Patrizia Birtolo
AUTORI 2024
Patrizia Birtolo
Nata a Mendrisio, residente a Giussano. Laureata in lingue, insegna nella scuola primaria.
Nel 2006 pubblica il primo racconto per CUT UP Edizioni.
Partecipa da tempo a concorsi di narrativa riportando apprezzabili riscontri e risultando selezionata per svariate antologie collettive.
Nel 2012 esce “Qualcosa di rosso” per le Edizioni Montag.
La raccolta vince la sezione narrativa breve al premio “Residenze Gregoriane” nel febbraio 2021.
Nell’agosto dello stesso anno pubblica il romanzo “Cime (di rapa) tempestose” con la CIESSE Edizioni.
PRIMOCLASSIFICATO
"Isole della laguna" -Narrativa-
-Di vita in vita-
-Di vita in vita-
“Isole della laguna”
Narrativa
DI VITA IN VITA
Negli ultimi istanti, con l’irreparabile a pochi battiti di ciglia, d’un tratto ci si accorge se si sia sprecata l’esistenza o portata a termine la missione per cui ci siamo incarnati.
Ebbi una vita tutta per me, un tempo, e la dissipai da incosciente.
L’aver sprecato simile occasione non mi dà requie.
Andò così. Abitavo in quel tempo nel sestiere di Cannaregio, ero giovane allora. Ero giunto, in fuga con la mia famiglia, dalla Renania. Eravamo sfuggiti a un pogrom.
Venezia al nostro arrivo ci accolse con la stessa svagata curiosità della donna affaccendata che ti dedica un paio di occhiate di divertito interesse mentre è presa dagli affari suoi. Mio padre invece distoglieva lo sguardo dalla gente, dalle donne soprattutto, e mi copriva la visuale con la mano, come fossi un cavallo cui mettere il paraocchi.
Mi copriva gli occhi anche quando passavamo vicino alla fonderia. Questa sorgeva proprio vicino all’insediamento della nostra gente, e l’una passò il proprio nome all’altro: per comodità d’intesa e una certa spicceria dei modi presero entrambi ad esser chiamati geto dagli abitanti del posto.
La scusa addotta da mio padre per filtrare tra le sue mani il mondo da mostrarmi era quella di proteggermi la vista: là si gettavano i metalli nel fondaco e il bagliore incandescente sprigionato dalla fucina mi attirava con potenza fatale.
Un giorno, avrò avuto quindici o sedici anni, gli dissi senza mezzi termini che volevo lavorare al geto, ché se proprio dovevo rovinarmi gli occhi preferivo farlo sudando in fonderia piuttosto che consumarli sforzandomi di leggere a lume di candela i rotoli della Torah. Gli dissi anche che detestavo i miei vestiti lugubri, che amavo il colore e lo volevo addosso. Lui sbiancò, poi arrossì, poi cercò d’assumere un’aria di superiorità indifferente, come sempre faceva quando si trovava impegnato nel dover fronteggiare qualcosa di nuovo, di diverso, una qualche idea che deragliasse dal binario sicuro della tradizione.
Mi disse che ero uno stolto, che non avevo idea della fatica che mi attendeva, che i veneziani comunque non mi avrebbero mai voluto a lavorare in mezzo a loro sapendo già chi fossi e di dove venissi. Mi chiese se sapessi a cosa serviva la fonderia.
Io gli risposi che serviva a colare il metallo.
«Metallo per le armi» aggiunse gravemente, come mi stesse rivelando una novità inaudita.
Io lo sapevo che era per le armi, e mi vergognavo ad ammetterlo davanti a lui, ma avevo una tale voglia disperata di andarmene da quelle calli anguste, che avrei accettato anche un patto con il diavolo.
Scorse la mia impazienza, capì che mordevo il freno, e attaccò un discorso strano, davvero insolito per lui, su una manciata di isolette poco lontane da Venezia.
Una di queste la chiamava l’isola di vetro, o l’isola del vetro. Diceva che lì, a Sacca Mattia o a San Donato, di fornaci ne potevo trovare quante ne volevo. Il lavoro non era pesante, non quanto quello in fonderia perlomeno. Là potevo dar vita a oggetti di vetro colorato, potevo trasformare tutti i grilli che avevo per la testa in arte. Avrei iniziato come serventino, poi servente, poi chissà, con un po’ di fortuna…
Che non mi facessi illusioni, però, i mastri vetrai erano obbligati a vivere sull’isola e non potevano lasciare Venezia senza un permesso speciale. Era come passare da una prigionia a un’altra, ma a quella età non facevo programmi a lungo termine, e anche una voliera confronto a una gabbia mi pareva già uno spazio sconfinato. E poi l’arte, il vetro, i colori… Mio padre diceva che alcuni nostri cugini vivevano in Olanda e intagliavano pietre preziose. Vivevano come veri signori, non come noi che dovevamo arrabattarci con la strazzeria, il commercio di carabattole usate.
