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Eugenio Squeri
AUTORI 2024
Eugenio Squeri

Nasce a Milano il 07/06/1959.
Dopo un lungo periodo all’estero, nel 1988 inizia a lavorare presso il Piccolo Teatro di Milano.
In più di trent’anni ha partecipato agli allestimenti di registi di fama quali Giorgio Strehler, Luca Ronconi e, più recentemente, Mario Martone in qualità di tecnico delle luci. Tra i suoi interessi extra lavorativi ci sono i viaggi, con più di 35 paesi visitati nel mondo, lo sport, con il judo in età giovanile e lo squash, il disegno di fumetti, con alle spalle alcune piccole pubblicazioni di strip comics.
A questi si aggiunge la scrittura, dove negli ultimi quattro anni ha collezionato diversi riconoscimenti.
TERZO CLASSIFICATO
"Orti dei Dogi" - Racconti-
Il Paés
“Orti dei Dogi”
Narrativa
Il Paés





Martino viveva in montagna, ma siccome abitava in un paese molto povero tutti lo chiamavano Martìn. Non perché non piacesse il suo nome o amasse pescare, ma perché il paese era veramente molto, molto povero e tutti soffrivano la fame. Talmente tanta fame che pur di riempirsi lo stomaco si mangiavano un pezzettino di qualsiasi cosa, persino dei nomi. Non risparmiavano niente. Le gambe dei tavoli, per esempio, erano tutte smangiucchiate sulle punte, tanto che per non farli ballare Pietr, il falegname, li costruiva con una gamba in più, così che le persone ne avessero una da sbocconcellare a piacimento di tanto in tanto. Col tempo i tavoli a cinque gambe furono considerati una specialità del luogo e divennero famosi, tanto da essere protetti dal marchio DO. La P non compariva perché se l’erano mangiata subito.
Questo modo di combattere la fame aveva radici che affondavano in un passato molto lontano. Lo avevano sempre fatto, già ai tempi dei bisnonn dei loro bisnonn e nessuno si ricordava più quando o chi avesse iniziato. Un giorno un  giornalista di un quotidiano famoso era venuto dalla città per ricostruirne la storia e vincere il premio Pulitzer, ma non c’era riuscito. Quando gli aprirono l’archivio comunale scoprì che era stato mangiato, questa volta non dalle persone, ma dai topi senza coda che vivevano nel seminterrato. Il giornalista rimase stupito e tutti si interrogarono su che razza di topi fossero i topi senza coda, ma quando videro che l’archivista era molto grasso, se ne andarono senza fare altre domande.
Il paese di Martìn, che tutti chiamavano semplicemente Il Paés perché anche lì avevano mangiato la finale, era molto carino e caratteristico. Era fatto di pietra rosicata e travi di legno antico marchiate a colpi di morso, ma i turisti non lo frequentavano più da quando l’oste dell’unica locanda aveva rosicchiato le unghie a un signore tedesco mentre dormiva. Ne nacque un caso che andò persino sui giornali e quando al processo l’oste salì sul banco degli imputati, si difese con fierezza asserendo: “Che problema c’è, tanto le aveva lunghe!”
Se la cavò con una reprimenda da parte del giudice e la condanna a pagare le spese di una manicure all’ospite tedesco, che lasciò l’aula tutto impettito giurando ad alta voce che mai e poi mai si sarebbe mangiato ancora le unghie, dopo che le aveva assaggiate uno sconosciuto. La pace venne ristabilita, ma la voce era girata e Il Paès rimase da solo con i suoi abitanti. Nessuno aveva voglia di visitarlo e correre il rischio di vedersi succhiare le stringhe. Neanche la Polizia ci andava volentieri. Una volta era stata chiamata una volante per sedare una rissa scoppiata tra tre contadin un po’ ubriachi che si contendevano la punta del corno di un capròn (e come dar loro torto, lo sapevano tutti che è una vera prelibatezza!). Gli sbirri entrarono nella locanda e fecero il loro dovere calmando gli animi, ma quando uscirono trovarono una sorpresa ad aspettarli: il lampeggiante blu era diventato bianco. Dei ragazzini insolenti avevano leccato tutto il colore, mentre la A di POLIZIA scritta sul fianco dell’auto era sparita. Più tardi vennero a sapere che era finita sulla tavola del sarto che, siccome era scritta in grande, ci aveva fatto la cena con i suoi due figliol, ma ormai era troppo tardi. La prova era stata mangiata e non poterono arrestarlo.

