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Lucia Lo Bianco
AUTORI 2024
Lucia Lo Bianco
Nata a Palermo, laureata in Lingue e Letterature Straniere e con un MA in Professional Development for Language Education, dal 1993 insegna inglese al liceo.
Poetessa, scrittrice, saggista e giornalista.
Co-Fondatrice di WikiPoesia, Accademica del Convivio e di Sicilia si è classificata ai primi posti in premi nazionali ed internazionali, totalizzando circa 600 premi in Italia e all’estero.
La sua scrittura ha ultimamente assunto una nota più specificamente sociale, trattando temi quali l’immigrazione e la violenza sulle donne.
Già presente edizione
SECONDO CLASSIFICATO
LEGGERE LAGUNE -POESIA
Lucia Lo Bianco
“Leggere lagune”
Poesia
Cenere d’alba su Gaza





E venne l’alba sul rosa di una terra
senza sole, tra morbide colline
perdute tra bagliori di cocci sguinzagliati
come notte di petardi accesi.
Alba offuscata, intrisa di polvere
a coprire l’innocenza cancellata,
bimbi già nati nella morsa di catene
troppo strette, sposati al vento
come giocattoli rotti o troppo usati.
Pioggia di lacrime di mamme disperate,
tonfi improvvisi e sordi tra macerie
e poi le urla, a lacerare gli occhi,
su pelle rossa sparsa incandescente
tra fuochi e scoppi sotto cieli cupi
e smorfie di universi inesistenti.
Non più sorrisi ma colori senza luce
su crepe di mura sinistre e fatiscenti,
nulla su nulla in mucchi di dolore e
mani incerte in stille di disseccata linfa.
Manca la terra, le scarpe solo sfiorano
carne nuda stesa a memoria sulle travi,
mancano gote rosee e risa di fanciulli
smarrite dentro cerchi di memoria.
Ceneri d’alba senza occhi sul domani,
giovani vite su bieche grate di cemento,
fiori appassiti sul fumo di inutili speranze.
All’alba Gaza insegue note senza suoni
tra rulli di tamburi e cieca indifferenza.
Più non dormiamo su inutili colline





Saremo sveglie e insonni ad aspettare
nei vuoti concavi creati dalla veglia,
un soffio amaro d’indicibili carezze
su soglie improvvisate nell’attesa.
E poi gli sguardi persi per le strade
percorse a passi fermi nei mattini
indaffarati, i giorni sempre uguali.
Noi non dormiamo su inutili colline.
Tagliamo l’aria come frecce sagomate
mirando dritto verso mete sconosciute,
siamo bersagli aperti nella nebbia
che accoglie storie infrante nel silenzio.
E ci conducono parole inappropriate
lavate al fiume come panni da sbiancare.
Noi non dormiamo, no, sospese nelle notti
tra le fessure di finestre semichiuse
destate da rumori sordi e indifferenti
come fantasmi persi nel vuoto delle stanze.
Staremo sveglie, ancora, i sensi accesi,
le mani ad inseguire lucciole nel buio
tra le lanterne illuminate dalla luna
pronte a carpire i segnali dell’aurora.
Più non dormiamo su inutili colline
da tempo abbandonate nel cammino,
l’alba si annuncia con voce addormentata
tendendo vesti bianche e trasparenti
sui fogli ormai confusi del destino.
Stillano giorni in attesa della notte





Stillano giorni come lacrime nel vento
tra buie stelle prive d’orizzonte,
si sgretola il selciato di un cammino
che si sfalda lento, restano frammenti
sparsi, flebili ricordi in aria consumata.
Verranno le catastrofi, i mille crolli
personali, le sconfitte non volute,
i chiaroscuri d’esistenza vuota
dispersi come panni ad asciugare.
Sarà realtà senza confronto né memoria
allora a dare senso immateriale alle
rose conservate in minuscoli cassetti,
dimenticate in angoli oscuri del passato
tra esotici profumi e forti essenze
che abitano stanze a lungo ormai serrate.
Come granelli di sabbia nel deserto
saranno nuove luci, polveri vaganti
di sostanze sconosciute quasi fragili pianeti
di vite ed esistenze mai esistite,
mentre nuove direzioni parleranno
di un incipit di buio, un lieve degradare
del pensiero in attesa della notte.