Un giorno tra gli stracci che maneggiavamo nell’oscura botteguccia di Cannaregio apparve, luminoso come una buona notizia inattesa, un drappo azzurro, di gran pregio. Mio padre sbarrò gli occhi a quel colpo di fortuna, e subito mi spedì con la pezza da un certo suo conoscente, dicendomi di chiedere del vecchio Simcha, presso la locanda recante l’insegna della “Volpe d’oro”.
Filai di corsa e, dopo aver zigzagato tra calli e campielli con la stoffa trattenuta sotto la giubba, mi ritrovai nel cortile antistante la locanda. Un gallo nero becchettava nello spiazzo, lo scansai con una pedata e mi infilai nel tugurio dove un vecchio, seduto dando le spalle al muro, spiccava contro la parete come un monarca assiso in trono. I capelli d’argento gli facevano corona intorno al capo e rischiaravano la tetraggine di quel luogo sporco, sinistro. Il vecchio Simcha pareva aspettare la mia venuta da sempre. Alzò lo sguardo dal piano del tavolaccio sghembo e lo conficcò su di me. Mi fece un cenno impercettibile col mento, e io andai a sedermi di fronte a lui. L’oste con fare solerte si avvicinò al nostro tavolo, ed io a malincuore pensai che non avevo denaro con me per ordinare qualcosa, ma Simcha mi precedette e sussurrò all’orecchio dell’oste un paio di parole. Quello tornò poco più tardi con un piatto di cugoli e del salame d’oca già tagliato a fette. Mentre l’oste poggiava due boccali di peltro sul tavolo scorsi sul suo braccio peloso, sbucato dalla manica di una camicia arrotolata fino al gomito, un tatuaggio. Le vene gonfie di una mano forte che in quell’istante premeva poggiando sul ripiano del tavolo guizzarono sottopelle. Il tatuaggio, una serpe verde, parve muoversi di vita propria stritolando fra le sue spire una figura umana.
Breve fu il discorso di Simcha, e il suo eloquio grave quanto conciso. Più che un discorso mi sembrò di leggere un’iscrizione oscura, ma qualcosa, nel suo sguardo, seccava la gola e toglieva la voglia di porre qualsiasi domanda di chiarimento. Disse che il drappo celeste, la volpe d’oro, il gallo visto nel cortile e la serpe erano tutti segni. Mi disse anche che rappresentavano lo stemma di Murano e che era giunto per me il momento di partire alla volta di quel luogo. Mi assicurò che avrei vissuto molte avventure inusitate, che avrei condotto la mia esistenza cercando l’espressione nel colore, e mi raccomandò di seguirlo sempre.
Segui il colore, cerca l’arte: vivrai tanto a lungo quanto non avresti mai neppure potuto immaginare. Questo mi disse. Io gli chiesi dell’Olanda: quel nome già di suo era il compendio di tutto quanto d’avventuroso mi riuscisse di fantasticare, e lui sorrise, senza dolcezza né allegria, e mi disse che l’avrei vista, molte volte. E che sarei tornato a Venezia, ancora e ancora. Che avrei avuto donne, denari, e fama.
Ero euforico, eppure qualcosa nello sguardo del vecchio Simcha mi tratteneva. Prima della mia ultima domanda, che bloccò con un gesto deciso della mano alzata a mezz’aria, aggiunse solo che tutto nella vita ha un prezzo, quello che avrei pagato io al destino era il dover dividere sempre la mia parte con qualcun altro. Disse però anche questo: mai, mai mi sarebbe toccata la sensazione d’aver vissuto invano.
Gli risposi che stava bene così: è l’avarizia la radice di tutti i mali. A conferma delle mie parole mi pagò bene per il drappo, ed io mi congedai.
Nell’allontanarmi dal cortile della locanda mi cadde l’occhio su un ceppo poco distante l’entrata.
La mannaia era conficcata nel tronco, e la testa del gallo nero, adagiata accanto, stillava ancora sangue, denso e scuro.