Martìn di lavoro portava le pecore al pascolo. Era un lavoro modesto, ma dignitoso, che gli consentiva di sentirsi inserito nella società de Il Paés. Certo, pascolare le capre, per i motivi che abbiamo visto prima, era molto più ambito, ma Martìn era giovane e non si poteva lamentare.
Prendeva le bestie e le portava a passeggiare sui prati in quota. Oltre a quello non aveva molto altro da fare. A tenere il gregge unito ci pensava Medoc, il cane bianco e nero. Medoc si chiamava proprio così, senza la vocale finale, che nessuno poteva mangiare perché non c’era. Correva avanti e indietro e non si stancava mai. Era un cane molto furbo e molto veloce, e proprio per questo era anche integro: una rarità a Il Paés. Non gli mancava neanche un peletto. Proprio perché correva tanto, nessuno era mai riuscito a raggiungerlo per assaggiarlo e dopo tanti tentativi caduti nel vuoto, alla fine i paesani si stancarono e decisero di nominarlo “Patrimonio Canino de Il Paés” e non cercarono più di prenderlo. Ma Medoc era un cane molto furbo e molto diffidente. Continuò a non farsi prendere e a correre, dietro le pecore e in barba a tutti gli appetiti.
Sui monti le giornate erano lunghe, le ore non passavano mai e Martìn non sapeva cosa fare per non annoiarsi. Aveva provato a contare le pecore del gregge, ma erano tante e ogni volta si addormentava prima di finire. Un amico un po’ saccente gli suggerì di guardare il problema in maniera positiva: se non aveva niente da fare oltre che accompagnare le pecore, allora aveva tanto tempo per pensare.
Che bella idea, pensò Martìn, e la mise subito in atto. Appena tornò in altura, pensò alla casa, pensò alla mamma, pensò alle cime dei monti, pensò ai calzini che a furia di usarli si erano bucati sugli alluci. La cosa funzionò, ma alla fine della prima giornata Martìn non sapeva più a cosa pensare. Aveva finito gli argomenti ed era punto e a capo. Era un bel problema. E adesso, cosa faccio? Si chiese sconsolato.
Tornato in paese si rifugiò nella locanda. Per tirarsi su il morale si bevve un goccetto di vino rosso, ma non funzionò anzi, al terzo bicchiere era ancora più avvilito di prima.
Il maestro Ubald era una personalità importante. Era la persona più colta di tutto Il Paés ed era molto rispettato. Faceva il maestro alla scuola elementare Gino Bartali, nominata così in onore del grande ciclista che tanti anni prima era passato da quelle parti con una tappa del Giro d’Italia e, mentre aspettava gli inseguitori, si era fermato al bar e già che c’era aveva offerto da bere a tutti.
Era grazie al maestro se a Il Paés c’era ancora una scuola elementare. Tanti anni prima, siccome i bambini erano pochi, il Provveditorato agli Studi aveva pensato di chiuderla e risparmiare sulle spese. La notizia seminò lo sconcerto, ma il maestro Ubald non si perse d’animo. Di buon mattino inforcò la sua bicicletta, che qualcuno racconta gliela avesse regalata Gino Bartali in persona, e scese a valle. Una volta entrato nell’ufficio del Provveditore diede sfoggio a tutta la sua eloquenza oratoria e illustrò puntigliosamente i benefici del mantenere la scuola elementare de Il Paés aperta. Quanto sarebbe costato uno scuolabus per portare i bambini a studiare a valle? Quanto sarebbe costato lo stipendio dell’autista dello scuolabus? E quanto avrebbe speso il Provveditorato in benzina? E le catene da mettere nei periodi invernali, dove le mettiamo?
Il Provveditore era deciso a chiudere, ma quando il maestro Ubald superò la sesta ora di perorazione senza dare segni di cedimento ebbe paura. Se quel maestro avesse continuato a parlare ancora, non sarebbe rientrato a casa in tempo e le lasagne di sua moglie che lo aspettavano per cena si sarebbero raffreddate troppo e a lui, se c’era una cosa che proprio non gli piaceva, erano le lasagne riscaldate. Così alla fine capitolò. La scuola elementare era salva, alla condizione che il maestro Ubald, con un solo stipendio, coprisse anche la funzione di preside e di bidello, e che a comprare i cancellini e i gessetti ci avrebbe pensato lui.
Quando lo videro pedalare di ritorno su per la salita, tutti gli abitanti de Il Paés si riversarono in massa in piazza. Madido di sudore, il maestro Ubald venne acclamato dalla folla e accolto come un vincitore. Volarono pacche sulle spalle. Intonarono cori di montagna. Le campane delle mucche suonarono a festa. L’oste, preso dall’euforia, si fece sfuggire un “Oggi offro io!”. Poi ci ripensò e provò a far finta di niente, ma ormai era tardi e tutti erano già corsi al bancone col bicchiere in mano. Il sindaco, per far vedere che anche le istituzioni partecipavano alla gioia generale, dichiarò che quel giorno sarebbe entrato nei calendari de Il Paés come la “Festività Ubaldina”, da celebrare ogni anno a memoria della grande impresa.
A chi gli chiese se se la sarebbe sentita di rifarlo, il maestro Ubald rispose deciso.
– Col cavolo, la strada per venire su in bicicletta è troppo ripida. Mica sono Bartali, io! –
Quando il maestro Ubald entrò nella locanda vide Martìn seduto in un angolo con un bicchiere di rosso in una mano e una faccia che più triste non si poteva appoggiata sull’altra. Come tutti i giovanotti de Il Paés, anche Martìn da bambino era stato un suo allievo e il maestro sentiva di avere ancora qualche responsabilità nei suoi confronti. In fondo lo aveva avviato alla vita e non poteva non aiutarlo ora che aveva delle difficoltà, così gli mise una mano sulla spalla e si informò sulla situazione.
– Sembri un cane bastonato, Martìn, c’è qualcosa che non va? – gli domandò.
Martìn si risvegliò dai fumi del vino e fu ben felice di rispondere. Con molte parole e molta confusione di frasi spiegò al dettaglio il pesante cruccio che lo affliggeva. Quando ebbe finito il maestro Ubald annuì con un’espressione corrucciata.
– Quindi il tuo problema è che non sai cosa fare mentre pascoli le pecore? –
– Sì – rispose Martìn.
– Ah, ma se è così, il problema è di facile risoluzione! – esclamò il maestro.
Martìn non capì. Come poteva essere “di facile risoluzione” un problema tanto complesso? Lui ci aveva pensato e ripensato per tanto tempo e non era venuto a capo di niente, ma il maestro Ubald era il maestro Ubald e da lui ci si poteva aspettare di tutto.
– Vieni con me, ti voglio dare una cosa. –
Il maestro condusse Martìn fuori della locanda. Attraversarono il paese e arrivarono davanti al portone della scuola elementare. Lì il maestro, che era anche il bidello, tirò fuori dalle tasche un grosso mazzo di chiavi e, come faceva ogni mattina nel periodo scolastico, lo aprì.
La scuola era piccina, quattro stanze in tutto. Siccome i bambini de Il Paés erano pochi e il maestro era uno, non c’era bisogno di tanto spazio. La camera più grande era adibita ad aula. Era stata organizzata con una lavagna e cinque file di banchi. Cinque come le classi delle elementari. Per le lezioni il maestro Ubald aveva un metodo: a ogni classe, che aveva da zero a mai più di tre bambini, faceva un quarto d’ora di spiegazione, poi assegnava dei compiti e si spostava davanti alla fila successiva. Continuava così, mattina dopo mattina, in maniera efficiente, per tutto l’anno scolastico.
La stanza adiacente era la più piccola ed era il ripostiglio, dove c’erano gli scopettoni, i registri, il camice da lavoro e tutto il materiale scolastico. La porta dopo era il gabinetto e l’ultima era la stanza con gli scaffali. Quella era la biblioteca della scuola. I libri di quella stanza erano gli unici in tutto il paese a essere intonsi. Per evitare che venissero rovinati, il maestro Ubald aveva fatto assoluto divieto di smangiucchiare anche un solo pezzetto di una pagina o di una copertina ed era molto severo nel far rispettare questa regola. La cultura va preservata.
– Vediamo, dove l’avrò messo... ah, eccolo qui. –
Il maestro Ubald prese un libro colorato e lo passò a Martìn.
– Ecco, qui troverai la risposta al tuo problema. –
Il libro si intitolava “L’incredibile allievo di Cimabu” (Il divieto del maestro non era stato molto seguito nel tempo).
Martìn lo ringraziò profusamente. Promise che avrebbe custodito quel libro con la massima cura e subito se lo infilò sotto la camicia. Non voleva farlo vedere ad anima viva. Per strada sarebbe stato difficile spiegare che quello non si poteva assaggiare e, proteggendo il suo tesoro come una mamma avrebbe protetto il proprio bambino, uscì dalla scuola e si rifugiò dentro casa.
Mise il libro nascosto dentro una borsa, che chiuse dentro un cassetto, che era all’interno di un armadio e non lo tirò fuori finché non fu di ritorno in altura, al pascolo con le pecore. Sui monti Martìn, circondato solo da Medoc, dagli animali e da qualche marmotta, si sentì finalmente al riparo dagli sguardi indiscreti e espose il libro alla luce del sole per consultarlo.
“L’incredibile allievo di Cimabu” era molto bello. Aveva un sacco di figure e parlava di un certo Giotto, che faceva il pastore anche lui e anche lui si annoiava. Per trascorrere il tempo, mentre aspettava che le pecore facessero gli affari loro, aveva preso carta e carboncino e aveva incominciato a disegnare. Passò di lì un certo Cimabu, un pittore molto famoso dell’epoca. Forse era andato a fare un giro per i monti alla ricerca di ispirazione per qualcosa da dipingere. I più maligni dissero che era uscito di casa per stare lontano dalle chiacchiere della suocera, fatto sta che notò quel pastorello in mezzo al prato che disegnava e si avvicinò per curiosare.
– Disegni molto bene, per essere un pastorello. Vuoi diventare mio allievo? – chiese Cimabu.
–  Certo.– rispose Giotto e senza dire altro, si alzò, lasciò le pecore al cane e con il suo nuovo maestro se ne tornò in città.
Giotto non era di molte parole, ma anche lui divenne ben presto un grande pittore. Fece tanti bellissimi quadri e affrescò tante cappelle, ma quello che lo rese molto famoso era la sua capacità di disegnare forme geometriche perfette a mano libera, tanto che la gente faceva la fila per poter avere un cerchio fatto da lui. Ma anche se era un quadrato, un triangolo o un esagono erano contenti lo stesso.
Ma certo, si disse Martìn, il maestro Ubald aveva proprio ragione! Ora sapeva cosa fare nelle lunghe giornate spese sui monti. Ritornato in paese si procurò un album da disegno bello grande, dei carboncini e, siccome era ignorante, ma sapeva di non sapere, prese anche un libro di geometria.
Ritornato sui pascoli Martìn diede a Medoc un bocconcino omaggio per ringraziarlo del lavoro extra che lo attendeva e si sedette ai piedi di un alberello. Il sole era caldo e le pecore erano tranquille. Martìn prese il libro e lo sfogliò per trovare la figura geometrica più adatta per iniziare a disegnare.
Un cerchio? Un quadrato? Un esagono? E perché non addirittura un eptagono, che c’ha un nome così strano che a dirlo ci si incespica con la lingua? Aveva l’imbarazzo della scelta e non sapeva cosa scegliere, ma Martìn era un ragazzo pratico e la logica gli diceva che se una figura aveva tanti lati allora era più difficile da disegnare, per cui, come ogni bravo studente, doveva partire dalla cosa più semplice: quella che aveva meno lati. Il quadrato ne aveva quattro, il triangolo tre, il cerchio uno, quindi era la figura più semplice di tutte. Bene, decise Martìn, partirò da lui. Aprì l’album, resistette alla tentazione di assaggiare i carboncini e iniziò a disegnare.
In men che non si dica arrivò la sera e il prato tutto intorno a Martìn era cosparso di fogli disegnati. Cerchi storti, cerchi sbilenchi, cerchi ovali come appena usciti dal didietro di un’oca, cerchi ellissoidali come una palla da rugby. L’album era finito, ma Martìn non si era annoiato anzi, di rientro con le pecore non vedeva l’ora di tornare sui monti per riprendere a disegnare.
Il mattino dopo Martìn partì con la bisaccia piena di album e gli occhi gonfi. Aveva faticato a dormire per l’eccitazione e appena chiudeva gli occhi vedeva cerchi, cerchietti, cerchioni. Anche la sua mano non aveva riposato e per tutta la notte si era agitata nel sonno. Sognava di avere un carboncino tra le dita e girava, girava... Quando faceva quelli piccoli stava sospesa sopra le lenzuola, quando faceva quelli grandi non si fermava davanti a niente e aveva tirato giù la sveglia e la lampada dal comodino.
Ohibò, aveva pensato Martìn nel dormiveglia, non vedo l’ora di arrivare ai triangoli. Se continuo così distruggo casa.
Tornato in altura Martìn scelse un bel prato e chiamò il cane.
– Medoc, vieni qua! Devo parlarti. –
Medoc era un cane molto furbo e molto educato e gli rispose a modo.
– Uàf! – gli abbaiò, che voleva dire: dimmi, che c’è?
– Io ho altre cose da fare, Medoc. Per cui da oggi ti promuovo da cane pastore a pastore cane. Al gregge ci penserai tu e la tua paga sarà di quattro polpette in più. Ci stai? –
Medoc non ci mise molto a rispondere. Era un cane molto furbo e molto intelligente. Fece due conti e valutò che tanto al gregge già ci stava pensando tutto da solo e quattro polpette in più erano un bel aumento di paga, per cui accettò.
– Uàf! Uàf! – rispose.
– Bene, allora siamo d’accordo. –
Sistemate le questioni di lavoro, Martìn riprese a riempire fogli su fogli con cerchi sempre più perfetti. Per risparmiare carta aveva escogitato un modo ingegnoso e ne faceva uno dentro l’altro, o uno fuori l’altro a seconda di dove iniziava. Solo dopo scoprì che aveva inventato i cerchi concentrici, come diceva il libro. Allora, tutto contento della propria invenzione, inventò anche i cerchi olimpici e la catena di cerchi.
Quando di cerchi ne ebbe disegnati di tutte le salse, si sentì soddisfatto e passò diligentemente ai triangoli. Qui la faccenda si complicava e non di poco. Se di cerchi ce n’era uno solo, di triangoli ce n’erano di più. Isoscele, rettangolo, equilatero e persino uno tutto sbilenco che si chiamava scaleno. La geometria è un bel casino, pensò, ma più grande era la sfida, più impegno Martìn ci metteva e in capo alla fine dell’estate le pecore erano diventate grasse, il cane era felice e progettava di aprire delle succursali del suo gregge e Martìn era molto preoccupato. Ho finito tutte le figure del libro, compreso l’ennagono e il tridecagono, e adesso che faccio? La faccenda si prefigurava problematica. Se non trovava qualcos’altro da disegnare sarebbe ricaduto nella noia e, visto che la stagione dell’alpeggio era quasi terminata, il tempo da riempire diventava molto di più.
Il futuro davanti a Martìn era di nuovo grigio.