Non è mai finita
(A Marisa Leo e a tutte le donne vittime di violenza e della logica del possesso)




È accaduto già, ricordo fessure
e crepe di cupe stanze dissacrate
o in fondo al bosco orfano di luna,
come pellicole lacere e consunte
tra figure scorte appena tra gli scatti.
Ho visto corpi esangui sulla strada
e occhi di donna sgranati verso il cielo,
c’erano sangue, ossa e poi una voce
che urlava al vento tra calde onde
e soffi in fuga dalla scia di pazza folla.
E, all’improvviso, sguardi fiutano la preda,
mani premono carezze non cercate,
dita frugano pelle dentro una fessura,
pugni chiudono cerchi senza uscita.
E polvere, pietre sotto schiena, vesti stracciate,
cuore a brandelli e visi sconosciuti,
branchi affamati di carne trasudante.
E io ho abitato incerte primavere
di sere buie e infinite fino all’alba
cercando un senso ai ritmi sfrenati
di vuota vita nei vuoti cavi della notte.
Non mi appartiene più questo mio corpo,
pelle strappata e ricucita a scatti,
male che uccide e non c’è via di scampo.
Cerco dei suoni confusi tra i rumori
ma più non trovo un canto libero di donna,
soffoca il fiato l’urlo spento chiuso in gola,
spinto giù in fondo da vili occhi di animali.
C’è chi continua a bruciare le sue streghe
in una caccia che non è mai finita.
“Orti dei Dogi”
Narrativa
L’ultimo volo




Dalla finestra dell’ottavo piano vedeva le colline che degradavano stanche nel rosa della sera, mentre al mattino tutte le forme assorbite dalla notte sembravano lance appuntite verso il cielo limpido della città. Costretta a letto poteva soltanto immaginare i palazzi sparpagliati e la routine di quelle case, tra clacson azionati al massimo e gente nevrotica, avanti e indietro.
Avanti e indietro. Così è la vita e lei ne aveva fatto parte fino a cinque anni prima. Non si era mai risparmiata, tra il lavoro nel suo gabinetto d’estetista e gli impegni a casa. Si era pure presa i suoi momenti di svago. Aveva soprattutto viaggiato tanto, da sola ma anche, dopo il matrimonio, con suo marito. Adesso, però, era diverso. In questo letto, tra le lenzuola bianche e ormai lise per il continuo sfregamento del corpo era diverso. Né tantomeno riusciva a ricordare il momento in cui tutto era cambiato, perché sì, purtroppo, le cose cambiano.
Suo marito dormiva sul divano, proprio lì, accanto quel letto alto con le sbarre modello ospedale che avevano sistemato nella loro grande cucina. Perché, in fondo, da lì la vista sulla città era spettacolare, soprattutto quando il vento spazzava non solo le nuvole ma tutte quelle particelle impure che rendevano l’aria pesante e corrotta.  Sì. Nulla poteva eguagliare il meraviglioso gioco multicolore di quella città del sud, che solo chi c’era nato poteva amare.
Da quella prospettiva riusciva ancora a pensare e vivere come se le sue gambe fossero ancora vive e scattanti e non quell’ammasso flaccido con cui ora si offrivano alla vista dei pochi familiari che le stavano vicino, o dei medici e infermieri che si alternavano per assisterla. Da lì era come se riuscisse ad uscire dalla prigione del suo corpo, dalla barriera di ferro e di cemento della sua ossatura apparentemente leggera ma in realtà senza energia, ormai senza più vita. Da quella stanza che aveva accolto risate e urla, gioie e dispiaceri, la sua mente volava in alto e viveva tra corpo e spirito, di eterea sostanza.
“Zia Nella!”
Era arrivata, finalmente! Sin da quando Arturo, suo marito, le aveva annunciato quella visita, lei aveva atteso. Il tempo era una dimensione senza senso da un bel po’ nella sua vita. Minuti, ore, giorni. Nulla di tutto ciò ormai contava più. Nulla! Ciò che scorreva davanti a lei erano accumuli di eventi selezionati in base alla loro importanza, a seconda dell’incidenza che gli stessi esercitavano sulla sua anima. Erano come gioielli che spuntavano all’improvviso dalla sabbia finissima che li aveva inghiottiti e ritrovarli diventava una gioia e una sorpresa.