Fu così, forte del discorso di mio padre e di quello di Simcha, che di lì a poco mi decisi. Venne la notte che, stufo di starmene confinato nel ghetto, sfidai i custodi cristiani che percorrevano in barca i canali circostanti.
Morii annegato.
Da allora non ho più avuto un corpo, mi sono contentato di simulacri di carne che mi condannavano a essere fittavolo anziché padrone.
Coabitare un corpo, dividerlo con un’altra anima, è contendersi un territorio. Ogni tanto occorre avanzare, ogni tanto ritirarsi. Forzare la resa no. Sgattaiolare semmai nei corpi scelti, spudorato come l’amante che torna dopo lungo silenzio, troppo sicuro di sé, certo di trovare perdono e un indulgente benvenuto. Da ospite a occupante abusivo, poi, c’è solo un labile margine di condiscendenza da estorcere.
La prima vita l’agguantai proprio a Venezia, là dove mi ero rifugiato e morto, prima di quella che credevo sarebbe stata la mia ora. Il patto fu donare talento per ottenere un’esistenza mia.
Volli trasmettere il genio, il soffio dello spirito che non ero riuscito a imprimere al vetro, la fame di vita inespressa. Entrai in un giovane uomo di ventisei anni.
In cambio, ardevo d’esplorare il rosso.
Nella notte infelice della sortita dal ghetto, la morte in acqua, quell’abulica discesa a capofitto in liquide ombre fino a restar conficcato nella melma del fondale, mi privò del rosso del mio sangue sparso: prova inconfutabile d’essermi spinto oltre il ciglio del mondo, non solo oltre il cornicione che mi tradì, sgretolandosi.
Quel giovane ebbe in dono la mia ossessione per il rosso, lo celebrò in velluti cremisi, in broccati carminio, in drappi magenta, nel fulvo luccichio dei capelli, irresistibili, delle donne ritratte. Plasmò il colore con le dita, poté carezzare le seriche chiome femminili che in vita si negava almeno là, sulla tela. Dipinse fino alla vecchiaia, lo consumai.
Ma lui ci guadagnò: lo resi il pittore più famoso e ricco del suo tempo, fin quando non andai ad abbracciare altri destini.
Cinque anni prima della peste che afflisse Venezia nel ‘600 non c’era altro che mi potesse dare quel corpo. La morte già la conoscevo.
Non m’interessava esplorare ogni gradazione dell’agonia, ogni sfumatura del declino.
Mi impossessai di un altro corpo. La mia seconda vita fu nera, nera in tutti i sensi.
Maestro del nero mi definirono poi. Occorre stare attenti al nero, assorbe ogni colore, ogni emozione. Un gorgo che tira a fondo. Io assorbivo tutto ed esplodevo di violenza dirompente. Fu la prima e unica vita in cui uccisi.
Ebbi un destino rabbioso, di terrore e fughe, di problemi continui.
Dopo la condanna a morte – come non fossimo tutti condannati a morte: chi per legge, chi da un male, dal tempo o dal caso – capii che avevo fatto bene nell’esistenza precedente a non cedere alla tentazione d’amare. Non fu il gioco ma una donna la causa della rissa, fatale al mio nemico, in cui mi trascinò quel gorgo nero che mi batteva in petto.
Presi a dipingere teste mozzate, per esorcizzare la sentenza. Figure drammatiche si stagliavano dal nero, come emergevo io da tutto il nero fondo di una vita di tormento.
Il mio lavoro d’allora fu un’infinita lotta tra luce e buio, la mia esistenza pure.
Mi privai di ogni comprensione affettuosa per le debolezze umane, il cupo inverno sempre nello sguardo. Maestro del nero, dissero, senza sapere che era il nero a dominare me.
La morte per malattia rifuggita nel corpo precedente mi tallonava, con petulanza karmica.
Prima che le febbri mi cacciassero via da quel corpo riuscii a impadronirmi di un altro essere.
Il nero faticò ad abbandonarmi, finì per ottenebrare anche la nuova esistenza.
Quel buio, l’umbratile alone sinistro di persecuzione, il frullare corvino che mi aleggiava intorno si stemperò in un marrone denso. Il mio nuovo ospite lo sperimentò grazie alla terra di Cassel o terra di Colonia: un colore naturale composto di materia organica, suolo, torba. Non me lo so spiegare, l’attaccamento alla bruna concretezza del marrone, l’ansia che mi prese di radici e stabilità.