Il maestro Ubald aveva chiuso la scuola ed era molto soddisfatto. Le sue classi stavano andando bene. Ginett, la classe di prima, aveva scritto un’intera pagina di “elle” tremolanti senza sbagliare quaderno. Michelin, la classe di seconda, aveva imparato la tabellina del tre e non aveva incespicato neanche una volta e Andreìn, la classe di terza, aveva citato i sette re di Roma senza farli diventare dodici. Era il caso di festeggiare, si disse, e con il passo del buonumore trotterellò alla locanda. Il buonumore passò quando vide Martìn seduto al tavolo con un bicchiere di rosso davanti e una faccia che più triste non si poteva appoggiata alle due mani.
E adesso, cosa diavolo gli sarà successo, si chiese. Sospirò, ordinò un fernet e si sedette al tavolo con lui.
– Allora, cosa c’è questa volta? –
Martìn non si riprese dai fumi del vino rosso perché era talmente abbattuto che non ne aveva assaggiato neppure un goccio e fu ben felice di rispondere.
– Maestro Ubald, ho finito il libro. Ho finito le figure. Non so più cosa disegnare! –
– Perbacco, Martìn, tutto qui? – sbottò il maestro Ubald – Mi deludi. Non hai imparato proprio nulla da quello che ti ho insegnato? –
Martìn lo guardò senza capire.
– Maestro, lei mi ha insegnato a leggere e mi ha insegnato a scrivere. Poi sono scappato da scuola perché non avevo voglia di studiare. –
– Esatto! – esplose il maestro Ubald – Hai imparato le lettere per comporre le parole. Hai imparato le parole per comporre le frasi e poi hai imparato le frasi per comporre i pensierini da fare in classe. È questa la risposta! –
Le elementari come metafora della vita. Martìn non ci aveva mai pensato. Ma certo! Ora che aveva imparato a disegnare tutte le figure geometriche era arrivato il momento di metterle assieme!
Martìn balzò in piedi e ringraziò profusamente il suo antico maestro. Promise che avrebbe fatto tesoro del suo insegnamento e anche di quelli futuri, e si lanciò fuori della locanda. Doveva procurarsi subito della carta, tanta carta e tanti nuovi carboncini. Si chiuse in casa e si mise subito a disegnare.
Per una settimana nessuno in paese lo vide più e la cosa cominciò a dare sospetto. I pettegoli come potevano pettegolare se non avevano nulla da dire in giro? Dapprima si inventarono che era morto, ma il maestro Ubald, che era un’autorità, affermava che no, non era morto e a lui non si poteva dire che si sbagliava. Poi dissero che era stato rapito dagli alieni, ma gli alieni a Il Paés non si erano mai visti, qualcuno se lo sarebbe ricordato di aver assaggiato una navicella spaziale, per cui nessuno ci credette. Infine dissero che Martìn si era chiuso in casa per espiare qualche terribile peccato. Peccato che tutti conoscevano Martìn e sapevano bene che era un ragazzo buono e anche alla teoria del peccato non ci credette nessuno. Quindi rimaneva il mistero e tanta gente che lo voleva scoprire. La casa di Martìn divenne una sorvegliata speciale. Il vecchio trucco del bussare alla porta per consegnare delle finte raccomandate non aveva funzionato perché nessuno aveva risposto. I dirimpettai avevano comprato dei binocoli e si davano i turni per tenere d’occhio porte e finestre. Peppin, quello che metteva a posto le tegole, si era arrampicato sul tetto e aveva origliato dal buco del camino. Aveva sentito dei rumori e delle esclamazioni che non lasciavano presagire niente di buono. Era corso in locanda a raccontarlo ed era diventato la celebrità del momento, suscitando l’invidia e la curiosità dei compaesani. Tutti volevano sapere. I ragazzini più arditi si sfidarono a arrampicarsi su per il muro di pietra della casa di Martìn per spiarlo dalla finestra. I vecchi, che non potevano farlo, scuotevano la testa sostenendo che non era il modo di fare e che non c’era più l’educazione di una volta. Il paese era in fermento e siccome non riuscivano a cavare un ragno dal buco qualcuno invocò l’intervento delle autorità. Sentendosi tirato in causa, e cogliendo al volo l’occasione di fare bella figura presso i suoi elettori, il sindaco accolse di buon grado l’incarico e, in testa a tutti gli abitanti del paese, compresi gli infermi che per quell’occasione camminavano benissimo, bussò prepotentemente alla porta di Martìn.
– Apri Martìn, sono il sindaco! –
La gente dietro di lui annuì, ammirando la giusta aura di autorità dell’autorità. Ringalluzzito dall’approvazione, il sindaco non attese risposta e bussò una seconda e una terza volta. La gente rimase fortemente impressionata da quel gesto forte e fece commenti ancora più lusinghieri.
– Certo che il nostro sindaco è proprio un bravo sindaco! – disse Peppin ad alta voce per assicurarsi un posto in prima fila nell’opinione pubblica.
Il sindaco stava per bussare una quarta volta quando, con un coro di stupore generale, la porta di aprì.
– Scusate, non vi avevo sentito. Ero un po’... impegnato. –
Martìn era magro e scapigliato. A vederlo i sentimenti della folla si divisero in due. Le donne dissero: ussignùr, quel povero ragazzo sarà una settimana che non mangia! Gli uomini invece non dissero nulla. Benché anche loro colpiti dalla magrezza di Martìn, erano più interessati a sapere cosa stesse combinando tra le mura della sua casa. Il sindaco, interpretando il sentimento più degli uomini che delle donne, ruppe gli indugi e varcò la soglia, seguito da quanti più poterono.
– Figliolo, ci hai fatto preoccupare – disse – e a Il Paés noi ci preoccupiamo per i nostri compaesani. –
Di fronte a quelle belle parole, e alla mano del sindaco che lo metteva da parte, Martìn non potè fare altro che lasciarli invadere la casa.
– Non ti sei fatto vedere per tutta la settimana. Tutti dicevano che eri morto, qualcuno ha sentito dei lamenti e abbiamo pensato  che stessi male e... uh, ma questo cos’è? –
Dovunque, sulle pareti, sui mobili, sugli specchi, sulle ante della cucina c’erano fogli di carta e disegni di forme geometriche complesse. Eptagoni intrecciati con cerchi, quadrati e triangoli isosceli che si incastravano a loro volta con pentagoni che contenevano ellissi sempre più piccole e oblunghe. Figure strane che mettevano insieme la vista, ma che attiravano l’attenzione in una costruzione difficile da seguire.
– È il mio lavoro... – rispose timidamente Martìn.
– Sì, certo, molto interessante... – una volta tanto il sindaco non sapeva cosa dire. Si limitò come tutti a passare in rassegna le opere facendo la faccia di chi ci capisce qualcosa, mentre non ci capiva nulla. Erano disegni così complicati che ci si perdeva dentro però, in qualche maniera, erano anche belli. Non si riusciva a togliere lo sguardo da uno che subito veniva catturato da un altro.
– Bene, bene... – commentò il sindaco tenendosi sul vago – Ottimo lavoro. Ma non farci spaventare più. Fatti vedere in giro ogni tanto e mangia, ragazzo, che sei magro come un chiodo. –
Siccome la folla che si era accumulata davanti alla casa era tanta e tutti volevano vedere cosa aveva combinato Martìn, organizzarono dei turni. Già era girata la voce che il sindaco aveva decretato che i disegni erano belli, quindi nessuno si azzardò a criticarli. A gruppetti di dieci, più un accompagnatore, perlustrarono le stanze, ammirarono i disegni e uscirono senza dire una parola, ma con lo sguardo santificato di chi, anche senza comprenderla, era consapevole di essere entrato a contatto con l’Arte. Una volta fuori, le donne corsero a casa a preparare dei ravioli da dare a Martìn, che doveva mangiare qualche cosa povera stella, i bambini tutti eccitati si fermarono in piazza e giocarono a Mondo usando cerchi e pentagoni come caselle al posto dei quadrati, mentre gli uomini si rintanarono al bar con l’idea di bere un goccetto e discutere tra loro. Ma commentare quei disegni era difficile. Cosa si poteva dire su dei grovigli di cui non si capiva niente che però erano anche belli? La discussione perciò languiva. Bevevano e dicevano mah! Non sapevano cosa pensare, e rimasero così, senza pensare. Tutti però ebbero la strana sensazione che a Il Paés il livello culturale avesse fatto un balzo in avanti.