Aveva tanto pensato a lei, a quella nipote ormai donna che non vedeva da tempo. Troppi gli impegni che le impedivano di farlo. La nipote che aveva tenuto in braccio come fosse sua, lei che figli suoi non ne aveva mai avuto. La nipote che veniva a mare con lei, la zia più giovane che comprendeva le sue paturnie adolescenziali e riusciva a parlarne liberamente, senza far calare veti o proibizioni. Aveva amato quella nipote, forse più di tutte le altre, persino più degli adorati figli del marito ai quali, in fondo, si era legata tanto.
“Zia Nella! Sono Letizia. Come stai?”
“Lo so chi sei. Ti aspetto da giorni.”
“Ma ho chiamato solo ieri, non ti ricordi?”
Ieri! Cos’era ieri per una donna confinata in un angolo di mondo proiettato sul nulla, in una cuna di tempo non precisata?
“Letizia, amore…ripeto…ti aspetto da giorni”
Letizia decise di non insistere. I suoi occhi vagavano senza meta su quel corpo che non riconosceva, come se un alieno fosse venuto per impossessarsi di quella che una volta era stata la zia Nella e lei abitasse un vestito non suo. Quel viso gonfio dove occhi profondi e penetranti sembravano aver perduto la loro strada, forse per sempre.
Le foto sulle pareti le rimandavano i ricordi di un tempo. La zia Nella in Senegal o a Santorini mentre soffre di fronte ad un asino carico di pesi da portare, lei che adorava e rispettava gli animali. Un’altra foto la ritraeva in bikini sulla spiaggia e quella bambina seduta accanto doveva essere proprio lei con il suo cappellino rosa.
“E adesso sono qui.” Seduta accanto a quel letto alto circondato da sbarre forti e grigie per non farla cadere non riusciva a capire come quella donna forte e sempre ben curata avesse potuto ridursi così. Lo zio Arturo le aveva raccontato com’era andata. Cinque anni prima era caduta e si era fatta molto male. I tempi di ripresa erano stati lunghi e questo aveva scatenato delle paure incontrollabili. Aveva deciso di non alzarsi più dal letto. Letizia non riusciva proprio a capire cosa fosse successo nella testa della zia. Lei con il suo amore per la vita, per i viaggi, per la gente… Come aveva potuto chiudersi improvvisamente senza uscire più da casa? Senza passeggiare per le vie della città con suo marito o andare a far visita ai parenti che lei tanto amava? O si era trattato piuttosto di un incomprensibile istinto di conservazione? Un voler sopravvivere a tutti i costi per timore di cadere nel vuoto?
“Sì. Adesso sei qui.” Letizia si sentì improvvisamente osservata. Non poteva farle percepire il suo dolore, il suo disagio. La zia non era stupida e avrebbe capito. In un angolo della sua memoria lei e la zia Nella camminavano insieme per strada, la sua piccola mano in quella più grande. C’erano giorni estivi in cui lei si era sentita svuotata e sola, in cerca d’amici veri che non c’erano e la zia Nella era stata lì ad ascoltarla mentre lei parlava e parlava senza smettere. Chissà come si era scocciata la zia a prestarle attenzione. Magari aveva le sue problematiche da risolvere e lei stava lì a tormentarla senza pietà. Povera zia! Si era sposata tardi e non aveva avuto figli suoi. Che peccato! Sarebbe stata una buona madre.
“Ti ho portato qualche libro mio, zia. I racconti ed il mio primo romanzo. Ti piaceva così tanto leggere!” Ma chissà se la zia Nella poi leggeva ancora.
“Non leggo più, sai…” Le aveva letto nel pensiero. “…a meno che non sia qualcun altro a leggere per me.”
“Allora vuol dire che verrò a leggerti qualcosa di tanto in tanto. Riuscirò a trovare un po’ di tempo.”
“Sei qui oggi.” La guardò. “Leggimi qualcosa adesso. Adesso.”
Letizia aprì il suo libro. Senza esitazione cominciò a leggere il racconto in cui aveva parlato a lungo di sua madre, morta anni prima. La mamma e la zia si erano volute bene e adesso lei era lì, a rivangare momenti d’intima sofferenza con la sola persona che poteva capirla. Sembrava proprio che la zia Nella le leggesse dentro, con quella capacità innata che possiedono solo poche anime elette. Sua madre era così, anche lei. Quand’era morta, Letizia aveva cominciato a viaggiare e a scrivere, senza fermarsi, per esorcizzare il dolore. Pensando a cosa erano stati per lei quegli ultimi anni con lo sguardo scorreva parole e frasi che prendevano vita, in quel piccolo mondo che si era creato intorno a loro come per magia, per cercare di riaprire un dialogo che si era interrotto qualche anno prima. Era come se dalle pagine l’immagine della sua povera mamma stesse riemergendo per farle compagnia e aiutarla a reggere il duro compito di restituire qualcosa ad una donna malata che aveva scelto di andarsene così, lentamente, perché il suo corpo di un tempo l’aveva abbandonata.