Forse, sconvolto e segnato da affanni e peripezie, ero alla ricerca di un porto sicuro.
Forse tutto è dovuto al fatto che allora vivevo in Olanda, come m’aveva predetto un tempo Simcha. Una terra, questa, sempre contesa e strappata al mare, come Venezia. Ogni centimetro compatto sotto i piedi è conquista da difendere a unghie sfoderate e denti stretti. Da lì l’agognare un approdo, la sete di radici.
Ma più bramavo d’aggrapparmi alla terra e al suo colore, più mi sentivo vascello in balia dei flutti: nato ricco, le mie fortune non tardarono a declinare in una fluida precarietà.
Forse il mare mi chiamava, il mare e il suo blu illimitato, indecifrabile.
Restai in Olanda, cambiai ospite e corpo. Mi concessi anni di meste e cerulee dolcezze. Rappresentai nei miei quadri il lavoro, le occupazioni domestiche, le donne, di cui tornai a fidarmi.
Provai un’inesauribile attrazione per il blu: estratto dai lapislazzuli, era un pigmento dal costo proibitivo. Seppure assillato dai debiti, ansia e vergogna non m’impedirono di sperperare per l’amato blu oltremare. Lo usai in ogni tela: puro, per sfumature intermedie, affidarmi al blu mi avrebbe dato l’immortalità, lo sentivo. Fu la mia scia verso l’infinito.
Le sfumature di un turbante blu indossato da una giovane ragazza con un orecchino di perla, altro dono del mare, mi consegnarono alla Storia che travalica ogni storia.
L’anno stesso in cui morì il corpo che m’ospitava allora, presi una decisione unica.
Ero stufo di essere un uomo, ma ero ancora perseguitato dai colori. Non riuscivo a rinunciare a essi.
Girovagare tra nebbie e ombre lontano dalla vita, condannato a uno sbiadito vagabondaggio senza scopo, senza meta, non faceva per me. Mi risolsi a piegare al mio volere un’esistenza femminile.
Tornai in Italia, tornai a Venezia, che amavo e odiavo e amavo.
Ebbi un’altra gioventù, imparai altro. Da mia madre merlettaia appresi l’arte del ricamo e delle trine. Ero incantato dal possedere mani fini, sapienti, delicate: non ero mai stato donna.
Lo stupefacente candore dei pizzi mi rimase negli occhi e nel cuore.
Passai dall’ago alla morbida, sottile sinuosità del pennello sull’avorio. L’eburnea lattescenza mi affiancò in ogni miniatura. Conquistata la perfezione nel piccolo, trovai slancio per azzardare nei quadri. Scuola chiarista, si disse. Potevo dimenticare il candido nitore che mi portò al successo?
Fui la prima donna accettata in accademia.
L’arte del tempo si inchinò a ciò che rappresentavo. Nomen omen: nel mio cognome la parola carriera era già inscritta, ed io alla carriera sacrificai ogni cosa. Restai donna fintanto che quel corpo me lo concesse, passando senza soluzione di continuità di vita in vita. Troppo forte però il fascino delle possibilità concesse allora a un animo virile. Tornando uomo scoprii che il bianco - come il nero - non si lasciano dimenticare. Fu l’unica volta che tradii il colore per restare fedele alla luce.
Dopo la leggerezza dei merletti mi cimentai con la granitica caparbietà del marmo.
L’apprendistato lo trascorsi a Venezia, ancora.
Lì seppi trasfondere nella greve pietra tutta la levità che aveva duettato con la mia esistenza precedente. Le mie statue ornarono le corti più potenti, il mio capolavoro fu un’opera in cui Amore fugge da Anima perché essa, crescendo, possa fidarsi di Lui rendendosi consapevole dei doni che le ha elargito. Avevo raggiunto un apice: ogni successo va decantato in una pausa.
Sentivo di dover raccogliere energie, intuivo che l’esistenza successiva sarebbe stata dura. Tornai in Olanda. Arduo spiegare quel che accadde in questa nuova vita. Ebbi per nemico mio padre e per alleato mio fratello. Le mie opere di allora parlano per me. Mi abbandonai totalmente al giallo.
Campi di grano, girasoli, pure la casa in cui vivevo si chiamava la casa gialla.
La eternai in un quadro.
Il giallo mi seguiva e mi precedeva, giorno e notte. Sì, il giallo era onnipresente, dalla paglia delle sedie all’impiantito dei pavimenti, anche le tenebre erano squarciate dal sole nei miei quadri, giallo ovunque. Un colore tanto splendente da stordire, accecare, torturare. Arrivai a mangiarlo, lo ingoiai il giallo, direttamente dai tubetti di vernice. Volevo in me la felicità che il giallo sa evocare.
A cosa ci si spinge per un attimo di appagamento… La nevrosi però non potevo curarla col cromato di piombo. Lo squillo luminoso del giallo mi era ormai entrato nel cervello al punto tale che per non sentirlo più mi tagliai un orecchio. Impazzii, ma non di gelosia: anche se il giallo dicono sia il colore di quel sentimento.
Chi studiò le mie vicende di allora afferma che un tormento mi afflisse, il disturbo porta a vedere gialli anche gli oggetti bianchi. Insorge per effetto di sostanze tossiche.
Mi ero avvelenato di felicità.
Per singolare legge di contrappasso, fu un “giallo” anche la mia fine. Quel giallo che mi aveva irretito, indotto alla follia, andava punito, offeso, oltraggiato. Un colpo di pistola allo stomaco imbrattò l’oro del campo di grano in cui si spezzò quella vita, ma prima della caduta libera nelle spire della pazzia riuscii a strapparmi per un soffio al delirio.
Non mi si rimproveri se il biondo delle messi dipinte di continuo in quegli anni forsennati finì per instillarmi un acuto desiderio di preziosa abbondanza: in seguito all’allucinata parentesi in giallo fu proprio l’oro a ricondurmi al successo.
L’oro musivo bizantino ammirato in un viaggio in Italia – dal Belpaese non sapevo star lontano – e la maestria di un padre e un fratello orefici m’insegnarono a spargerne a profusione. Mi innamorai tante volte in quegli anni. Nei miei quadri la prodigalità dell’oro era omaggio alla vita, ai suoi immensi doni. E celebrai la vita, sì. Sparsi il mio seme senza freno alcuno: una fertile vitalità segnò molti anni di calde passioni, un rutilante carosello di amori e di progenie data al mondo.
Se l’esistenza precedente mi vide elemosinare tenerezza dalle prostitute, in quella che venne poi fui circondato da una moltitudine di amanti. Fui padre riconosciuto di quattordici figli, partoriti da una schiera di grembi differenti. Fui il pittore dell’abbandono sensuale, della carne, del piacere.
Fui il pittore de “Il Bacio”.
L’età dell’oro declinò quando, nella nuova vita, venni a contatto con opere prodotte durante quella precedente. Mai guardarsi indietro! Misi in discussione la legittimità della mia arte, abbandonai il fulgore dell’oro, l’eleganza della linea Art Nouveau. Anelavo una tregua da quella frenesia.
Ne avevo disperata necessità. Dovevo “cambiare casa”.
Cercai sollievo nella quiete riposante e pacifica del verde, colore che istigai il mio nuovo ospite ad amare moltissimo. Ma l’angoscia accumulata e poi rimossa dall’illusione dello sfogo carnale premeva per uscire. Il dolore, il dolore profondo ammassato nell’anima esplose nell’esistenza successiva come un urlo. L’Urlo. Fu quello il dipinto che mi rese celebre.
Purgato il dolore, cercai nella polarità positiva del verde la cura. La natura mi risanò.
Ma prima, un tributo.
L’anima che sopportava la mia ingombrante presenza acconsentendo a spartire con me il possesso di quel corpo si vide trascinata in una turbinosa discesa agli Inferi, nel logorio dell’alcool e dei disturbi nervosi. Di più: un’orda di demoni attanagliava me e dilagava in Europa: l’inferno dentro e fuori. Poco prima che morissi l’orda criticò i miei lavori. Arte degenerata, così la bollarono.
Detto dai nazisti, poi!
Ma “io” morii di nuovo, nel 1944, dunque non feci in tempo ad assistere al giudizio della Storia, quello definitivo, spero, che decretò geniale me, immondi loro.
Sì, sono un demone. Uno spirito che ha ghermito troppe vite. Ho pur concesso altro in cambio.
Loro, solo distruzione. Tanto e tale il peso dell’orda in procinto di devastare l’Europa che mi concessi una vacanza, a inizio secolo. Presentivo il loro arrivo come s’avverte il rombo nero del tuono da lontano. Mi rifugiai nella solare, ludica, scomposta gioiosità di un artista spagnolo.
La Spagna! Lì non sarebbero mai arrivati, per fortuna.
Portai il calore e il colore della natura iberica fin sulle sponde della Senna.