Il Paés era un paese di montagna, difficile da raggiungere e poco collegato, ma nonostante fosse molto isolato la voce che ci abitasse un artista che faceva delle figure geometriche complicatissime e splendide trapelò e si sparse velocemente per tutta la regione. I primi turisti, memori della triste nomea de Il Paés, arrivarono organizzati. Mentre il gruppo visitava la casa e i lavori di Martìn, uno di loro restava di piantone per difendere le auto e loro beni, senza permettere agli abitanti di assaggiare nemmeno uno spigolo di battistrada. Gli abitanti de Il Paés, dal canto loro, vedendo tutta quella roba buona e nuova da assaggiare, si facevano intorno con lo sguardo famelico e così si crearono non pochi momenti di tensione. La Polizia, che non voleva rimetterci di nuovo i lampeggianti, o ancor peggio la sirena, latitava e fece sapere di essere troppo occupata a dare la caccia a un taccheggiatore seriale del supermarket a fondo valle. Così, ancora una volta, a risolvere le questioni di ordine pubblico ci dovette pensare il sindaco che, radunata la popolazione in un’assemblea plenaria nella locanda, salì in piedi sul bancone e apostrofò i suoi elettori esponendo la sua grande idea.
Ora che il turismo stava tornando, ed era una grande opportunità di guadagno per tutti, dichiarò, non ci si poteva permettere di stroncarlo sul nascere per colpa delle tradizioni. D’altro canto, aggiunse, anche i turisti dovevano avere rispetto di quelle stesse usanze, che affondavano le radici nella notte dei tempi, per cui lui, come sindaco de Il Paés e legale rappresentante dei suoi compaesani, dichiarava l’attuazione immediata del Decreto Paesano n.1 che sanciva che ogni turista o gruppo di turisti aveva obbligo di portare e liberamente donare alla popolazione de Il Paés oggetti di vario tipo da sbocconcellare, mentre i suddetti abitanti si impegnavano formalmente e senza deroga alcuna ad assaggiare solo e unicamente i sopracitati oggetti. Insomma, per farla breve, i turisti erano tenuti a pagare una tassa d’ingresso per entrare e soggiornare in paese.
Gli abitanti de Il Paés esplosero in un’ovazione. Furono lanciati degli Evviva! dei Bravo! dei Grande Idea! Qualcuno, come era ormai tradizione, intonò dei cori di montagna e molti li seguirono con la mano sul cuore manco fossero l’inno nazionale. L’oste salì anche lui sul bancone e, preso dall’euforia generale, urlò un “Offro da bere a tutti!” e questa volta non se ne pentì. Tutti brindarono. Le bottiglie di rosso fecero pop! I bicchieri fecero din! Qualcuno propose di eleggere il sindaco a presidente e tutti lo acclamarono. Da chissà dove fecero arrivare la musica e uomini, donne e bambini si misero a ballare, col sindaco-presidente sul bancone in testa. Due cani, presi dall’eccitazione, giocarono alla cavallina.
Il Decreto Paesano n.1 venne accolto con favore anche dai turisti, che non solo ora si sentirono tranquilli di andare e venire e persino dormire a Il Paés, ma la tassa divenne anche lei parte dell’attrazione turistica e all’ingresso del paese, dove venivano classificati gli oggetti da libero assaggio, si scattavano foto e selfies assieme ai paesani nell’atto di mordere carte di credito scadute, golfini infeltriti, racchette da badminton che non usava nessuno e tutti sorridevano felici.
Il Paés aveva cambiato volto. Torme di turisti caciaroni si alternarono in una invasione di quello che le guide avevano prontamente eletto a “uno dei più bei borghi di montagna dell’anno” e Martìn era disperato. Da settimane non riusciva a riposare. Casa sua era percorsa avanti e indietro da nugoli di famiglie con bambini frignoni, da coppiette di innamorati che per baciarsi si infrattavano anche nell’armadio, da gite scolastiche fatte di ragazzini isterici che si lamentavano per lo scarso segnale che c’era in paese. Non si fermavano mai, neanche di notte. Gruppi di amici un po’ alticci bussavano alla sua porta e, prendendo Martìn per il custode, gli raccontavano la balla che erano venuti da lontanissimo per vedere le opere del grande artista Martìn de Il Paés. Pronunciavano il suo nome con l’accento spagnolo e lo supplicavano di farli entrare. Martìn, che aveva molto sonno, non aveva cuore di spiegare loro che uno, non era spagnolo, due, che quel tipo era lui e tre, che erano le tre del mattino e che avrebbe tanto gradito dormire. Alla fine, anche se in pigiama, si lasciava convincere e li faceva entrare.
Con un acuto tempismo e senso degli affari, Sandròn, il fattore che da anni non aveva più le vacche, lo avvicinò con una proposta. Visto che tanto da quando gli era morta la Rosìn, a cui era molto affezionato, non usava più la stalla, perché non trasformarla in un’area espositiva? Arredare e organizzare la mostra permanente sarebbe stato a carico suo, in cambio di un misero sessanta per cento degli introiti di sbigliettamento. Martìn, che aveva le occhiaie che gli toccavano per terra, non ci pensò due volte e accettò. Diede tutti i disegni a Sandròn e dormì per due giorni di fila.
Finalmente un po’ di pace. Non gli pareva vero di poter stare tranquillo dentro casa sua. Per giorni nessuno venne a disturbarlo e quando una mattina sentì bussare alla porta si chiese chi sarà. Forse qualche turista che non sapeva che i disegni erano stati spostati, pensò. Aprì la porta e si trovò di fronte Gentilin, vestito di tutto punto nei suoi abiti da secondo lavoro.
Gentilin faceva il ciabattino, ma siccome amava le divise, e in paese non c’erano né vigili né poliziotti, si era arruolato volontario nel Corpo Postale con l’incarico di consegnare le poche lettere che da fuori arrivavano in paese.
Si presentò alla porta di Martìn con un saluto militare a mano tesa sulla visiera del berretto. Ciao Gentilin, disse Martìn. Ciao Martìn, rispose Gentilin. Ti vedo bene, commentò Martìn. Non c’è male, confermò Gentilin.
Poi Gentilin raccontò che da quando era entrato in vigore il Decreto Paesano aveva messo su almeno un chilo e mezzo, che il lavoro come postino era aumentato, che stava pensando di rifare i freni alla bicicletta, che quello che stava mangiucchiando era l’angolo di una cartolina d’epoca che gli avevano regalato una coppia di simpatici signori sloveni e che ah, dimenticavo, c’è una lettera per te.
Martìn ringraziò molto, prese la lettera e salutò calorosamente Gentilin, il quale si dimenticò del gesto militare e lo salutò sventolando la mano.
Chissà chi mi scrive, pensò Martìn, non conosco nessuno. Speriamo non sia l’Agenzia delle Tasse. Ruppe la busta e dentro ci trovò dei fogli di carta intestata, tutti bordati da arabeschi neri che sembravano un annuncio funerario.


Egregio signor Martìn,

chi Le scrive è L’Alto Ministro della Premiata Setta Satanica Baphomet, la più blasonata e referenziata congrega del settore.
Siamo stati favorevolmente impressionati dalle voci che circolano in merito alle Sue incredibili doti artistico-geometriche e saremmo intenzionati a commissionarLe un importantissimo progetto per il quale la Nostra congrega attende da anni.
Trattasi di disegno geometrico di complessa fattura che richiede essere integralmente eseguito a mano libera e con l’uso esclusivo di pastelli rossi a base di sangue di maiale per due parti, sangue di gallina per una parte e sangue di capro per tre, che Noi saremmo lieti di fornirLe a breve. Tale composizione dovrà essere conforme al dettaglio, misura per misura, secondo le proporzioni, gli angoli di rotazione  e quant’altro, alle specifiche che qui di seguito Le alleghiamo.
Qualora l’Opera rispondesse effettivamente alle Nostre esigenze, saremmo intenzionati a devolverLe il lauto e considerevole riconoscimento economico di cui  Le indichiamo la cifra in nota a parte anch’essa in allegato.
Poiché abbiamo consultato l’Oracolo e già sappiamo che Lei accetterà, abbiamo sin d’ora stabilito che nella giornata di venerdì 13 prossimo venturo i Nostri Emissari passeranno presso la Sua onorata dimora per il ritiro dell’Opera.

Con rispettosi saluti

Firmato                                          

L’Alto Ministro della Premiata Setta Satanica Baphomet



Non era molto chiaro. Quanti erano L’Alto Ministro ecc. ecc.? La grammatica non era il suo forte, ma con il plurale e il singolare sembrava che ci fosse qualcosa che non andava. Boh, pensò Martìn. Scorse i fogli e diede un’occhiata alle specifiche in allegato. La forma che richiedevano era abbastanza complessa, ma non tanto. Consisteva di una grossa stella a cinque punte, dei cerchi concentrici e qui e là altre figure più piccole. Niente di troppo difficile. In compenso c’erano un sacco di altri simboli strani che non aveva mai visto e questo lo incuriosì. Gli venne voglia di disegnarli e prima ancora che arrivassero i pastelli della congrega, si mise a fare delle prove.
Qualunque cosa riguardasse Martìn non si poteva più tenere segreta e faceva notizia, e quella lettera non fu da meno. In locanda non si parlava d’altro. Mentre i bicchieri di rosso si sprecavano, l’oste faceva buoni affari correndo arzillo tra i tavoli per riempirli. Che quella gente di città avesse commissionato a uno di loro un lavoro importante faceva sentire gli abitanti de Il Paés al centro del mondo. Tutti erano allegri e festeggiavano. Solo Pietr, il falegname, era pensieroso. C’era un’idea che gli ronzava nella testa e che era più difficile da prendere della mosca che gli stava dando il tedio. Bzzz...bzzz... Poi, all’improvviso, diede una manata sul tavolo e paf! Afferrò sia l’idea che la mosca. Ma certo, come non averci pensato prima! Si alzò, pagò i suoi tre bicchieri di rosso e andò dritto dritto alla casa di Martìn. Lo trovò che si stava esercitando con un disegno bislacco che sembrava una matassa di filo arruvugliata dal gatto, con un segno di Zorro sopra.
Ciao Martìn, lo salutò. Ciao Pietr, rispose Martìn. È per il lavoro di quei tipi di città? gli chiese Pietr. Sì, proprio quello, confermò Martìn. Ma mangi, lo incalzò Pietr, lo sai che ci preoccupiamo. Mangio, mangio, sorrise Martìn. C’è qualcosa che posso fare per te, Pietr? Beh, una cosa ci sarebbe, hai un attimo di tempo?
Pietr e Martìn confabularono per una decina di minuti e alla fine Martìn disse:
– Se questo è il tuo problema, è di facile risoluzione! –
Prese dei fogli bianchi e con la mano che si muoveva veloce come un ratto fece molti schizzi, uno diverso dall’altro e li diede a Pietr.
– Ecco, se te ne servissero altri, non farti scrupolo a chiedermeli. –
Gli occhi di Pietr brillarono di gioia. Arrotolò tutti i fogli e, stringendoseli al petto come farebbe un bambino con il suo peluche, se ne uscì profondendosi in una moltitudine di ringraziamenti. A volte ci vuole così poco per rendere felice una persona, pensò Martìn, e tornò al suo lavoro.
La settimana seguente nella vetrina della bottega del falegname Pietr apparvero le sue nuove creazioni per l’interno. Gli innovativi esasgabelli pentagambali univano la tradizione de Il Paés con le più moderne tendenze dello styling d’arredamento. Le scalette scalene fornivano nuove prospettive asimmetriche per dare più vita e calore alla casa. Le librerie trapezioconiche, quelle che cambiavano dimensione adattandosi agli spazi a disposizione, erano però fatte su misura e solo su richiesta. Per non sprecare i lavori già costruiti, Pietr li espose con nuovi nomi e nuovi prezzi. I vecchi tavoli rettangolari furono ribattezzati da un giorno per l’altro tetragoni pentagambali, quelli ovali da thè furono eletti a ellissopiani monogambici e così via. Fu un successone. Sempre su ordinazione, a riproduzione di qualcuna delle opere più apprezzate di Martìn, si potevano eseguire incisioni o intarsi, disponibili in diverse essenze a kilometro 0.
Da cosa nacque cosa e in breve tempo chiunque fosse in grado di lavorare si inventò un’attività declinata alla geometria di Martìn. Terès, nonna di due bei nipotini lentigginosi che le facevano le consegne a domicilio, aprì nella piazza del municipio un chiosco di frittate triangolari. Quelle rettangole erano alla cipolla, quelle isoscele ai funghetti e quelle scalene all’ingrediente segreto, che manco a dirlo era l’anice stellata. Nonna Mariann, che da sempre era stata un po’ invidiosa della Terès, aprì dall’altro lato della piazza un banchetto di biscotti di pastafrolla, e approfittando del fatto che la sua nipotina era diventata grande e non usava più le formine per la sabbia, le prese lei per farli a due figure incastrate l’una dentro l’altra.
Gentilin in versione ciabattino espose alla sua vetrina un cartello invitante:

SI APPLICANO FIGURE GEOMETRICHE
IN CUOIO
A
SCARPE, GIACCONI, CAMICIE
e
ALTRI CAPI DI VESTIARIO

Dopo qualche giorno aggiunse:

ALLE MUTANDE E AI CALZINI
SOLO SE NUOVI

Alfons, il salumiere, si specializzò in corone di salsicce secche a forma geometrica.
– Due eptagoni di salsiccia fanno un chiloemmezzo... che faccio, signora, lascio? –
Da qui fece seguito un prosciutto cotto a forma di stella da mettere nei panini perfettamente tondi che chiamò pomposamente i pentasandwich di Alfons, la merenda ad angoli acuti.
Insomma, il paese era in fermento e faceva affari d’oro.

Dal canto suo Martìn era già immerso dal suo lavoro. Aveva appeso uno dei grandi fogli 2m x 2 che L’Alto Ministro ecc. ecc. gli aveva fornito e aveva appena terminato una prima prova del grande simbolo commissionato quando qualcuno bussò alla sua porta. Era il maestro Ubald, passato per sincerarsi della salute di quello che era diventato il suo scolaro preferito, Martìn.
Ciao Martìn, è un po’ che non ti vedo in giro e volevo sapere come stai, lo salutò il maestro. Grazie, sto bene. Mi fa piacere vederla, ricambiò Martìn, in effetti sono molto occupato. Questo disegno è più complesso di quello che pensavo. Oh, commentò il maestro, sono proprio curioso, posso vederlo? Ma certo, ci mancherebbe altro. Venga che glielo mostro.
Martìn lo portò in cucina, dove aveva liberato una parete e la aveva adibita a studio geometrico, e mostrò al maestro il grande disegno eseguito con i pastelli di sangue.
– Eccolo. È interessante, ma le confesso che non capisco che cosa è. –
– Oh-ho, figliolo, ma questo è un Pentagramma! –
– Un Pentagramma? Non lo avevo mai sentito. E a che cosa serve? –
– Ma è semplice. È una Porta per l’Inferno. – spiegò il maestro.
– Uhmm... – borbottò Martìn – Interessante. –
E tutti e due rimasero a contemplare il complesso simbolo infernale.
– Vuole una tazza di thè? – chiese Martìn.
– No, grazie, ho appena preso il mio fernet. – declinò il maestro.
– Bene, sei occupato e ti lascio lavorare. Fatti vedere in paese, Martìn, lo sai che dopo l’ultima volta stiamo in pensiero se non ti vediamo per troppo tempo. –
– La ringrazio maestro, ma non si preoccupi che sto bene. Ci vediamo in giro. –
Martìn accompagnò il maestro alla porta, lo salutò e tornò in cucina. Si piazzò di fronte alla sua prova di simbolo satanico e appoggiò una mano alla bocca.
– Una Porta per l’inferno... Interessante... –
Precisi come un orologio a cucù gli Emissari della congrega, il venerdì 13 del mese prossimo venturo, si presentarono alle porte del paese. Arrivarono a bordo di un’auto di grossa cilindrata americana. Non se n’era mai vista una così a Il Paés. Era tutta nera con i parafanghi cromati e i vetri affumicati. Due grosse corna di caprone erano state incollate sul cofano e un teschio anche lui cromato faceva da tappo al radiatore. Le maniglie delle portiere erano a forma di tibie e un rotolo di catena fungeva da coperchio per l’alloggiamento della ruota di scorta sul bagagliaio.
Vennero fermati al banchetto di ingresso al paese dall’Ufficiale Classificatore degli Oggetti di Libero Assaggio, un tale Carlett che prima lavorava come netturbino, ma poiché gli era venuta la sciatica e non poteva più tanto muoversi, e ad andare su e giù per le strade de Il Paés tirando il carretto della spazzatura con gli scopettoni e tutto non ce la faceva più, allora lo avevano messo lì, con tanto di tesserino comunale, per espletare le pratiche doganali come da disposizione del Decreto Paesano n1. L’Emissario seduto al posto del passeggero premette un pulsante e il finestrino affumicato si abbassò con un soffio appena percettibile. Attraverso degli occhiali scuri come la notte, ascoltò le richieste dell’Ufficiale Carlett e non si scompose. Con voce algida e sdegnosa gli rispose, scandendo piano le parole, che loro erano gli Emissari de L’Alto Ministro della Premiata Setta Satanica Baphomet e che gli Emissari de L’Alto Ministro della Premiata Setta Satanica Baphomet vanno dove vogliono, come vogliono, quando vogliono e soprattutto non pagano balzelli di sorta. Loro erano in missione per conto de L’Alto Ministro (e questa volta usò il nome abbreviato per far capire al villico quanto fosse intimo con lui) e non erano dei volgari turisti.
– Ma così non potrò applicarvi l’adesivo del pagamento effettuato sul parabrezza! – protestò Carlett. Sulle prime l’Emissario non capì, ma si riprese in fretta.
– Sa dove può attaccarselo quell’adesivo? – gli domandò e senza attendere la risposta fece un cenno all’Emissario al volante. Sgommarono via lasciando interdetto il povero Carlett che non gli era mai capitata una cosa simile.
Parcheggiarono rombando con una grossa sgasata davanti a casa di Martìn e scesero. Gli Emissari erano in quattro. Tre alti e uno grassottello. Avevano i capelli neri, le unghie nere, i vestiti neri. Insomma erano tutti neri, anche le occhiaie. Solo la pelle era bianco cadavere, che poverini un po’ di sole gli avrebbe fatto bene. Avevano un sacco di anelli e anche molti bracciali d’argento, Ma solo quello che aveva gli occhiali scuri portava un pendaglione a stella a cinque punte rovesciata. Probabilmente era quello il capo e voleva distinguersi. Senza dir niente i quattro si piazzarono di fronte all’ingresso e bussarono tre volte.
Martìn aprì e osservò quei tipi che parevano becchini venuti a prelevare la salma.
– Buongiorno, – disse – voi siete gli Emissari? –
Il capo dei quattro sorrise, ma solo intimamente. Finalmente uno educato che ci ha riconosciuto e ci porta il dovuto rispetto, pensò.
– Il signor Martìn? Siamo venuti a ritirare l’Opera. – annunciò senza tante cerimonie il capo becchino.
Martìn li condusse in cucina e loro si piazzarono in riga ad ammirare il grande simbolo rosso, il Pentagramma, la Porta per l’Inferno.
– Oh! – esclamò uno dei quattro.
– Ah! – fece un altro.
– Per Satan... – fece quello grassottello, ma fu zittito da un gesto imperioso del capo Emissario che si tolse gli occhiali e si chinò per esaminare da vicino il lavoro di Martìn.
– Uhmm... – fece, e poi ancora – Uhmm... –
I tre Emissari accompagnatori rimasero in silenzio. Anche se erano imperturbabili come delle guardie svizzere, ma nere, si capiva che stavano sulle spine e pendevano dalle labbra del loro capo. Il suo giudizio era insindacabile e avrebbe decretato la riuscita o meno della missione in quello stupido paesino di montagna da cui non vedevano l’ora di andarsene per tornare nella loro congrega in città.
– Perfetto! – annunciò il capo raddrizzandosi – Ha fatto un ottimo lavoro, signor Martìn. –
La tensione degli Emissari accompagnatori si sciolse e avrebbero voluto sorridere, darsi pacche sulle spalle, fare commenti e battute, ma l’etichetta da satanisti non glielo permise e restarono impalati.
Il capo fece un cenno e l’Emissario grassottello appoggiò sul tavolo una valigetta, che manco a dirlo era nera, e l’aprì. Era tutta piena di soldi.
– Questo è il riconoscimento economico per il suo eccellente lavoro, signor Martìn. Ovviamente è in nero. –
Il capo fece un altro cenno e i due Emissari, quelli alti, presero il foglio 2m x 2, lo arrotolarono e lo avvolsero in un vellutino funerario nero.
– Arrivederci, signor Martìn. Ha reso un gran servizio alla nostra congrega. –
Si misero in fila indiana, disegno in testa e capo Emissario in coda, e rigidi, compassati, con le facce serie come in una processione, lasciarono la casa.
Dovrebbero prendere un po’ di sole, pensò Martìn chiudendo la porta, li vedo un po’ pallidini.
L’aplomb cerimonioso degli Emissari scomparve quando videro la macchina.
I Figli di puttana! e i Bastardi! si sprecarono quando videro che la vernice nera era stata leccata via in più punti e anche le cromature avevano i segni scuri dell’abrasione. I Vigliacchi! volarono quando si resero conto che le corna di capro ornamentali sembravano essere state attaccate dalle termiti e che le punte erano sparite. I Brutti stronzi! fecero eco sino in piazza del municipio quando si accorsero che le maniglie a tibia erano ridotte a moncherini. Imbufaliti e scarmigliati montarono in auto ripromettendosi che mai e poi mai sarebbero tornati in un posto dimenticato dal Diavolo come quello. Accesero il motore e partirono in tutta fretta. Non fecero dieci metri che al rombo dei 271 Cavalli Vapore si accompagnò l’esplosione di uno degli pneumatici che era stato rosicchiato un po’ troppo e aveva ceduto.
– Che l’Angelo vi porti! – inveì l’Emissario capo sporgendo la testa fuori dal finestrino.
L’auto uscì zoppicando dal paese lasciando dietro di sé una scia di maledizioni infernali e fumo nero.
Dopo un istante di silenzio da una finestra aperta partì un rutto sonoro.
– Ops, pardòn! – qualcuno si scusò – Mangiato troppo! –
E fece bene a scusarsi, perché l’educazione è importante.

Ora che aveva terminato il disegno a pagamento, Martìn era già alle prese con un nuovo progetto. Aveva il cervello in ebollizione, ma sapeva che per metterlo in atto doveva saperne di più su molte cose e chi meglio del maestro Ubald poteva aiutarlo? Non chiuse neanche la porta di casa e si avviò verso la scuola elementare.
– Buongiorno, maestro. –
– Buongiorno, Martìn. – ricambiò il maestro – Se non ricordo male oggi era giorno di consegna. È andato tutto bene? –
– Tutto benone, grazie. –
– I signori della congrega erano contenti? – si informò.
– All’inizio sì, poi quando hanno visto l’auto un po’ meno. –
– Eeeh... – sospirò il maestro Ubald – sono i rischi che si corrono quando non si vuole pagare la tassa d’ingresso... –
La voce era girata.
– Maestro, sono alle prese con un nuovo progetto, ma mi mancano molte informazioni e pensavo che lei, visto che mi ha aiutato già per ben due volte, magari mi poteva aiutare anche adesso. –
– Ma certamente, mio caro. Cosa posso fare per te? –
– Vede maestro, stavo pensando che se i satanisti avevano un disegno che era la Porta per l’Inferno, allora io potrei disegnarne un altro che sia la Porta per il Paradiso. Cosa ne pensa? Mi può aiutare? –
– Ma certo che sì. Vieni dentro che ho giusto il libro che fa al caso tuo. – e lo condusse nella stanza biblioteca della scuola.
– Dunque... dove sarà finito? –
Il maestro Ubald scartabellò tra gli scaffali. Qui no, qui no, qui neanche... ah eccolo! E allungò a Martìn un bel volumone intitolato:

WILLIAM SHAKESPEARE
Tutti i sonetti

– Sulla Porta per il Paradiso non ho mai sentito nulla, ma sulla Strada che porta al Paradiso, sì: è la Poesia! –
– La Poesia? –
– Certo, lo sanno tutti! E quale miglior Poesia se non quella del Bardo? –
– Mi scusi maestro, ma... Qui c’è scritto che il libro è di questo William Shakespeare, non del signor Bardo... – protestò Martìn.
Il maestro Ubald sospirò. Ogni tanto anche il suo miglior allievo era duro come un tavolo del falegname Pietr.
– Il Bardo è il soprannome che gli hanno dato, un po’ come il Carlett, che dai tempi che faceva il netturbino lo chiamano Lo Scopettùn. –
Martìn si illuminò in volto.
– Ah, ora ho capito! –
Il maestro Ubald sorrise.
Il volumone era bello grosso e pieno di pagine. Metà di quelle, quelle a sinistra, erano scritte in una lingua che Martìn non conosceva (che il maestro Ubald aveva chiamato inglese) mentre le altre per fortuna le leggeva bene.
– Questo Bardo, che si chiamava William, per caso anche lui era originario de Il Paés? –
– No. – rispose il maestro – È che gli inglesi ogni tanto si dimenticano delle finali e si chiamano con dei nomi tronchi, come John, Matt, Fred... Non so perché. Forse vogliono solo risparmiare sulle vocali. Che ci vuoi fare, sono fatti così. –
– Che tipi strani. –
– Sì, – concordò il maestro – lo penso anch’io. Comunque leggilo. Sono sicuro che ti sarà molto utile. –
Martìn chiuse con un botto il volumone pieno di Poesia e se lo strinse al petto. Si profuse in mille ringraziamenti per il maestro che ancora una volta lo aveva aiutato e, contento come un bambino quando riceve un uovo di Pasqua, si avviò verso casa, ansioso di imparare tutto quello che c’era da sapere sulla Poesia.

Martìn si immerse nello studio. Lesse e rilesse, cercando di carpire i segreti di quella che, gli avevano detto, fosse la strada per il Paradiso, ma proprio quando le cose sembravano chiarirsi improvvisamente si arenò e si trovò bloccato in un punto morto da cui non riusciva a uscire. La Poesia aveva una Forma. Nell’introduzione del libro era spiegato chiaramente: si trattava di una cosa che veniva chiamata metrica, applicabile alla variabile che era la lingua utilizzata. La Poesia del Bardo, che era la migliore in circolazione, seguiva le regole del Pentametro Giambico. Fin qui tutto chiaro, pensò Martìn. Aveva molto a che fare con la geometria e capirlo non gli dava grandi problemi. Ogni sonetto era composto da versi e ogni verso era come una figura di quelle che disegnava lui. Era solo questione di capirne gli angoli, le traiettorie, i segmenti di cui erano composti e il gioco era fatto. Poi la Poesia aveva un Significato. E anche qui non era troppo difficile. Ogni parola ne aveva uno o poco più. Ogni parola messa assieme alle altre faceva una frase e anche questa ne aveva uno o poco più. Tutte le frasi, che alla fine componevano un sonetto, ne avevano uno anche loro, o poco più. Proprio come le figure geometriche complesse che aveva disegnato lui. Anche fin qui tutto bene, ma c’era una terza cosa che però non riusciva ad afferrare. Martìn sentiva che c’era, ma non era menzionata né nell’introduzione del libro né negli stessi sonetti e quindi non era spiegata. Però era lì. Sentiva che c’era, ma non si vedeva. Era un po’ dovunque, ma non era scritta. E Martìn si sbattezzava per trovarla. Perbacco, è come quando cerchi una parola che hai sulla punta della lingua, ma non ti viene, diceva, e più la cerchi, meno ti viene. È snervante.
Passarono i giorni, ma niente. Martìn era sempre fermo al palo. Allora decise di accantonare il problema per un po’ e di occuparsi di questioni più facili, tipo: come tradurre su carta la Forma della Poesia?
Pensa che ti ripensa alla fine ebbe l’idea. Devo inventare un poligono pentametrico, né più né meno, si disse. Ma come sarà?
La voce che Martìn si fosse impegolato in qualche nuova diavoleria corse veloce e la curiosità del paese ebbe un’altra impennata. Con la scusa di essere preoccupati per la sua salute gli abitanti fecero pellegrinaggio in casa sua, giusto per una sbirciatina indiscreta. Impararono presto a non bussare neanche, tanto Martìn era sempre alle prese con nuovi tentativi e li lasciava entrare e uscire a loro piacimento. Purtroppo, siccome non era mai soddisfatto dei risultati, era diventato anche molto scorbutico. Tollerava che venissero a trovarlo, ringraziava se gli portavano cibo o bevande per non farlo morire di fame, ma non rispondeva alle domande e non dava spiegazioni a nessuno. Non c’era modo di capire cosa stesse architettando. Dai e dai, alla fine l’interesse dei compaesani si affievolì. Martìn, trafelato che bestemmiava con suoi disegni, non faceva più notizia. Le visite cessarono e presero a considerarlo un po’ tocco. Solo qualche donna rimase con la briga compassionevole di portargli una zuppa di fagioli, che era buona da mangiare anche fredda.
Così Martìn, da genio della geometria, divenne il matto del paese e nessuno si sorprese quando lo videro gironzolare per le strade tutto spettinato che parlava da solo mentre scarabocchiava fogli su fogli.
La situazione era sfuggita di mano. Era tempo che il maestro Ubald la raddrizzasse. Martìn! lo chiamò con il tono che usava per riprendere uno scolaro indisciplinato, ti devo parlare! Uh? gli rispose Martìn come se si fosse ripreso da un sogno, maestro Ubald, che piacere. Piacere un corno, Martìn, si può sapere cosa stai combinando? Il maestro Ubald era veramente fuori di sé dalla rabbia. Perché? domandò Martìn, ho fatto qualcosa di male? Certo che sì, Martìn, a te stesso! Guarda come ti sei ridotto: sei sporco, magro, spettinato e puzzi anche un po’. Cosa hai intenzione di fare, Martìn?
Gli occhi di Martìn erano chiari e teneri come quelli di quelli di un agnellino.
– Sto cercando di capire la Poesia, maestro, come ha detto lei... –
La rabbia del maestro Ubald si sciolse all’istante e anche lui divenne tenero, ma come un papà.
– Sì, Martìn, ma non puoi farlo a discapito di te stesso. La Poesia non vuole che tu muoia o ti ammali per essere capita. La Poesia è Vita, non morte. –
– La Poesia è Vita... – ripeté Martìn – La Poesia è Vita... è un ottimo suggerimento, maestro. Grazie. –
– Sì, sì, va bene, però adesso vai a farti un bagno. Datti una lavata, una pettinata, chiedi alla Terès se ti lava i vestiti e cambiati. Prenditi una pausa. Le pause sono importanti. Se non ti riposi un po’ non avrai le energie per capire la Poesia. –
– Le pause sono importanti... sì, certo. Questo lo posso capire... –
Il maestro Ubald ebbe paura che il suo scolaro prediletto avesse perso il senno e lo riaccompagnò a casa.
– Ora vai e fai quello che ti ho detto. – gli disse arrivati sull’uscio – Passo nel pomeriggio per vedere come stai. –
– Sto bene, maestro, grazie… – ringraziò Martìn.
– Le pause sono importanti... – bofonchiò e scomparve in cucina.

Il maestro Ubald aveva ragione, come sempre. Martìn riprese a fare una vita regolare. Si vestiva, si lavava, si pettinava, mangiava e passeggiava per le vie del paese. Si faceva vedere, salutava gli amici, si fermava a chiacchierare... insomma, faceva le cose che facevano tutti. Si sentiva meglio, ma la sua testa era sempre fissa sul problema di trovare la figura perfetta del poligono pentametrico, la forma della Poesia, e la gente lo capiva. Forse perché aveva lo sguardo sognante di chi ha la testa tra le nuvole o forse perché non andava in giro senza un album da disegno sottobraccio su cui all’improvviso, come colto da qualche raptus di ispirazione, scarabocchiava qualcosa. Grazie a questa nuova vita sociale venne promosso dal rango di matto a quello di strambo del paese e divenne parte dell’arredamento comunale come il busto di Bartali davanti alla scuola elementare o la vecchia fontana dell’abbeveratoio in via della Stalla. Ma Martìn non se ne curava. L’unica cosa a cui si interessava era il suo problema: la combinazione perfetta tra Geometria e Poesia. La Porta del Paradiso.
Le cose erano allo stallo, così un bel giorno decise che forse doveva cambiare prospettiva. Passeggiare per le vie del paese non gli era servito a un granché e doveva trovare un nuovo punto di vista. Preparò uno zainetto con carboncini, carta da disegno, sandwiches, acqua, una coperta e andò sui monti, alla ricerca di una nuova ispirazione, un po’ come aveva fatto tanto tempo prima il grande pittore Cimabu. Se per lui aveva funzionato, magari funzionerà pure per me, pensò.
Ritornò tra i pascoli che non vedeva da un sacco di tempo. Era una bellissima giornata e c’era tanta erba verde per le pecore. Lassù incrociò Medoc. Era un po’ ingrassato dall’ultima volta che lo aveva visto, ma era sempre lui.
– Ciao Medoc! – lo salutò calorosamente – Che bello vederti. Come stai? –
– Uòff! Uòff! – gli rispose Medoc, che voleva dire: Io sto bene, grazie. Anch’io sono contento di vederti e mi fermerei volentieri a farmi fare qualche carezza da te, ma sono un po’ di fretta. Devo andare a controllare i miei cinque cani pastore sottoposti per vedere come se la cavano con le loro greggi. Magari la prossima volta mi fermo e mangiamo qualche polpetta assieme. Stammi bene Martìn!
Medoc era un cane molto furbo e molto impegnato.
Si divisero e ognuno proseguì per la sua strada. Medoc verso gli alpeggi alti e Martìn verso l’ombra di un alberello più in là.
Aveva fatto bene a tornare lassù. La testa era sgombra e si sentiva più a casa che a casa. Gli venne voglia di disegnare un po’. Voglia e non costrizione, di chi deve a tutti i costi risolvere un problema. Come in un salto nel tempo, sentì il piacere che aveva provato con i suoi primi disegni e questo lo rallegrò. Riempì diversi fogli poi prese un sandwich e lo mangiò. Aggiunse un sorso d’acqua e si reimmerse nel piacere del disegno.
– Sei molto bravo, per essere un pastorello. – gli disse la voce.
– Che cos’è? – chiese incuriosita.
Martìn si voltò. Alle sue spalle c’era una ragazza. Era un po’ meno alta di lui. Portava dei pantaloni alla zuava con la pettorina e delle pedule grigie. Aveva i capelli ondulati e castani, un bel sorriso e le guance e il naso rossi dal sole.
– Ciao. E tu chi sei? – le chiese Martìn.
– Mi chiamo Olga. E tu? –
– Martìn. Non sei di queste parti, vero? –
– No. – confermò lei.
– Sei della città? –
– No. Vengo da un paese vicino al mare. Mio padre fa il pescatore e mia madre la casalinga. –
– E cosa ci fai in mezzo ai monti? – si informò Martìn.
– Sto girando il mondo. Vado dove mi portano i miei piedi. – spiegò Olga.
Martìn annuì, come se avesse capito.
– Che cos’è? – ridomandò Olga.
– È uno studio per un poligono pentametrico. – rispose Martìn.
Ma perché tutti quelli strani capitano a me? sospirò Olga, però non mi sembra uno di quelli pericolosi e gli si sedette accanto.
Martìn le raccontò della sua passione per la geometria e che dopo tanto disegnare voleva trovare il modo di metterla insieme alla Poesia e creare La Porta del Paradiso.
Olga sospirò ancora. Per essere strano è proprio strano, però è carino e ha gli occhi sognanti.
Martìn le disse che era de Il Paés, un paese piccolo, ma con delle lunghe tradizioni.
Olga gli raccontò che anche il suo paese era piccolo, che aveva un porto e che l’unica tradizione era quella delle acciughe affumicate.
Martìn le raccontò dei personaggi de Il Paés. Del Carlett, del Pietr, del Gentilin...
Olga gli disse che anche da loro c’erano dei personaggi e gli parlò del Gino il Moretta, chiamato così perché alle quattro del mattino, prima di andare per mare, si beveva almeno cinque caffè alcolici, del Bepi il Morto, che era in grado di dormire col mare forza cinque senza svegliarsi, e del Francisco detto l’Airone, perché quando raccontava i pesci che aveva preso allargava le braccia come un uccello.
Martìn e Olga risero dei loro compaesani e chiacchierarono. Chiacchierarono e risero, e Martìn si dimenticò di disegnare. Poi, non seppe neppure lui il come o il perché, la baciò.
Lei diventò ancora più rossa delle scottature del sole e dopo un momento di imbarazzo tornarono a ridere.
Il tramonto si stava avvicinando. Medoc era sulla via del ritorno e li salutò.
– Uòff! – abbaiò.
– Sì Medoc, hai ragione. Adesso andiamo. –
Olga lo guardò interrogativa.
– Hai capito quello che ha detto? – lo scherzò.
– Certo. – rispose serio Martìn – Io e Medoc ci conosciamo da anni. –
– E che cosa ha detto? –
– Che fra un po’ farà buio e la notte fa ancora molto freddo. Per giunta c’è da stare attenti perché sono stati visti dei lupi nei dintorni e non sarebbe bello incontrarli di notte. –
– E tutto questo con un solo Uòff? –
– Sì. – annuì – Medoc è un cane molto furbo e molto conciso. –
– Comunque ha ragione. Dovremmo andare. – confermò lei.
Si alzarono e mano nella mano scesero a Il Paés.

Arrivarono che era quasi scuro e Martìn disse che voleva farle vedere il lavoro di cui si stava occupando. Va bene, disse lei e lui la portò in cucina. Mobili, quadri e altri ammennicoli erano stati accatastati di lato per far posto a un grande foglio 2m x 2, un avanzo della fornitura della Premiata Setta, sul quale c’era disegnato una complicatissima composizione geometrica.
– Forte! – esclamò Olga sinceramente colpita.
– Non lo so. – tentennò lui – So che sono vicino, ma gli manca qualcosa... –
– Se solo riuscissi a capire cosa… –
Lei lo guardò e percepì la sua tensione interiore. Che tipo strano, pensò.
Gli prese il viso tra le mani, lo baciò e fecero l’amore.
Alle 6.07 del mattino un raggio di sole entrò attraverso la fessura della persiana e proiettò una spaccatura luminosa sul pavimento della camera da letto. Martìn si alzò. Aveva gli occhi sbarrati.
– Che c’è? – chiese Olga ancora addormentata.
– Forse ho capito. – rispose lui e tutto nudo andò in cucina, strappò il foglio 2m x 2 dalla parete, ne mise uno nuovo e cominciò a disegnare furiosamente.
Olga lo raggiunse che erano le otto e mezza. Indossava una maglietta che aveva trovato in un cassetto, che era larga e su di lei sembrava una camicia da notte. Fece il caffè, trovò dei biscotti con una forma esagonale in un barattolo e ne prese due. Martìn era ancora intento con i suoi disegni e lei gli si fece accanto.
Lui la guardò e sorrise.
– Bene, sento di essere sulla strada giusta. –
Le prese il caffè dalle mani e ne bevve un po’. Poi appoggiò la tazzina nel lavello, riportò Olga di peso sul letto e rifecero l’amore.
Continuarono così. Facevano l’amore e disegnava. Disegnava e facevano l’amore.
Per una settimana non uscirono di casa. Poi un bel mattino lui la chiamò.
– Olga! –
Lei scese dal letto, lo raggiunse in cucina e lo cinse con le braccia.
– Ce l’ho fatta. – annunciò Martìn – La Porta del Paradiso. –
Lei guardò e sorrise.
Da allora nessuno vide più né Olga né Martin.

Sono passati due anni e la casa di Martìn è diventata un museo monotematico dedicato all’Opera Ultima del grande artista geometrico Martìn de Il Paés. Turisti e estimatori vengono da ogni dove, fanno la fila e entrano a gruppi di dieci, con un accompagnatore, per ammirare il Grande Disegno, quello intitolato in maniera autografa La Porta del Paradiso.
Quella mattina tra i visitatori c’era anche Giacomino. Giacomino era un bambino indisponente che della geometria e tantomeno dell’arte non gliene fregava niente. Era stato costretto a lasciare i videogiochi per fare chilometri di curve in salita e arrivare in quel paesino di m. (cioè di montagna) in mezzo al nulla, dove non c’era segnale, ma era pieno di gente che faceva Aah! oppure Oooh! davanti ai pastrocchi di un pastore di m. (sempre di montagna). Quando papà e mamma entrarono nella casa-museo e si misero in contemplazione dell’Opera Ultima, proprio non riuscì a trattenersi e esplose ad alta voce con un commento ironico e molto poco lusinghiero.
– Ohibò! Ma quella roba sembra il disegno di una grandissima fic… –
Non finì la parola che erano volati due scapaccioni, uno per orecchio.
– Comportati a modo, ragazzino! E vai a studiare! Che se ti impegni, e tanto, forse un giorno sarai degno di indossare uno dei due calzetti del Maestro! –
E tutti i presenti guardarono Giacomino in cagnesco.

Dall’occhio destro del maestro Ubald, che era lì dietro e aveva seguito tutta la scena, scese una lacrima d’orgoglio. Si era reso conto di aver coronato il sogno di una vita. Un suo scolaro era stato chiamato Maestro.
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