“Che bella questa storia!” Gli occhi della zia Nella brillavano. “Non ne sentivo così da tempo.”
Letizia cominciò a far scivolare le dita su quelle braccia gonfie e diafane, cercando di fare dei disegni che riuscissero ad abbellire un corpo disfatto. Piegando il capo si poggiò delicatamente sul letto, cercando di non togliere spazio alla zia che stava piegata di lato per respirare meglio. Una bombola d’ossigeno le stava sempre accanto, pronta a intervenire nell’eventualità di una crisi. Lo zio Arturo dormiva disteso sul divano con una giacca da camera. Stava sicuramente approfittando della sua presenza per riposarsi un po’.
“Cos’è successo zia? Perché non hai voluto alzarti più dal letto?”
“Ormai non potrei più. È troppo tardi.”
“Sì, ma non mi riferisco ad “adesso”. Sto parlando di quello che è successo cinque anni fa.”
“Preferisco non parlarne.”
“No, voglio sentirlo da te, adesso.” Con uno scatto Letizia si era sollevata. “Penso di meritarmi una risposta.”
La zia Nella si girò, lievemente. Gli occhi erano lucidi di pianto.
“Non ti è mai capitato ti sentire un click nella testa? Un rumore come lo scatto di una foto che, però, a guardarla ti appare diversa dall’immagine che pensavi di trovare o di aver visto fino a poco prima?” Letizia scosse la testa.
“No. Non ti è mai capitato. Sei ancora troppo giovane.” Si fermò un attimo. Respirava a fatica. Letizia indicò la bombola d’ossigeno ma la zia fece cenno di no. “A un certo punto ho capito che in me era cambiato qualcosa e che lottare non sarebbe servito a nulla. Ho fatto una scelta. Vivere con la mia mente, abbandonando il mio corpo che, comunque, mi avrebbe abbandonato prima o poi.”
“Ma perché, zia?” Letizia non era riuscita a trattenere le lacrime e la zia la guardava con una dolcezza infinita.
“Perché la vita cambia in un solo click. Succede quando meno te l’aspetti Letizia.” Spinse la testa sul cuscino. Sembrava stanchissima. “Tu guardi solo le mie gambe, il mio corpo, ma io vivo oltre. Volo ogni sera da quelle finestre e mi ritrovo su questo letto esausta ogni mattino, attendendo una nuova avventura.”
Era scesa la sera. Letizia istintivamente si alzò dirigendosi verso la finestra. Aveva sempre avuto paura del buio e andare in giro, sola, a quell’ora, l’agitava non poco. Non ricordava dove avesse parcheggiato la macchina. Ah sì! Era riuscita a trovare posto più avanti, lungo la strada principale che si apriva davanti il palazzo dove abitavano la zia Nella e lo zio Arturo. Che vista da quel piano! Sembrava proprio di possedere tutta la città, di stringere ciò che era al contrario inafferrabile. Un volo! La zia aveva parlato di un volo da lì, da quell’ottavo piano. Sarebbe stato proprio bello riuscire a innalzarsi abbandonando giù tutto, senza voltarsi indietro. E la zia lo faceva ogni sera. Come l’aveva chiamata? Una nuova avventura.
“Letizia!”
Si girò. La zia Nella sorrideva silenziosamente. Aveva girato il capo verso la finestra per chiamarla e le braccia si erano allungate lungo le lenzuola candide e immacolate per terminare sui palmi aperti e ben stesi, quasi stesse cercando di afferrare qualcosa. Era persino riuscita a raddrizzare leggermente le spalle sui cuscini che le proteggevano la schiena. Il desiderio di innalzarsi per poi planare era davvero fortissimo e non abitava più soltanto la sua mente.
Letizia la osservò a lungo in quella sua posa bizzarra ma colma di un ultimo e definitivo messaggio.
Sulle palpebre di zia Nella erano scese le ombre e le luci del suo ultimo volo.

Puro cobalto il cielo






Di Torino mi dicevano meraviglie. Ecco perché ho finito per incunearmi qui, in quest’angolo di mondo dove l’aria profuma di dolce e amaro al tempo stesso. Che poi la mia vita di dolce ha ben poco. Le mattine sanno di fogli sgualciti quando mi sveglio. Sì. Mi sento proprio così quando sollevo la coperta a scacchi che fodera il mio lettino all’angolo. Pure le lenzuola hanno smesso d’essere bianche e ormai si tingono di grigio o forse è il colore del cielo che si riflette sul piccolo giaciglio improvvisato sotto i portici della stazione.
Perché, vedete, è proprio lì che vivo. Il mio letto è tra l’hotel e il negozio dell’indiano. Ci puoi trovare proprio tutto in quel negozio. Un vero e proprio bazar di chincaglierie d’ogni tipo. Tovagliette per la colazione, fiocchi, nastri, matita per gli occhi, calzini e collant. Di giorno ci vado per farmi un giro e rifarmi gli occhi. L’indiano mi conosce e a volte mi regala qualcosina. Come quel rossetto rosso ciliegia che mi piaceva tanto. Lo sfioravo e lo sognavo di notte. Allora lui me l’ha messo in mano. “Ti starà benissimo”, mi ha detto. Che brava persona l’indiano!
La mia valigia è posata alla testata del letto, accanto al cuscino. Di notte allungo le mani e la sfioro. Non sia mai me la rubano. Come farei poi senza le mie cose? È poca roba, in fondo, ma il mio mondo è lì. In quella scatola che ho trascinato dal paese 10 anni fa, in cerca di fortuna. Ho girato un po’ a vuoto al principio ma l’unica porta aperta l’ho trovata qua.
Un giorno Veronica, con le sue vesti maleodoranti ed il rossetto marcato mi vede e mi invita nel suo “appartamento”. Sì, lei lo chiamava proprio così. Aveva sistemato un materasso e lì accanto una borsetta faceva bella mostra di cianfrusaglie strane e ingiallite mentre il nécessaire per il makeup gliel’avevano regalato le signore bene della città e lei lo teneva da parte come un tesoro d’inestimabile valore.
Veronica si alzava al mattino, si sistemava i capelli arruffati e incominciava a imbellettarsi il viso. Dopo tutto era importante mantenere la propria dignità. Guardandola, un giorno, avevo pensato che se fossi rimasta a Torino sarei diventata proprio come lei. Dovevo andar via e subito. Ma no! Che pensiero malsano! Torino era una città magica e ne avevano detto meraviglie.
Poi un giorno Veronica non si è svegliata più. Che freddo quel giorno. L’aria era tagliente e la copertina con cui si copriva si era ritirata con le gelate al mattino. Dall’angolo nascosto della strada il suo corpo mi era sembrato come un micio abbandonato e impaurito. Capelli arruffati e trucco disfatto della sera prima: Veronica la ricordo proprio così nelle notti fredde quando la luce tarda ad arrivare sotto i portici della stazione. Eppure al paese dicono che Torino è bella, una città magica.
E così il posto di Veronica, il suo “appartamento”, l’ho preso io. Ho subito tirato fuori le mie belle lenzuola coi ricami dalla valigia. Quelle che la mamma mi aveva regalato. Che bella figura che mi hanno fatto fare all’inizio. Si fermavano tutti e si divertivano a far scorrere la mano sui bei disegni bianchi del cuscino. Sono stata proprio felice al principio. Mi hanno aiutato tutti, proprio tutti. Yvonne, la polacca, mi ha spiegato come fare toilette e curare la mia persona. Ahmed, il senegalese, mi ha preso sotto la sua ala protettiva. Di certo a me non ha mai fatto i suoi scherzi, come far scoppiare i petardi tra le gambe. Quelli li riservava alle ragazze carine che arrivavano in stazione con le loro valigie enormi e finivano per passare dai portici, prima di raggiungere il loro albergo. Moussa era il più cattivo, invece. Mi ha piantato addosso il suo sguardo sospettoso sin dal principio. Proprio non lo sopportavo. Mi cambiavo la camicetta e lui lì, a sbirciare. Non lo faceva con Yvonne o le altre donne. Ancora adesso me lo ritrovo accanto quando raccolgo le monete lasciate dalla gente. Non mi piace per niente. Mi sento a disagio con lui vicino e se mi distraggo mette le mani tra le mie cose e rubacchia. Lo fa. Ne sono certa. