato e l’aveva scosso, ma non si muoveva, non tossiva né russava più; aveva telefonato a un numero che gli era stato detto di chiamare in caso di bisogno. Quando erano arrivati avevano cercato di rianimarlo ma senza riuscirci, e lo avevano portato via dentro un sacco chiuso.
Giorgio rifiutava di accettare che l’unico membro della famiglia non ci fosse più. L’aveva vista tante volte la morte in campagna, uccellini, topi, bisce, rane, ma gliel’aveva sempre spiegata lui. Chi gliel’avrebbe spiegata la morte del nonno? Ma era morto davvero? O era soltanto partito alla scoperta dell’altro mondo per tornare a raccontarglielo?
La notte sognava che veniva a svegliarlo per uscire insieme. Di giorno però si chiedeva dove fosse andato. Il nonno era credente e gli aveva parlato di Dio, che era buono e amava i suoi figli, i quali avrebbero dovuto amarlo a loro volta, del paradiso e dell’inferno in cui sarebbero finiti i buoni e i cattivi. Anche se i concetti di buono e cattivo non avevano contorni così netti, talora sconfinavano l’uno nell’altro e non era tanto semplice connotarli.   
Aveva partecipato al funerale con solo qualche trattenuto singhiozzo, come un piccolo uomo, era quello che gli diceva sempre il nonno, e come tale doveva comportarsi.
La madre l’aveva preso in casa con sé, ma aveva messo in chiaro che sarebbe stato per poco, non poteva prendersene cura, e l’avrebbe mandato in collegio dai francescani. Lui aveva pianto e strepitato; non c’era più nonno Vittorio a guardarlo e, seppure ci fosse stato, l’avrebbe capito. Anche i piccoli uomini piangono.
Ma non c’era stato verso; il collegio non era un’opzione ma un obbligo. Sarebbe stato un privilegiato, la madre poteva permettersi qualsiasi retta. Avrebbe avuto un’intera stanza a sua disposizione senza doversi mescolare con gli altri nelle camerate comuni e, oltre alle lezioni collettive, ci sarebbe stato un insegnante che l’avrebbe seguito passo passo negli studi.
Era nato ricco. Ma per un bambino questa parola non ha un gran significato. Quando si ha la pancia piena ogni volta che se ne ha voglia, il resto non conta. Non importa quanto è grande la casa o sono eleganti i vestiti, basta che protegga dalla pioggia e tengano caldo. Contano i genitori.    
Giorgio aveva continuato a piangere, a ripetere che se l’avesse mandato via si sarebbe rifiutato di crescere e diventare come tutti gli altri, sarebbe stato un eterno bambino, come Peter Pan, e la colpa sarebbe stata sua, ma lei era stata irremovibile. Si era solo impegnata, per fargli ingoiare il rospo, a venire a trovarlo la domenica.
Alla fine si era arreso. A scuola aveva visto anche i padri accompagnare i bambini, oltre alle madri - soltanto di rado i nonni, e molto più giovani del suo, ma Giorgio, ormai, il nonno non l’aveva più -. Ma a chi manca un genitore, si fa bastare quello che ha. Sua madre era tutto ciò che aveva e desiderava accanto. In futuro non sapeva, ma allora sì. L’avrebbe rivista, si sarebbero parlati e, chissà, magari avrebbe cambiato idea, si sarebbe convinta a riprenderlo con sé.
Solo che, la prima domenica, non si era fatta vedere.
Era stato il giorno più brutto della sua vita. L’aveva sospirata dal primo mattino, mentre guardava uscire a uno a uno gli altri bambini. A pranzo non aveva toccato cibo, sempre confidando che potesse ancora arrivare e mangiare con lui, né aveva fatto merenda il pomeriggio, avrebbe potuto comparire in qualsiasi momento. Sua madre non aveva il tempo che avevano gli altri genitori, un ritardo era comprensibile. Aveva sperato fino a quando, un po’ alla volta, erano rientrati quelli che erano usciti, fino alla chiusura del collegio, allo scrocco del portone.
Solo a ingresso serrato, come per liberarsi di un peso che non riusciva più sostenere, si era sciolto in lacrime battendo i pugni contro tutto quello che trovava, tanto da farsi male alle mani.
Frate Gabriele, il suo insegnante personale, che era venuto a chiamarlo per la cena, l’aveva trovato così, gli occhi consumati dal pianto e il respiro affannoso. Gli aveva allargato le braccia per offrire un riparo alla sua pena, e Giorgio si era buttato come su un salvagente per non affogare.
“Devi andare a mangiare” gli aveva detto.
“Non ho fame.”
“Ma non hai nemmeno pranzato. Vuoi che ti prenda qualcosa?” Giorgio aveva annuito.
Il religioso gli aveva portato del polpettone con patate e melanzane, e gli aveva chiesto se voleva che parlasse con sua madre e, di nuovo, Giorgio aveva annuito. Gli aveva chiesto ancora se aveva bisogno di compagnia, e stavolta aveva risposto di no. Era andato a letto e, smaltita la tensione, si era addormentato di botto.
Il giorno dopo era trascorso fra i carboni ardenti, e la sera, salito in camera, l’aveva raggiunto frate Gabriele, gli aveva preso le piccole mani nelle sue e con un sorriso forzato e un tono esitante gli aveva detto che doveva riferirgli del colloquio con la madre. L’espressione imbarazzata e quella sorta di cerimoniale lo avevano agitato più di quello che si preparava ad ascoltare. L’uomo di Dio se n’era accorto e gli aveva detto di stare tranquillo. La raccomandazione che si fa a qualcuno per prepararlo al peggio.
“Tua madre è una donna molto impegnata” aveva cominciato “senza mai un attimo di riposo, e ha la responsabilità di tutte le persone che lavorano con lei, e inoltre” si era fermato, come per prendere tempo o cercare le parole adatte “non si sente di fare la madre, non ci è portata. Ci ha provato ma non ce l’ha fatta. Si prenderà cura di te da lontano; ti seguirà, ti pagherà gli studi, ti assicurerà le migliori condizioni di vita, ma dalle retrovie.”
“Lo sapevo che non mi voleva.”
“Devi cercare di capirla, sei grande ormai. Non tutte le donne sono uguali. Non tutte le donne nascono madri.”
A quelle parole era scoppiato a piangere e il suo angelo custode lo aveva preso fra le ali.
“Tua madre non ti ha abbandonato, ti ha affidato a noi, e noi ti vogliamo bene, e crescerai col nostro amore.”
Una volta quietato, frate Gabriele gli aveva chiesto se se la sentiva di stare da solo; gli aveva risposto di sì, anche se il sonno era arrivato dopo un tormento che lo aveva sfinito.
La mattina seguente, nell’intervallo fra una lezione a l’altra, Giorgio era sgattaiolato in segreteria dove c’era il telefono e, approfittando che non c’era nessuno, aveva scorso l’agenda sul tavolo e, trovato il numero che cercava, l’aveva chiamato.
“Mamma” aveva fatto a un’incredula voce di donna “se non posso stare con te perché devi lavorare, dammi il telefono di papà; vado a stare da lui.”
La voce era scoppiata in una sonora risata.
“Ma Giorgio, per tuo padre sei solo un buco nel preservativo!”
Aveva sbarrato gli occhi e buttato giù la cornetta. Non aveva capito la risposta di sua madre; non sapeva che fosse quella cosa che aveva un buco e in che modo c’entrasse con lui. Aveva capito soltanto che doveva essere qualcosa di brutto. Di molto brutto. La sera frate Gabriele era salito di nuovo in camera sua.
“Tua mamma mi ha detto che l’hai cercata.”
“Cos’è un buco nel preservativo?” gli aveva domandato, come se l’avergli detto che aveva chiamato la madre lo autorizzasse a chiedergli il significato delle sue parole.
Il religioso aveva sospirato.
“È una specie di incidente.”
“Non mi vogliono, vero?”
“Tua madre non è pronta. Non lo era prima e non lo è adesso.”
“E mio padre?”
“Nemmeno. Ma noi ti vogliamo. E ti ameremo anche per loro.”
Aveva sentito gli occhi gonfiarsi di lacrime, e daccapo gli si era buttato fra le braccia. In quell’istante si era reso conto che la sua nuova madre e il suo nuovo padre era il collegio. In particolar modo l’uomo che lo stringeva in grembo, che gli avrebbe dato l’affetto che cercava e procacciato l’amore verso quel Dio che gli aveva insegnato a pregare il nonno. Un Dio che non appariva più così buono.
Giorgio, il favorito della scuola, l’unico che aveva una stanza tutta per sé, quello che gli altri invidiavano per i suoi privilegi ma la domenica uscivano per trascorrerla in famiglia e lui stava dentro. Mentre avrebbe fatto volentieri a cambio.
Le domeniche successive non le aveva più passate alla finestra in attesa della madre. Non c’era più nessuno da aspettare. Era rimasto solo. Certo sapere come stavano le cose gli procurava un dolore che lo scavava dentro, ma mai quanto un’illusione irrealizzabile. Meglio una triste realtà di un sogno felice che non regge alla luce del mattino. Da quel giorno la malinconia era diventata la sua nuova compagna che, però, non gli impediva di apprezzare in qualche misura la vita, sia in collegio, dove amava studiare, che fuori. Il dì di festa, quando l’istituto si svuotava, usciva per lunghe passeggiate nella campagna vicina con frate Gabriele e, nelle belle giornate, si fermavano per un picnic nel verde.
Il suo insegnante aveva preso il posto del nonno, che era sicuro non lo perdesse di vista un istante e lo proteggesse. I morti non sono andati via, sono solo su un sentiero vicino, dietro un albero o una nuvola.
Nelle escursioni all’aperto, sollevando il capo o guardandosi intorno, aveva l’impressione di scorgerlo nell’atto di sorridergli. E gli faceva vedere la palla fatta della sua sofferenza che aveva calciato oltre il cielo; la teneva stretta al petto, e non avrebbe permesso che tornasse indietro per rendergli più impervio il cammino. E non doveva nemmeno chiudere gli occhi per immaginare che la madre lo abbracciasse; non aveva più bisogno che il buio gli mostrasse ciò che non era ma poteva essere.
A volte la notte gli capitava di sognarla che lo cullava e gli cantava una ninnananna per farlo addormentare, ma senza guardarlo; appena gli girava le pupille addosso, cacciava un grido e lo scagliava per terra. Allora si trasformava in un altro bambino o in un piccolo animale domestico; lei lo raccoglieva e ricominciava a dondolarlo e modulargli una canzonetta, ma quando tornava “lui”, lo gettava di nuovo sul pavimento. Solo di rado sognava che lo accudiva con amore; in tal caso, quando si svegliava, lo strazio era anche maggiore.  
Frate Gabriele, forse per scherzo forse no, gli aveva detto che poteva andargli peggio. Poteva capitargli una madre che, oltre a non amarlo e disinteressarsi di lui, non aveva un soldo. E se avesse avuto la sindrome di Medea? Chi è Medea, gli aveva chiesto Giorgio. La madre snaturata che uccide i figli per punire il marito. Vuoi dire che ho avuto fortuna, gli aveva chiesto ancora. Questo no, ma nemmeno sfortuna. La figura materna può essere l’origine delle virtù ma anche dei mali del mondo, colei che, ne sia cosciente o meno, rovina i suoi figli. Se la mancanza dell’amore materno è un problema, lo è pure quello opposto, meno conosciuto ma assai praticato, dell’eccesso di amore materno, di figli troppo amati che, sebbene possa apparire paradossale, hanno un’esistenza più difficile di quelli che non lo sono per nulla.
Col tempo aveva scoperto che le parole della sua guida spirituale avevano il loro fondamento. E aveva capito pure a cosa alludeva la genitrice col buco nel preservativo, che frate Gabriele aveva cercato di spiegargli con la parola “incidente”. In realtà era una tragedia, di quelle che dirottano la vita dal suo percorso abituale. Anche se la vita di sua madre non era cambiata. Aveva dovuto investire del denaro perché non accadesse, ma per lei il denaro non era un problema.
Il destino però gli stava preparando una piccola, enorme sorpresa.