Fu il mio periodo rosa. Rappresentai i miei temi più piacevoli: pagliacci, per difendermi dai tragici buffoni che sarebbero arrivati in seguito. Arlecchini, artisti del carnevale, tutti raffigurati nelle vivaci tonalità dell’arancio e del rosa.
Fu forse per una solidarietà atavica, ebraica, un’eco lontana della mia vera vita di un tempo, che mi rifugiai una dozzina d’anni più tardi per l’ultima volta nella dolcezza struggente dello shtetl, microcosmo così simile a quello da cui partii per il mio lungo viaggio.
Curioso, il rosa tornò a rincuorarmi quando presi il controllo di questa nuova vita.
Fu d’allora la mia tela intitolata “Ebreo in rosa”. Ci cascai ancora, nel vizio di girovagare fuori orario dal ghetto, ma a San Pietroburgo pagai solo con il carcere, non con la vita, come fu a Venezia. Amai a quel tempo più di tutto il viola, fui tra i primi pittori a utilizzarlo di frequente.
Il viola e l’indaco, quasi una mia scoperta, la cifra della mia arte.
Dipinsi donne che fluttuavano trattenute per mano dai loro compagni, saldamente piantati a terra; spose che si libravano in cielo come bandiere al vento, e violinisti dal profilo semita.
Credo che tutto questo slancio verso l’alto mi sia stato impresso dalla prematura dipartita di Bella, la mia compagna d’allora. Avessi potuto trattenere lei qui con me sulla terra, avrei ridato indietro ogni destino.
Bella mi indicava la giusta direzione, come ogni compagna che vuole il bene dell’amato. Era ormai tempo di toccare l’argento delle stelle.
Non amavo l’America, scoperta durante il lungo e amaro esilio della mia vita in viola, ma in quegli anni scelsi per dimora un artista americano. Se nelle vite precedenti uccisi e mi uccisi, in America sperimentai il delitto dall’altra parte della barricata: mi spararono.
Sopravvissi e mi ritirai.
Dedizione totale alla Silver Factory, il mio studio d’artista: ne ricoprii di vernice argentea ogni superficie, ogni oggetto.
Nei miei anni da protagonista trovai la mia dimensione amando l’argento, amore del tutto corrisposto: fu l’argenteo metallo di una lattina a darmi la notorietà.
Sì, lo confesso, il luccichio della fama mi stregava. Fu d’allora un mio generoso e profetico aforisma: dichiarai che negli anni a venire tutti sarebbero stati famosi per una manciata di minuti.
Non è forse quanto accaduto?
Nel mondo odierno, il passaparola dell’etere innalza alla notorietà mondiale chiunque nel giro di pochi istanti. Brevi e frenetici gesti delle dita su una tastiera bastano a consacrare un mito. Finché una nuova, fatua divinità virtuale non lo soppianterà con ciclicità prevedibile, fino ad altrettanto prevedibile e repentino oblio.
Ma io…
A chi mi voleva finire rispose il tempo, da sempre schierato al mio fianco. Sui muri di New York c’è chi scrive io sia vivo, senza sapere d’aver ragione. È tutto vero. Vivo ancora, e sono.
Un cambio d’ospite, al solito. Ora mi adatto all’essenza sfuggente di questa nuova epoca.
L’impermanenza mi affascina, creo ciò che è destinato a non durare. Sono persino riusciti a mettere all’asta una mia opera: si è distrutta pochi attimi dopo esser stata battuta per una cifra imbarazzante, sotto gli occhi increduli dell’acquirente. Una mossa definita geniale.
Mi diverto, ora, dopo aver rincorso la fama, a interpretare il mistero dell’anonimato.
I muri sono le mie nuove tele, gli ugelli delle bombolette spray i miei pennelli.
A una nuvola inconsistente di colore affido il mio messaggio per il mondo, nessuno sa chi io sia.
Potrei essere un solo individuo, oppure esserne molti e fare la spola da un’anima all’altra.
Questo perché ora so che è nell’incontro tra i fili di mille esistenze, di mille destini che nascerà l’intreccio delle sensazioni, del vissuto che deve sopravvivere a ciascuno. Potrà d’ora in avanti esprimersi nella condivisione, rigenerarsi nell’individuare un senso d’appartenenza.
Ora sono uno, sono nessuno, sono – se voglio – centomila.
Sono tutti Voi quando guardate una mia opera.
E vivendo nel vostro sguardo, anche stavolta non avrò vissuto invano.