***

Una domenica in cui era uscito per un picnic col suo insegnante, mentre mangiavano era andato loro incontro un cagnolino dall’aspetto bizzarro. Era un piccolo meticcio dal pelo corto del colore del saio dell’uomo e il muso un po’ imbianchito, le orecchie da pipistrello e le zampe di una lunghezza spropositata rispetto al corpo. Sembrava stare a un cane “normale” come il vecchio biciclo, con la sua ruota anteriore altissima, stava alla bicicletta. I meticci a volte prendono il meglio delle razze da cui provengono, altre il peggio. Ma pure il peggio, miscelato in quella sorta di quadro naif, riusciva a essere di una tale simpatia da risultare bello comunque.
Aveva un collare e quindi doveva essere di qualcuno, ma senza una medaglietta con indicato un nome o un telefono col quale rintracciarlo. Nei paraggi non c’era nessuno e, seppure ci fosse stato, il cagnetto doveva trovare la focaccia col prosciutto dei due molto più interessante. E, dopo il pane, il companatico di carezze sul corpo e il muso a cui rispondeva con la lingua sottile e appiccicosa che dava il solletico.
Era molto magro ma non patito, e pareva impolverato, a dargli piccole pacche sul dorso si levava una lieve nuvola di polvere. Come se fosse stato alla catena in uno spazio aperto o si fosse rotolato su un terreno secco. Forse era scappato da chi lo teneva ai ceppi, aveva sofferto e lottato per sopravvivere.
Quando, a metà pomeriggio, si era trattato di rientrare, il meticcetto, lungi dal tornare da dove era venuto, era andato dietro a loro e, per quanto cacciato, seppure con le buone, da frate Gabriele, non demordeva dal seguirli. O meglio, dal seguire Giorgio, dal quale appariva attratto come un magnete da una calamita, e il bambino da quegli occhi sconsolati di fratello tradito.
Arrivati in collegio, Giorgio aveva puntato lo sguardo sul cane e sul suo insegnante. Lo posso prendere con me? gli chiedeva in silenzio. Frate Gabriele aveva sospirato e, controvoglia, aveva approvato.
Lo aveva chiamato Pluto, come il cane di Topolino, per la sua forma curiosa e sgraziata. E Pluto aveva regalato gioia ai suoi giorni, e ne era diventato compagno di vita e di giochi, la coscienza che gli parlava col corpo e l’anima, e gli mostrava la via dell’amore disinteressato, gratuito. E lui parlava al cane in una maniera che non si sarebbe mai aspettato e lo meravigliava ogni volta. Si confidavano pensieri e desideri come vecchi amici.
Uscivano sempre insieme la domenica, ed era capitato che, vicino al fiume, mentre Pluto annusava una distesa di piccole piante, avesse scorto con frate Gabriele alcuni di quelli che suo nonno chiamava i fiori della primavera
“Guarda” ricordava che diceva al suo unico compagno d’infanzia “i fiorellini che piacciono a noi.”
“E perché ti piacciono tanto?” gli chiedeva il nonno.
“Perché sono di un azzurro bellissimo.”
“Sai come si chiamano? Occhi della Madonna, il colore richiama proprio un occhio celeste. Il vero nome è Veronica Persica, una pianta che c’è tutto l’anno, ma risalta in modo particolare verso la fine dell’inverno perché annuncia la primavera con tanti fiorellini azzurri delicatissimi, appena vengono sfiorati, la corolla si stacca e cade.”
Tornava col quattrozampe e frate Gabriele al calar del sole, in una luce fioca in cui talvolta si perdeva come dentro un tunnel. Aveva continuato la scuola, oltre che col suo precettore e i suoi abbracci, anche col suo maestro con la coda, che gli insegnava come nessuno la fiducia verso il mondo e i suoi abitanti. Una fiducia e un amore diversi da quelli degli uomini. Un amore selvatico e muto ma profondo e quasi divino.
Pluto era rimasto con lui sei anni e mezzo - doveva averne otto o nove quando l’aveva preso, gli aveva detto il veterinario al quale l’aveva fatto visitare -, finché non gli era venuto un tumore alla milza che non poteva essere operato. E mentre Giorgio cercava di trovare il coraggio di farlo sopprimere, il cagnolino, una sera, aveva chiuso gli occhi e non li aveva più riaperti.
La mattina che Pluto non era andato a svegliarlo come faceva di solito, aveva capito. La morte del nonno era ancora viva nel ricordo. Era andato da lui e l’aveva trovato freddo. Lo aveva accarezzato a lungo dietro le orecchie e sul dorso, come se le carezze potessero risvegliarlo da quel freddo innaturale o facilitargli il viaggio nel nuovo mondo. Carezze che gli sembrava di non avergli mai dato prima, pur sapendo che non era vero, si era consumato le mani su quel pelo un po’ ispido, ma l’avrebbe accarezzato fino alla fine dei tempi.
In quel momento, per un motivo che ignorava, aveva saputo che un giorno l’avrebbe rivisto, era stato una parte così stretta della sua vita che nessuna morte avrebbe potuto cancellare. Se c’era un paradiso, e lui credeva ci fosse, non poteva mancare di un’anima tanto simpatica e innocente e generosa. Anzi, ripensando alle lunghe passeggiate in campagna col nonno, non poteva mancare nemmeno degli uccelli, delle capre, delle mucche, delle lepri, dei gatti e via dicendo. Un paradiso senza animali sarebbe stato un luogo molto triste.
Quando, ormai più che adolescente, avevano cominciato a manifestarsi più netti i sintomi della retinite pigmentosa e gli oculisti gli avevano detto che nel giro di pochi anni avrebbe perso la vista, Giorgio aveva preso l’ennesimo schiaffo della sorte non come il colpo di grazia ma come un’occasione. Un dono perfino.
Sarebbe diventato cieco o, nella migliore delle ipotesi, ipovedente, e avrebbe avuto bisogno di un cane che guidasse i suoi passi com’era stato con Pluto quando ci vedeva. Un cane che gli avrebbe fatto strada coi suoi occhi ma anche col suo cuore. Il buio non era più il regno delle cose che non sono ma possono essere, bensì la sua condizione normale.  
Sua madre sarebbe stata rimpiazzata da un genitore a quattro zampe, che l’avrebbe amato come una mamma dovrebbe, ma non sempre sa.


 UN PEZZO DEL GIORNALE
                                                                          


1
La sorpresa

“Marco, dal capo” mi dice secca Stella.
Alzo gli occhi dalla scrivania e la metto a fuoco; sta schiaffeggiando con la lingua una gomma. Ne cambia diverse durante la giornata, per rinnovarne il sapore, e a ognuna riserva lo stesso trattamento. Le sevizie sono per lo più a cavo orale aperto e il contenuto in bella mostra, come uno straccetto chiaro in una lavatrice.
“Grazie” rispondo con un sorriso che mi replica, così da esibire la fase precisa di lavaggio del suo bolo. A prima vista, il risciacquo.
Stella è rassicurante nella sua intransigenza, i capelli bruni e ricci e le iridi marroni dietro una montatura pesante; ti promette che andrà tutto bene se farai quello che dice. Il corpo è quello di una donna non più giovanissima, magra e grosso modo attraente, e la bocca sempre in movimento fa pensare a strane cose.
“Finisco il pezzo e arrivo.”
“Subito” e, fatto un palloncino con la gomma, lo fa scoppiare.
Ho sempre odiato fin dalla scuola quelli che, intanto che parlano, gonfiano la cicca sulle labbra e la fanno esplodere con quel rumore fesso. Ma Stella e il chewing gum sono come siamesi separati alla nascita.
“Subito” ripeto, e la seguo nel suo ufficio.
E mentre attracca alla sua scrivania, proseguo e busso alla porta più importante del giornale.
“Eccomi.”
“Mettiti comodo, Cincotti.”
Mi siedo in punta di natiche. Con Pastore non sei mai “comodo”. Anzi, mi viene in mente il drago di Komodo, il mostruoso, letale rettile dell’isola indonesiana.
“Ho una sorpresa per te.”
Spalanco gli occhi più di quanto li abbia spalancati per farmeli operare col laser.
“Basta che non sia come quella che mi hai giocato l’ultima volta che l’hai detto.”
“Ancora quella vecchia storia. Acqua passata.”
“Le vecchie storie, per chi le ha vissute, non sono mai del tutto passate.”
“Eppure, da quando sei alla “nera”, sei diventato famoso.”
“Ero piuttosto conosciuto anche prima.”
“Te lo concedo, però eri troppo tranchant.”
“In tempi non sospetti avresti detto professionale.”
“Non se si vanno a sfruculiare certi personaggi.”
“Non pensavo che fare delle domande a qualcuno che dev’essere intervistato volesse dire sfruculiarlo.”
“Quello non era qualcuno, era Bistefani!”
“Hai ragione, avrei dovuto dirgli: quanto sei bello, quanto sei bravo. E poi guardalo oggi.”
Mi squadra come un padre fa col figlio che non ne combina una giusta.
“Ma perché devi sempre farmi perdere le staffe?”
“Dimmi della sorpresa.”
“Così mi piaci. Ti mando in vacanza.”
“Al mare, in montagna o al lago?” Il mio dirimpettaio scuote il capo con una smorfia “In una città d’arte?” Ora è l’indice della mano destra a dire di no.
“Una specie di vacanza, da passare all’Ambassador Resort.”
“Quello fuori città?” Pastore annuisce “Ha la piscina, mi sembra.”
“Lascia stare la piscina. Mai sentito parlare di Tan Show?”
“Che roba è?”
“La fiera del caro estinto.”
“Di che cosa?”
“La fiera internazionale dell’arte funeraria e cimiteriale.”
“Una mostra della morte in una società che fa di tutto per rimuoverne l’idea? Interessante.”
“Si tiene là questo fine settimana, da venerdì a domenica. Ti ho prenotato una stanza.”
“Questo vuol dire che la sera non posso nemmeno tornare a casa?”
“Ci sono iniziative anche a tarda ora.”
“Credevo che lo facessi per farmi usare la piscina dopo il lavoro, visto che hai parlato di vacanza.”
“Ho parlato di una specie di vacanza, furbacchione. E comunque la stanza non la paghi tu.”
“Ci mancherebbe altro.”
“Non è così scontato, sai, con l’aria che tira. Devi farmi avere come minimo due buoni articoli su questa rassegna per convincermi a non cambiare idea.”
“Cambiala e ti denuncio all’ordine dei giornalisti” dico alzandomi dalla sedia.
“Ma, perdìo, non si può neanche scherzare con te?!”
“Tu non scherzi, Pastore. Tu ci provi; è diverso” e faccio per uscire.
“Cristo, mi leggi nel pensiero?”
“È che ti conosco. E quando cominci a nominare il nome di Dio invano, perdi il controllo” e mi chiudo la porta alle spalle.
“Vaffanculo, Cincotti!”
Sento qualcosa che si infrange contro l’uscio. Dal rumore si direbbe un portapenne.
“Come fai ad andare sempre così d’accordo col capo?” mi fa Stella obliterando la solita cicca.
“Giuro che non lo so. Mi viene spontaneo.”
Sorride a tutta gomma.

2
Lilly e Teresa

La fiera del caro estinto. Non quella del canederlo o della rosa canina e della salama da sugo o del libro per ragazzi, ma del caro estinto. Anche la morte, nelle sue infinite sfaccettature, ha chi la promuove, le dà una vetrina e ostende il ricco bouquet di articoli in cui si scompone il ferale evento facendoli conoscere ai cari rimasti e mettendo in contatto le aziende coi clienti. Almeno finché sono vivi.
Appena rientro a casa, mi corre incontro Lilly, si appoggia con le zampe anteriori alle ginocchia e protende il muso.
L’accarezzo sul tartufo e le massaggio il petto con la mano mentre la lecca, stacca le zampe dalle cosce e le aggancia al polso, lo cinge in un abbraccio e divora i miei coi suoi occhi ambrati.
Un’espressione che racchiude la mia nella sua e con cui mi dice: grazie di essere tornato, grazie di esistere e di tutto il resto. E per un tempo che non basta mai la fisso anch’io, attratti l’uno dall’altra, non si sa chi Terra e chi Sole. Grazie a te, le rispondo muto, grazie di amare me e Teresa e di colmare la nostra vita in un modo che non si può spiegare a parole ma solo a emozioni. Ma pure di farci rizzare il pelo sulla schiena di fronte a una tavola imbandita per tenerti a freno, devota del Sacro Ventre quale sei.
Salutata la figlia, passo alla madre, che sta guardando la televisione. È tardi ma si vede che non ha sonno. Accovacciata in un angolo del divano, pare più piccola e indifesa di quanto sia, più bisognosa di amore e protezione della stessa cagnolina. La bacio su una guancia, risponde facendo scivolare il palmo della mano sulla mia faccia, dopo esserci scambiati un sorriso che è nostro e di nessun altro.
“È la Rosamunda?” domando nel vedere sullo schermo le immagini di una scogliera.
“È la Pilcher, sì.”
Rosamunde Pilcher e Inga Lindstrom. Teresa adora queste due autrici perché le loro storie finiscono sempre bene. Fino a un attimo dalla conclusione, tutto è ancora aperto e gli eventi sembrano sfociare inesorabili verso un finale triste ma poi, come per miracolo, gli intrecci amorosi si sciolgono, le relazioni poco chiare acquistano una nuova limpidezza. Gli amanti “giusti” si riconoscono e si mettono insieme, e gli sbagliati si accorgono di amarsi fra loro o di amare un altro o un’altra che in silenzio già li amava. E, di nuovo per miracolo, vanno a posto i problemi di lavoro o i dissesti economici o le malattie dei personaggi; chi ha perso il posto lo riacquista, chi sta per fallire risorge e chi è infermo guarisce. Insomma, tutto si risolve come i puri di spirito sperano si risolva.
Ho sempre ammirato anch’io questa capacità di combinare i tasselli di una storia e volgerli a una felice conclusione.
Dateci oggi il lieto fine quotidiano, prega il popolo delle anime candide al loro dio, fateci credere che la vita sia come un film della Rosamunda o della Inga. Perché la vita che conosciamo è dura e crudele e vendicativa. Pure bellissima, ma per stomaci forti, in grado di digerire i sassi. Astenersi cuori fragili e perditempo.
Teresa non può fare a meno di storie che finiscono bene. Non dopo la depressione in cui è sprofondata, il cane nero che le ha tenuto compagnia fingendo di blandirla ma, in realtà, soffocandola.
Ora, se non è proprio fuori dal tunnel, ha raggiunto la luce in fondo; è rinata, quanto un rondinino che ha rotto il guscio dell’uovo e si affaccia alla vita. E stare meglio, pur continuando a far uso di farmaci, benché in misura inferiore a quelli che prendeva all’inizio, e andare dalla psicoterapeuta, seppure una volta alla settimana e non due come faceva quando ha cominciato, è quasi come esserne uscita.
Ha ritrovato il sorriso di un tempo, quello che mi ha fatto innamorare, fa le battute che aveva smesso di fare, ha ripreso a truccarsi e cucinare, a godere del cibo e di un buon bicchiere di vino e, cosa forse ancora più importante, ha ricominciato a litigare con me, e il cane non è più nero ma bianco e arancio, non è più un maschio ma una femmina: una bretoncina a cui è stata tagliata la coda perché cacciasse meglio che, però, non cacciava. E, per punizione, è stata per un anno e mezzo a catena e poi liberata dai ceppi e data in adozione, e da Monopoli è giunta qui con una staffetta non proprio indolore, considerata la cronica renitenza a entrare finanche nella mia macchina, e con qualche oscura paura che già aveva.
Un cane da caccia che rinnega il proprio dna e le ferite che gli sono state inflitte in nome di questo, e fa le feste a tutti gli animali che incontra non meno che ai cristiani. Un disertore della sua razza, un dissidente, un obiettore di coscienza.
Dico a Teresa che il giornale mi ha precettato per il weekend, sere comprese tranne l’ultima.
Lei fa un’espressione di sorpresa e mi chiede di che incarico si tratta. Rispondo che devo immergermi in un mondo parallelo, lontano e vicino a un tempo, naturale e innaturale insieme: il Tan Show, la fiera dell’oltretomba che si tiene all’Ambassador Resort. E risalirne con qualche articolo di costume che meriti la spesa della Gazzetta dell’Orbe.
Teresa mi dice di aver sentito parlare del Tan Show dalla sua psicoterapeuta, dalla quale andrà domattina, che appartiene a Rinascere, un’associazione che fornisce un supporto a chi deve superare un trauma, alla quale si è rivolta quando è venuto a mancare suo padre e ha iniziato a stare male.
Le domando se se la sente di dormire in casa da sola. Per quanto abbia fatto capolino dalla clandestinità, la depressione è una tempesta i cui disastri persistono anche dopo anni e, quando sembra finire, non sei mai certo che sia finita per davvero. Glielo leggo negli occhi, ora accesi ora velati da un’ombra, e devo continuare a proteggerla, quanto Lilly dal suo passato. È come se le paure che tuttora covano fossero diventate le mie, e ho l’obbligo di curarmi di loro ogni alba che nasce. È uno dei miei compiti su questa terra e rinnegherei me stesso se lo trascurassi.
Teresa dice che se la sente, ma approfitterà di quei giorni per andare a casa da sua madre e tenerle un po’ di compagnia, se fosse sveglia e la riconoscesse, che a volte la riconosce a volte no.
Sua madre ha la demenza senile. Dorme o vaneggia con comportamenti talora anche intolleranti, assistita sette giorni su sette da due badanti filippine che si alternano al suo capezzale giorno e notte. E chiama di continuo suo marito che, visto che non risponde, conclude che è dall’amante. Rifiuta che sia morto, forse perché è troppo duro da accettare; lo preferisce vivo seppure fra le braccia di un’altra donna.
Le dico che stare un po’ con sua madre può essere un’idea e lei conferma che farà così. Andrà là dove è cresciuta con genitori che l’hanno amata tanto da tenerla quasi sotto una campana di vetro, mentre ora c’è una madre il cui orologio biologico è retrocesso a molte decine di anni indietro e due filippine, talvolta ciascuna col proprio figlio piccolo talaltra no, una femminuccia di sei anni e un maschietto di cinque, che battono il tempo del nuovo millennio. I giorni le passeranno più in fretta che se restasse a casa da sola. Ma starà bene anche Lilly, per la quale stravedono grandi e piccini. E, in fondo, sarò più tranquillo anch’io in quella fiera della grande falce in agrodolce.

3
Il capo

“Marco, dal capo” mi intima Stella col tono delle segretarie di direzione.
Mi scappa un mormorio di insofferenza e, sollevato lo sguardo dalla scrivania, incontro la sua bocca in centrifuga.
“Immagino che mi voglia subito.”
“No, ha detto che ti vuole per ieri.”
Non so se sia Pastore a rendermela antipatica nel replicare a pappagallo le sue battute o sia proprio lei a esserlo nel ripeterle come se fossero una bandiera comune. Se non altro, ha evitato di farmi il palloncino con la gomma con annesso scoppio.
Mi alzo ed entro nell’ufficio più opprimente del giornale.
“Vieni Cincotti, vieni dal buon Pastore.”
Quando diventa biblico, c’è sotto qualcosa. Con ogni probabilità una rampogna o un pippone. Mi siedo sul bordo della seggiola.
“Mi è piaciuto il tuo articolo sull’enfasi data a personaggi come i serial killer a proposito delle due prostitute uccise. Basta che ci sia più di un morto e si scomoda subito l’assassino seriale, così il giornale va a ruba e i benpensanti possono continuare a sentirsi buoni. Come se ne avessimo bisogno per sgravarci la coscienza. Poi, come scrivi giustamente tu, magari i delitti sono davvero opera di un serial killer, ma il secondo potrebbe pure essere un atto di emulazione.”
Resto talmente di stucco dall’inaspettata lungimiranza del capo che mi verrebbe da seppellire l’ascia di guerra sotto il pino spelacchiato del giardino. Ma la sepoltura cozza contro un “però”.”
“Però?”
“Non puoi scrivere che la Polizia non ha fatto un cazzo.”
“Un attimo, ho scritto che la Polizia non ha fatto granché e brancola nel buio, e le prostitute hanno paura. La parola “cazzo” ci sarebbe stata come una ciliegina sulla torta, ma non l’ho scritta.”
“Ma perché tirare in ballo la Polizia?”
“Ho capito, hai paura che i tuoi informatori alla Pula ti tirino una riga sopra.”
“Sant’Iddio, Cincotti, un giorno mi farai prendere un infarto!”
Per prendergli un infarto servirebbe un cuore, ma non glielo dico. Non voglio sentirmi in colpa se mai gli venisse.
“Devi dirmi altro?” Tutto sommato è finita in parità, una lisciata e un rabbuffo.
“Tieni.”
Mi getta una brossura, la prendo al volo.
“Il Tan Show?”
“È l’elenco delle iniziative dei tre giorni.”
“Ce n’è dalla mattina alla sera” replico sfogliando l’opuscolo.
“Perciò ti ho fatto riservare una stanza.”
“E ce n’è di ogni” faccio sempre scorrendo le pagine “Film, seminari, tour del commiato, bare in peluche o in pelle di leopardo, carri funebri con hostess decorative, laboratori di tanatoestetica e perfino i cibi per sostenersi dopo il lutto. E chi più ne ha più ne metta.”
“Mi piace che ti diverti. È lo spirito giusto.”
“Sai chi in passato ha sentito parlare di Tan Show?
“Chi?”
“Teresa.”
“Ah, tua moglie. Come sta?”
Allungo il collo.
“Sta meglio.”
“Non sei convinto?”
“Non è che non sia convinto. È come se mi aspettassi sempre una ricaduta.”
“Per quanto è stata male?”
“Siamo entrati nel settimo anno. Anni, capisci, non settimane o mesi.”
“Capisco.”
“Però è da un po’ che sta meglio. Magari dovrei dire che sta bene perché, in effetti, mostra di stare bene, ma la paura che ci ricada non riesco a mandarla via.”
Pastore annuisce e, intanto che lo guardo, penso a quello che ho appena detto. Non vorrei per tutto l’oro del mondo che il mio amore per lei si trasformasse in un amore fondato sulla paura.
“Ha sentito parlare del Tan Show dalla sua terapeuta che fa parte di Rinascere”
“La conosco, è l’associazione che fa capo al professor Guerra che insegna Psicologia Clinica all’Università e dirige un master in Tanatologia e Psicologia delle situazioni di crisi. È uno dei tanti sponsor cittadini del Tan Show.”
“Ci penso io, Pastore” dico nell’alzarmi “Fra l’altro, ho visto che ci sono eventi diversi anche agli stessi orari” e apro la porta.
“Sei libero di scegliere l’evento che preferisci.”
“Perfetto.”
“Confido in te. E fa tanti auguri a tua moglie.”
“Grazie. E tu dormi fra due guanciali.”
Mentre la richiudo inquadro il viso di Stella che, seduta, guarda verso di me immobile, gli occhi sgranati e la bocca aperta con all’interno il bolo che contiene, come una perla nella sua conchiglia. Forse l’improvvisa complicità fra me e il capo le ha procurato un principio di paralisi.
“Siamo diventati culo e camicia” le faccio.


4
Amore e morte

Giovedì torno a casa prima del solito, perché domani è il giorno in cui mi autosegregherò, con una certa soggezione ma anche molta curiosità, nell’albergo più lussuoso della regione per una full immersion nel mondo della morte.
Morte di cui ci è stato detto di aver paura e che è meglio non pensarci e non parlarne e anzi fare come se non ci fosse. Quasi che, non occupandoci di lei, lei non si occuperà di noi. Ognuno dalla sua parte, noi di qua e lei di là, ignorandoci a vicenda.
L’uomo, di fronte alla propria fine, fa le orecchie da mercante. Appena ha sentore del suo arrivo, si guarda intorno per vedere se non possa essere venuta per un altro. Come quando, a scuola, si veniva chiamati dal prof di turno per una interrogazione su una materia che non si aveva studiato. Si puntava lo sguardo sui compagni vicini nella speranza che fossero stati chiamati loro.
Ma all’ultimo appello non ti convoca un prof qualunque, ma la Suprema Autorità e, se è te che cerca, è te che prenderà. A meno che non sia venuta solo per darti un’annusata. Quando si sente un brivido nella schiena, si dice che ci è passata accanto la morte. Di qui la necessità di arrivarci preparati.
Ma chi arriva preparato al traguardo della vita? I preti, le suore, i malati o i genitori dei malati? Forse nemmeno loro. Forse soltanto gli operatori del settore, gli addetti ai lavori. Preparati al traguardo degli altri, ma al loro? Nessuno è mai pronto a lasciare gli ormeggi dell’esistenza per passare a miglior vita. Ammesso che di vita migliore si tratti e non del puro nulla, la cosa più difficile da immaginare.
Domani mi infilerò anch’io in quel mondo come un turista della domenica con la macchina fotografica in forma di portatile. Magari per allontanare l’attimo dell’estremo saluto andando a guardarlo esposto in una mostra e, nel mio caso, perfino ricamandoci sopra con le parole.
Ma oggi è come se fosse mezza festa. Oggi c’è solo Teresa, e anche Lilly, è naturale. Le mie donne. I miei amori. Il primo antico e saldo, il secondo più recente ma non meno solido, e teneri entrambi, e che danno un senso alla mia vita. O, se non altro, uno scopo.
Stasera Teresa ha preparato uno dei piatti che preferisco, le polpettine fritte, alcune ricoperte coi semi di sesamo, altre con la granella di pistacchi o quella di mandorle, e le patate al forno. Ci sediamo sul divano e mangiamo con le mani, avendo cura di appoggiare sul mobile alle nostre spalle il piatto per metterlo fuori della portata di Lilly. Non che qualche polpettina non le finisca in bocca ma divisa in pezzi, perché l’ingordigia della cacciatrice di cibo - questo sì è bravissima a cacciare - è tale che, deglutendole in un sol boccone, se fossero intere le tapperebbero la gola.
Dopo mangiato ci rilassiamo davanti alla televisione tenendoci per mano come due quindicenni sotto gli occhi dei genitori.
Quando mi dai la mano mi sento meglio mi diceva Teresa nei momenti in cui stava male e pure in quelli nei quali, pian piano, cominciava a risollevarsi e camminare con le sue gambe, e la sensazione, non solo sua, era che questo gesto la alleggerisse più delle parole. Una mano che si offre e l’altra che la trova e viceversa. Forse due mani che si sostengono sono più sante di due che pregano.
L’amore per Teresa è fondato sull’amore e non sulla paura, ma la paura è una costante immancabile dell’amore o, per lo meno, di come lo vivo io. E magari è proprio questa paura a farlo sembrare tanto straordinario. Più si ama e più si teme per la sorte dell’amata.
Due mani che si prendono possono allontanarla reciprocamente la paura, e se in passato la mia è servita a lei per farla stare meglio, la sua serve adesso a me per farmi stare bene.
Andiamo a letto leggendo ognuno negli occhi dell’altro il desiderio, la libido che tuttora ci ricorda che siamo vivi e tutt’altro che da buttare. Ma non posso fare l’amore con lei, non più, e perciò nessuno chiede niente all’altro. Il desiderio si sgonfia come un tubolare bucato.
Per un po’ le tengo la mano anche a letto, e la lascio quando sento che ha preso il respiro del sonno. Un sonno che a me non viene, forse perché sono abituato ad andare a dormire ancora più tardi. Ma sto bene sdraiato al suo fianco anche nel mio stato di veglia, ascoltando il suono leggero del suo riposo.
Penso alla mia vita. Alle soglie dei cinquant’anni ho trovato un equilibrio. O qualcosa del genere. Non poter far l’amore con chi si ama e si desidera quanto il primo giorno è come camminare su una corda tesa fra due grattacieli. Ci vuole coraggio. Oppure incoscienza. Ma ho conosciuto periodi peggiori, in cui non mi accorgevo che i miei incubi più dolorosi erano quelli che vivevo a occhi aperti.
A un tratto sento Teresa che parla nel sonno in un falsetto concitato. Sta litigando con qualcuno, anche se quella voce non sembra appartenere a lei ma a uno spiritello o alle filastrocche che cantano i bambini in certi film dell’orrore.
“Sta tranquilla, sei con me” le sussurro scuotendole piano un braccio.
Spalanca due occhi da cerbiatto braccato e fa un sospiro profondo, mi dà un bacio e si gira di lato. Gli incubi sono diventati più frequenti, ma la psicoterapeuta le ha detto che è normale. Servono a elaborare il passato, sono parte della guarigione. Sarà. Sta di fatto che, se prima stava male da sveglia, ora sta male nel sonno. Non c’è pace nel suo cuore.


5
L’intervista

Sette anni fa ero la penna politica del giornale. Mi dicevano che ero bravo e anch’io, senza presunzione, lo pensavo. Me lo dicevano i colleghi, non solo della Gazzetta, e perfino Pastore che, già allora, tirava le fila del suo teatro stabile. Molti lettori mi scrivevano che apprezzavano la mia lealtà nei loro confronti perché ai politici facevo, fra le altre, le domande che avrebbero voluto fare loro, e tanto mi bastava. Al punto da farmi piacere il mio lavoro e darmi l’impressione che non mi dispiacesse nemmeno l’universo che vi ruotava intorno. O il gioco che ci stava dietro e al quale giocavo anch’io. Non di rado a smontarlo. O a provarci.
Finché un giorno Pastore non ha avuto la brillante idea di mandarmi a intervistare il politico più in vista della città. Brillante conoscendo me e il politico.
Sono arrivato nella sede del partito di Bistefani. Mi hanno accompagnato in una sala d’attesa accanto a un ufficio da cui è spuntata una giovane snella dai seriosi capelli biondi e il viso lungo, come le sculture dell’Isola di Pasqua. Era vestita in giacca e pantaloni grigio scuro con sotto una camicia immacolata dal collo ad ali di farfalla. Lucilla, la segretaria del Grande Capo. Lucilla come Stella, ho pensato. Forse sono nomi da segretarie, i fari dei loro capi.
Le ho risposto stringendole la mano che mi ha offerto ma non quanto lei ha stretto la mia. Mi piace chi ti stringe per davvero la mano; alcuni ti appioppano palmi talmente privi di nerbo che sembrano amputati e hai la sensazione di stringere il palmo di un morto.
Lucilla mi ha introdotto nell’ufficio dell’uomo più influente della città. Almeno in quel momento, che tanti passano più veloci delle influenze di stagione. Bistefani è l’ultimo in ordine di tempo di questi mali contagiosi. Magari un giorno sarebbe sparito come un corteo di nuvole, ma allora era il fiore all’occhiello del partito, la scoperta più recente, sul quale aveva puntato tutto, non solo a livello cittadino. Per catturare la richiesta di “nuovo” che avanza il volubile popolo sovrano e in particolare l’elettorato più giovane, dato che era a cavallo della trentina, come se il nuovo fosse per forza meglio del vecchio. L’avevo visto qualche volta in una televisione locale e sentito dire cose sensate senza strapazzare troppo la lingua italiana come fanno in molti, e l’avevo incontrato di straforo in un paio di occasioni ma senza parlarci.
Pareva ancora più giovane della sua età malgrado i baffetti alla Zorro, la fronte era alta e le iridi piccole e nere sopra un naso importante, era pettinato alla moda e abbigliato alla moda, il nodo alla cravatta di una perfezione da rasentare l’impostura, e aveva quel tipo di sorriso che, sotto le specie dell’accoglienza, lasciava trasparire il proposito di un rapido congedo. Il più contraffatto dei sorrisi, a occhi aperti e senza zampe di gallina ai lati. Il mio lavoro mi ha insegnato a leggere i visi dei miei interlocutori come se fossero le pagine di un libro. Prima delle parole parlano occhi e bocca, e spesso più delle parole. Gli ho restituito un sorriso fotocopia.
E con questa espressione di gioiosa ebetudine, mentre con una mano si lisciava la cravatta dello stesso fucsia del fazzoletto del taschino, mi ha allungato un foglio di carta, un elenco di frasi che terminavano col punto interrogativo: le domande che avrei dovuto fargli.
L’ho guardato come se mi avesse tirato un bicchiere d’acqua in faccia. Questo pivello della politica voleva che gli domandassi quello che aveva deciso lui senza neppure darsi la briga di chiedermi se la cosa mi stesse bene o le sue domande coincidessero, almeno in parte, con quelle che avevo intenzione di fargli. Mi ha solo allungato questo foglio aguzzando ancora di più il sorriso, come se avesse inghiottito uno di quegli aggeggi elettronici che consentono di cambiare l’intensità della luce in una stanza. Forse credeva di essere il più intelligente di tutti e si sentiva in dovere di menare la danza e pure il modo di danzare.
Ho stretto lo sguardo sul suo viso e ho visto, nella supponenza di quella corona schierata di denti bianchi lontani anni luce dal minimo segno di opacità o di vergogna, il disprezzo verso di me e i miei lettori. Perché prima di quel sorriso di plastica c’era stata la sfrontatezza di digitare sulla tastiera di un computer o, magari, di farle digitare a Lucilla, le fantomatiche domande, di farle stampare e, a suggello del tutto, il coraggio, se così si può chiamare, di allungarmi il foglio che le conteneva.
Ho scorso le domande. Forse alcune gliele avrei fatte anche se non me le avesse passate. Ma non può trattarmi come uno zerbino. E, senza starci a pensare troppo, ho girato il foglio in orizzontale, l’ho preso fra i pollici e gli indici e, con la lentezza che richiedeva il gesto, l’ho diviso in due.
Ha sbarrato gli occhi al punto che ho temuto potessero cadergli sulla scrivania e contratto la faccia in un’espressione che ricordava l’urlo di Munch; ho posato i pezzi di carta sulla scrivania e me ne sono andato.
“Già fatto?” ha esclamato, appena mi ha visto, Lucilla, come nella pubblicità della bimba che aspetta spaventata che le facciano un’iniezione mentre invece gliel’hanno già fatta.
“Già fatto.”
E ci siamo lasciati regalandoci un saluto.


6
La punizione

Il giorno dopo il capo mi ha fatto chiamare da Stella nel suo ufficio, e mi ha chiesto dell’incontro con la punta di diamante del partito. Gli ho raccontato i fatti nudi e crudi. Il neo acquisto della squadra di casa, alla prima azione, aveva commesso il fallo più stupido che un giocatore della politica potesse commettere: ingannare gli elettori per vincere la partita senza giocarla, e l’avevo sanzionato con un bel cartellino giallo che era diventato subito rosso per la gravità dell’infrazione. Tutto qui.
Ho visto Pastore stringere le labbra e annuire, lo sguardo fatalistico dell’uomo di mondo, di chi sa come vanno le cose o come possono andare, la piega imprevista che possono prendere, e dalla faccia già stavo pregustando una parola di solidarietà.
“Magari erano un’indicazione” ha detto, i gomiti sulla scrivania e le mani aperte.
“Che cosa?” gli ho chiesto, la testa ormai oltre l’ostacolo.
“Le domande. L’intervista era di pochi minuti.”
“Se non aveva tempo, poteva rimandarla. O gliel’aveva ordinata il dottore?”
“Dio, Cincotti, come sei rigido!”
“Rigido? Mi ero preparato a espressioni diverse.”
“Forse voleva delimitare l’argomento.”
“Ma lui non mi ha detto niente! Mi ha solo fatto ‘sto sorriso deficiente e mi ha allungato ‘sto pizzino”
“E dai, pizzino!”
“Sì, come quelli dei mafiosi. E me l’ha passato come a dire tieni, coglione, vediamo se sai leggere a voce alta.”
“Addirittura.”
“Guarda, non ne faccio neanche una questione politica, ma di educazione.”
“Bisogna scusarlo, è giovane.”
“A maggior ragione se la dovrebbe ricordare l’educazione. Fra dieci o vent’anni cosa fa? Ti sputa in faccia con la scusa che poi ti pulisce, come il parabrezza di un’auto? È come quel signorino che l’altro giorno, in centro, ha parcheggiato il suv in seconda fila ed è andato per i cavoli suoi fregandosene di quelli che aveva bloccato col suo macchinone. La stessa mancanza di rispetto per le persone.”
“Comunque quella di scriverti le domande è una pratica molto più in uso di quanto credi. E non da oggi.”
“A me non è mai capitato.”
“Hai avuto fortuna.”
“Non mi dirai che ho fatto male a rendergli pan per focaccia.”
“No no, per carità. Hai fatto… hai fatto bene.”
“Meno male.”
“Ma non ti ho chiamato per questo.”
“Ah no? E per cosa?”
“Ho una sorpresa per te.”
Sono ammutolito. Non era il mio compleanno né il mio onomastico e il mio capo aveva una sorpresa per me. Avrei dovuto ricambiare. Imparare quando compiva gli anni o era il suo onomastico.  
“Ti faccio fare un cambio” mi ha distolto dal mio elucubrare. Che significa un cambio, mi sono chiesto “Passo Natali alla politica e te alla cronaca nera” Devo averlo fissato come si fissa un extraterrestre, mentre il petto iniziava a rimandarmi i battiti del Big Ben “Voglio rilanciare la “nera” della città. Ma anche la grigia e addirittura la rosa. Siamo o non siamo la Gazzetta dell’Orbe?”
“S-sì” ho ascoltato la mia vice balbettare, mentre il corpo capottava come dentro un’auto di cui aveva perso il controllo.
In un attimo ho capito quello che mi stava succedendo. O meglio, quello che mi era già successo. La punizione degli dei per il mio peccato di superbia.
Mi sono sentito sprofondare, annegare con la bocca piena d’acqua che mi impediva di abbozzare una replica o accennare un gesto.
“Che ne dici?”
Che ne dovevo dire. Niente, la decisione era presa. Il che ne dici era un pro forma. E poi, con l’acqua in gola, facevo fatica perfino a respirare, figuriamoci a parlare. Io che ho sempre ribattuto colpo su colpo al capo, me ne stavo in silenzio come un bambino incapace di sollevare un dito o un pensiero.
“Non sono sicuro di accettare il nuovo incarico” sono riuscito a dire mentre mi alzavo dalla sedia.
“Prenditi il tempo che vuoi. Sei bravo, Cincotti. Mi dispiacerebbe perderti. Domani farai il passaggio di consegne con Natali.”
Il bastone e la carota. Pastore è più navigato di un lupo di mare.
“È inutile” ho fatto chiudendo la porta “Natali non capisce un tubo di politica.”
“Per l’appunto” mi è sembrato di sentire dall’interno. O forse è stata solo una mia impressione.


7
La decisione

Sono uscito dal giornale nella nebbia. Visibilità in Val Padana: zero recitavano i bollettini del Servizio meteorologico dell’Aeronautica della mia infanzia, che scandivano gli autunni e gli inverni all’insegna del fenomeno. Nebbioni che si tagliavano col coltello e dove nessuno vedeva l’altro. O lo vedeva quando l’aveva già tamponato. A piedi o in auto.
Ma la nebbia stavolta era dentro di me e mi appannava i sensi e la mente, avvolgendomi come le pellicole trasparenti per conservare i cibi nel frigorifero. Mi proteggeva per non farmi soffrire troppo. Ma dovevo uscire da un tale offuscamento della coscienza, nella strada della mia vita non vedevo a un metro.
Sono tornato a casa a piedi e non in autobus per rientrare il più tardi possibile, che a casa c’era il cuore del problema, l’incendio che ardeva invisibile e non potevo spegnerlo. Il padre di Teresa era morto da poco, all’improvviso, e lei era ridotta a uno straccio.
Suo padre aveva accusato mal di stomaco e giramenti di testa, roba da poco però, dato che il medico di base non c’era perché era una giornata prefestiva, aveva deciso di farsi dare un’occhiata al pronto soccorso. Teresa si era offerta di accompagnarlo ma, dal momento che sua moglie aveva la febbre, le aveva detto di pensare a lei, all’ospedale ci sarebbe andato da solo. Mi ero offerto anch’io di dargli un passaggio e casomai di starci un po’ insieme prima di andare al lavoro, ma aveva detto che non era necessario.
Nel pomeriggio l’aveva chiamata dicendole che gli avevano fatto alcuni esami e, per precauzione, l’avrebbero trattenuto per la notte e, alla sua proposta di andarlo a trovare, considerato che  febbre dell’inferma era salita, le aveva detto di non preoccuparsi e rimanere con sua madre, tanto lì era in buone mani. Talmente buone che il mattino seguente, sua madre sfebbrata, dopo averlo cercato invano al cellulare, una volta raggiunta la struttura, le avevano detto che aveva appena avuto una crisi cardiaca e non erano riusciti a rianimarlo.
Morto. Per un attacco di cuore. In ospedale.
Teresa quasi non ci credeva, aveva preteso di vederlo, e quando, scesi nell’obitorio, gliel’avevano mostrato, era scoppiata in grida e pianti tali che avevano dovuto sedarla. Alla fine mi aveva chiamato. L’avevo trovata in un letto di fortuna che masticava fra i singhiozzi parole sconnesse.
Avevo cercato di placare la sua disperazione ma senza riuscirci. Non si dava pace, non riusciva ad accettare di aver visto uscire di casa suo padre sulle sue gambe e di averlo trovato freddo nel seminterrato di un nosocomio. Aveva avuto un attacco di cuore, e con questo? Era nel posto giusto, dove ci sono defibrillatori e tutto il resto, medici e farmaci e quant’altro. E dove, se avesse dovuto essere operato, avrebbero potuto intervenire subito.
Nelle chiacchiere che si fanno a tempo perso si dice che, se ti prende un colpo quando sei in casa da solo, sei spacciato perché non ti può aiutare nessuno; se ti viene al lavoro o fra la gente, ti va bene perché qualcuno può chiamare un’ambulanza e puoi essere soccorso in tempo. Ma se il coccolone ti viene in ospedale, sei nato con la camicia, perché in men che non si dica ti sono tutti intorno per prestarti aiuto. A maggior ragione se sei ricoverato; ti basta suonare un campanello per richiamare al tuo capezzale frotte di camici bianchi per salvarti la pelle. E invece no, a suo padre era venuto nel posto giusto, ma non era servito.
L’aveva suonato quel campanello, ha chiesto Teresa? L’aveva suonato, le hanno risposto. E poi che era successo? Era successo che erano intervenuti ma suo padre non si era più ripreso. E più domandava per cercare di approfondire, più loro rispondevano con espressioni o ragionamenti che lei non capiva, e neanch’io, che avrei dovuto essere più freddo e perciò vederci più chiaro. Ma il linguaggio dei medici è sempre criptico, soprattutto nei frangenti in cui sono in difficoltà a spiegare un’attività finita male e, comunque, il senso che traspariva dai loro discorsi era che avevano fatto tutto quello che il protocollo prevedeva in questi casi. Il protocollo, che parola orribile.
Ma com’è possibile che uno entri in ospedale sano o, almeno, con un malessere appena percettibile, proprio per evitare di ammalarsi sul serio, e il giorno dopo gli si fermi il cuore, ha insistito Teresa. Il cuore è come la batteria di un’automobile, le hanno risposto, come il meccanismo di un orologio e, in quanto tale, si può fermare in qualsiasi momento, non solo in un uomo anziano ma anche in uno giovane; siamo appesi a un filo, non possiamo farci niente. Come marionette nelle mani del burattinaio, ho pensato.
Teresa si sentiva in colpa per averlo lasciato andare là da solo e non esserlo andato a trovare durante il giorno, anche se aveva fatto quello che lui le aveva detto: pensa a tua madre. E lei gli aveva obbedito, come una brava figliola. Però era andato via così di corsa, col taxi che l’aspettava in strada, che, quand’era uscito, non gli aveva dato neanche un bacio, come faceva sempre quando si salutavano. Ma in fondo sarebbe uscito per poco, per fare un salto al pronto soccorso e tornare. Solo che non era più tornato. Non sarebbe tornato mai più.
Era questo “mai più” che non poteva accettare. E non poteva accettarlo nemmeno sua madre, che già aveva manifestato qualche segno di squilibrio, lievi amnesie o piccoli errori nel parlare, indizi che potesse trattarsi della maledizione di famiglia, di quel morbo che già aveva colpito la madre di lei e le sue zie.
“Se mi viene la loro stessa malattia,” aveva detto a Teresa “buttami dalle scale o dalla finestra e, se non muoio, ammazzami, ma non farmi vivere in quelle condizioni.”
“A te non succederà” le aveva risposto “un lapsus o una dimenticanza non significa niente, capita a tutti; anche a me.”
Ma la maledizione di famiglia non aveva fatto eccezioni, il destino genetico le aveva presentato il conto e lei non aveva potuto fare a meno di pagarlo. La morte del marito le aveva dato il colpo di grazia, l’aveva spinta nel pozzo senza uscita della demenza conclamata; era stato necessario affiancarle una badante, ed era arrivata la prima filippina. Allora senza figlia.
Pensavo a Teresa in quel rientro a casa infinito nuotando nelle nuvole basse dei miei pensieri, spessi come ovatta e opachi alla luce. Ma stavo davvero tornando a casa o facevo finta? O ci giravo intorno evitando di chiudere il cerchio? Era come se vagassi nel deserto. Non vedevo case, negozi, semafori, ma un panorama sempre uguale: un vapore scuro che, appannando i contorni, aveva il potere di confondere la percezione della realtà e trasportarmi in un mondo inconsistente.
Teresa ha provato a tornare al lavoro per dare sfogo alla mente e dirottarla dal rimpianto di suo padre. Lavorava nel campo della moda, disegnava abiti e accessori per le boutique di un certo livello. Un campo minato, dato l’elevato grado di competizione di questa industria mutevole che passa e resta, che vuol essere leggera e profonda insieme, con le case di moda a sovvertire di continuo il passato per preservarlo in un’idea o un particolare. Ma soprattutto a spremere come limoni gli stilisti e gettarli via quando è finito il succo, senza la pazienza di aspettare che ne producano altro.
All’inizio era l’unica responsabile delle sue creazioni, come gli altri designer con cui lavorava, ma poi, a coordinarli, avevano messo un direttore che fungeva da interlocutore diretto del direttore generale.
A Teresa piaceva il suo lavoro e si impegnava a fondo, lavorava anche fuori orario e spesso pure nei fine settimana. Ma, quando consegnava un progetto al nuovo direttore, questi, pur non essendo un designer, lo criticava o lo modificava a suo piacimento anche in un dettaglio, senza avvertirla. E se gli chiedeva chiarimenti, le rispondeva ma andiamo, Teresa, non è importante.
Così finiva per sfogarsi con me.
“Ho passato palate di tempo su questo studio e in pochi secondi ha cambiato tutto senza darmi una spiegazione. E io dovrei creare per uno che nega il mio lavoro?”
E non c’era modo di chiarire; se qualcuno faceva valere le sue ragioni, lui o dribblava la discussione o, peggio ancora, urlava, e tutti temevano queste crisi, perciò si censuravano. Ma censurarsi significa sentirsi sopraffatti e stare male.
Dopo che è morto suo padre, Teresa si è presa una settimana di malattia perché si sentiva sotto un treno. Aveva due occhi da rana e i movimenti, lungi dall’avere un loro automatismo, sembravano l’effetto di una fatica che da un istante all’altro sarebbe potuta venire meno, e provava sollievo solo a dormire.
Quando è tornata in ufficio, il direttore l’ha accolta dicendole che, causa la sua assenza, avevano dovuto lavorare giorno e notte, e i lutti si affrontano meglio riprendendo subito il ritmo piuttosto che fermandosi a piangere o a riflettere o a rimestare il tutto. Un po’ come chi ha un incidente con gli sci o cade da cavallo, che è bene ci risalga sopra senza indugio.
Non ce l’ha fatta a riprendere. Le avevano dato dei tempi stretti per presentare nuovi progetti a cui non aveva la testa per pensare. Forse, se l’avessero capita - capire i propri simili, l’attività più difficile per un essere umano -, le cose sarebbero andate in maniera diversa. Ma nella vita i “se” non contano, e al passato per modificare il presente non si torna. Ha finito per entrare in depressione. Una depressione grave, che sommava al senso di colpa nei confronti del padre, quello di vergogna per non aver saputo conservarsi il lavoro.
Pensavo al mio futuro e a quello di Teresa, a cosa fosse più opportuno fare, se accettare l’offerta di Pastore o cercarmi un posto in un altro giornale. Tornavo in una casa dove era venuto a mancare uno stipendio e, al tempo stesso, occorreva destinarne un altro a una badante, e in cui Teresa non era in condizioni di accudire nemmeno se stessa.
La nebbia che mi offuscava il cervello sembrava infittirsi sempre di più.

Dicono che camminare aiuti a pensare, ed è vero. Solo che i pensieri che guizzavano dietro la cortina della mia fronte erano mille e ne perdevo il filo perché mi si replicavano in testa. Come i miliardi di goccioline d’acqua che formano la nebbia. Mio nonno diceva che, se la neve era il pane della terra, la nebbia era il vino, proprio per quella sensazione di sperdimento e di piacevole vertigine, quanto una bella sbronza. Mi sentivo così, ubriaco senza aver bevuto un goccio d’alcol, incapace di vivere, come se il mio mondo non fosse più mio. Ma anche sfinito e non vedevo l’ora di tornare a casa. Ma non era ancora il momento.
Se Teresa fosse stata bene, avrei potuto fare qualche telefonata ad amici di altri giornali che mi stimavano e talvolta mi dicevano: “Perché non vieni a lavorare da noi?” Avrei detto: “Sono sul mercato. Avete bisogno di una penna politica?”
Forse l’occasione era propizia per fare quelle telefonate. Però magari avrei dovuto cambiare città o perfino regione. Come potevo spostarmi, con Teresa in quelle condizioni. No, non l’avrei mai abbandonata a se stessa. Piuttosto sarei passato sotto le forche caudine di Pastore.
Ma c’era anche un’altra cosa che avrei potuto fare col mio capo: sputtanarlo. Rendere pubblica la mia defenestrazione, legata in modo lampante a quanto accaduto con Bistefani, e accusarlo di mobbing oppure di straining, una forma attenuata del primo nel quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie ma ne basta una soltanto, come nel mio caso. Avrei potuto sollevare un polverone e stare alla finestra a guardare.
Solo che avrei dovuto fare a meno dello stipendio, e non potevo permettermelo. Mi sentivo povero. Non un povero assoluto, un povero oscillante, il cui benessere era legato a una condizione passeggera.
E poi, forse, qualche granello di questo polverone avrebbe potuto finirmi negli occhi, considerato che Pastore era uno immanicato dappertutto. Il tipo che non solo possiede nel suo dna il gene paraculo, del quale siamo tutti dotati dagli albori del tempo, ma ne fa un uso quotidiano, lo allena come un culturista coi suoi muscoli. Il suo gene paraculo avrebbe fatto a pezzi il mio. Andargli contro sarebbe stato come andare al martirio, senza la certezza che dall’altra parte ci fosse il paradiso che si dice tocchi ai martiri.
Alla fine la decisione era presa: avrei accettato di passare alla cronaca nera. Avrei cercato di farmela piacere, come avevo fatto con la politica.
Mi era venuto anzi da chiedermi perché da vent’anni in qua mi fossi votato a questa. Cosa mi aveva attirato di questa arte in cui si può dire oggi il contrario di quello che si è detto ieri, salvo ribaltare di nuovo le cose domani. In cui si ridiscute sempre tutto all’ultimo fiato, dall’ora legale alla ricetta delle frittelle di Nonna Papera. Secondo un vecchio adagio, si può ingannare una persona per tutto il tempo o molte persone per una volta, ma non si possono ingannare molte persone per tutto il tempo. La politica sta a dimostrare che si può.
In quel momento non sapevo più cosa mi piacesse della politica. Se mai l’avessi saputo. Semplicemente ero partito da lì, forse perché pensavo che fosse importante. Ed “è” importante, molto. Importante per chi è governato più che per chi governa, e a questa importanza ero legato. Forse era ora che dessi un taglio a questo cordone ombelicale. L’episodio di Bistefani era significativo. Non solo del livello al quale era arrivata la politica, ma di quello al quale ero arrivato io, logorato dalla situazione che vivevo in casa.
Teresa già andava dalla psicoterapeuta, e sarebbe stato un percorso lungo; quattro o cinque anni almeno. Anni che avvertivo lunghi come secoli e, a forza di vederla stare male, di sentirla sola e infelice, come se non le servissi a niente, e col desiderio latente di morire piuttosto che provare tanto dolore, anch’io avevo i miei alti e bassi. Tutti hanno i loro alti e bassi nella vita. Ma è ovvio che, a stare con un depresso, i secondi siano molti di più dei primi, e gli stessi alti tocchino le vette di un elettrocardiogramma quasi piatto.
Magari, se non fossi stato stressato, avrei gestito l’approccio di Bistefani con più tatto. Avrei potuto abbozzare, dire una battuta, fargli una domanda sua e una mia. Sì, avrei potuto fargliele le domande dell’elenco; alcune, l’ho detto, erano quelle che gli avrei fatto io.
Ero esaurito, dunque, ma soltanto a causa di Teresa o anche della politica? La reazione davanti all’uomo nuovo del partito, di quale stress era figlia, di quello per mia moglie o di quello per la mia ventenne amante lavorativa? Lo era più della seconda che della prima. Perché di Teresa ero responsabile e dovevo aver cura, dell’altra no.
Forse la mia cacciata dal tempio era quello che ci voleva. Forse il capo mi aveva fatto un favore. Era presto per dirlo e, in ogni caso, con lui non l’avrei ammesso nemmeno sotto tortura, ma era possibile.
Maturata la decisione, sono rientrato a casa. E, come per togliermi un peso di dosso, ho raccontato la novità a Teresa, seduta sul divano con lo sguardo perso e il pallore di una bambina che ha corso troppo.
“Sai che da domani cambio lavoro?”
Ha spalancato i grandi occhi spenti castano chiaro di quel tanto perché capissi che aveva capito, e questo era qualcosa. Poi ha scosso piano il capo, come a domandare cos’avrei fatto.
“Da domani mi occupo di cronaca nera.”
Mi ha guardato con uno stupore infantile.
“L’hai deciso tu?”
Non le ho risposto.
“Avrò più tempo per stare con te” le ho detto soltanto.
Ha chiuso gli occhi e li ha riaperti con una luce spettrale. Erano ancora più belli col bianco della pelle ma esanimi, senza la forza di ridere o piangere. Mi ha abbracciato, e siamo rimasti stretti per un po’. Siamo andati a letto; desideravo quel corpo martoriato dai colpi della vita, mentre lei voleva soltanto spegnere la luce su un mondo che non le apparteneva più.

Il giorno dopo, da Pastore, ho chinato la testa senza riconoscere il mio peccato.
“Accetto l’incarico, ma per un po’ lavorerò meno.”
“Come vuoi.”
“Starò di più con mia moglie. Non sta bene.”
“Cos’ha?”
“Te ne parlerò un’altra volta.”
“Quando vorrai. Sono contento che resti. Sei un pezzo del giornale.”
Un pezzo del giornale. Pastore fa apparire Richelieu un dilettante. È capace di mettertelo in quel posto senza che te ne accorga, anche se con me non ci riesce - intendiamoci, non che non me lo metta, però me ne accorgo -, e in modo da farti provare quasi piacere. È inafferrabile, come una saponetta bagnata. Con tutti i rischi che si corrono in bagno con le saponette bagnate.
“Mi dispiace solo il motivo per cui l’hai fatto.”
Mi ha guardato con l’innocenza dei colpevoli colti sul fatto.
“È stato un normale avvicendamento.”
“No. L’hai fatto per compiacere il partito di Bistefani.”
“L’hai detto tu, non io.”
La stessa risposta di Gesù a Giuda. Nella sua bocca, una bestemmia.
“È quello che volevo sapere. A proposito, il passaggio di consegne con Natali, fallo tu.”
“Al tuo servizio, Cincotti.”
Ho annuito e me ne sono andato.


8
Il nuovo mondo

Così, sette anni fa, ho iniziato a occuparmi di cronaca, nera ma anche grigia, che, per fortuna, non tutti i giorni ci scappa il morto, e in via eccezionale anche di altri colori più rassicuranti. A raccontare storie di persone come noi, che non hanno niente di fantastico o virtuale ma tutto di reale. Storie efferate, per lo più, o storie al limite.
Persone che indossano una maschera che è la loro identità e con cui sono quelle che sono. Anzitutto per ingannare se stesse. Mentre i politici indossano una maschera per apparire differenti da come sono e quindi per ingannare gli altri, certi che molti non aspettano altro per poter covare una piccola passione, non importa se di destra o di sinistra.
La cronaca non bleffa come la politica. E passare da questa a quella nel tratteggiarne i caratteri è passare da una stanza dall’aria viziata a un ambiente sconfinato che cambia di continuo. Hai l’impressione di respirare meglio e più a fondo e di godere la vita in un altro modo. E, nei casi in cui sembra che la vita ti lasci indietro, la paura che ti viene in uno spazio aperto appare sempre preferibile a quella che ti prende in uno spazio chiuso.
La cronaca nera è come una guerra nella quale non ci sono confini da difendere o da attaccare, dove mandare truppe o rimuoverne, è ovunque. Una guerra senza frontiere. Una prospettiva terrificante perché ogni scontro fra idee contrapposte può finire in un bagno di sangue.
Io, il guanto di sfida a Pastore avrei potuto lanciarlo infinite volte, e lui a me, e altrettante avremmo potuto ucciderci a vicenda. L’abbiamo fatto col pensiero, e con soddisfazione reciproca. Vuoi mettere la bellezza di fare le cose col pensiero? Non solo quelle brutte ma, talora, pure quelle belle. E invece c’è chi le cose, soprattutto le prime, ama farle nella realtà, anche senza il pretesto di un’idea discorde, in particolare se c’è di mezzo una donna.
Il crimine è l’applicazione pratica del detto latino homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti in cui non esiste il torto o la ragione, ma solo il diritto di ciascuno su ogni cosa, compresa la vita altrui. Più o meno lo stesso valore di mors tua vita mea, altra frase che rappresenta in pieno l’egoismo umano. E con questo ho esaurito il latinorum.
La cronaca nera è l’approccio al crimine. O al male. Ne ho narrate tante di brutte storie, tutte uguali e diverse.
Storie di uomini che uccidono le proprie donne e talvolta i genitori di queste o i figli, che magari sono anche figli loro - assai più di rado di donne che uccidono i propri uomini -, di giovani che massacrano, in branco o da soli, coetanei o persone meno giovani con una ferocia pari soltanto all’indifferenza con la quale ne parlano una volta presi, di pistole che sparano, coltelli che sventrano, pugni e calci che spaccano pezzi di corpi.
Storie di dolore, di violenza, di sesso, di distruzione, di sottomissione, di verità nascoste, di deformazione della realtà e perfino di un male non commesso per mano dell’uomo ma del destino o del caso, che colpisce alla cieca vittime innocenti.
E i lettori hanno ripreso a scrivermi più che in passato mostrando di apprezzare il mio modo di raccontarle. Sia per il taglio di rispetto nei confronti delle vittime che per servirle per quello che sono e condirle solo con qualche breve riflessione, rifiutando di farne delle fiction o dei gialli con personaggi privi di vita.
Sicché oggi posso dire che Pastore mi ha fatto un piacere a togliermi dalla politica per la cronaca, anche se non sarò mai il suo figliol prodigo.
Peraltro, nel mio nuovo mondo, ho ritrovato un vecchio compagno del liceo che fa le autopsie disposte dall’autorità giudiziaria nei casi di omicidio, e qualche confidenza, Oliviero, non me la rifiuta mai, sicuro che la terrò per me.
Quando tutto è cominciato, sette anni fa, era una vita diversa, non c’era ancora stata la mia malattia che mi ha condotto a un passo dalla morte e da cui, alla fine, sono riuscito a venir fuori, seppure con l’handicap di non poter più fare l’amore.
Lilly non c’era. Era morta da poco la vecchia cagnolina ma l’idea di prenderne un’altra distava anni luce dalle nostre fantasie. Non era nemmeno nella mente dei suoi genitori, épagneul breton d’alto lignaggio, purissimi cacciatori di anatre e quaglie. Non sapevano che la loro creatura avrebbe fatto una scelta etica verso gli uccelli, rinnegando il suo aiuto all’uomo in un massacro che qualcuno chiama hobby, altri addirittura sport.
Anche se un giorno, ai giardini con Lilly, un tizio ha solidarizzato col cacciatore perché aveva pagato per un cane da caccia e gli avevano rifilato un cane che non cacciava. Soldi buoni per un cane pippa.
Confesso di non aver mai considerato la cosa sotto questo aspetto.
Tutto è relativo.



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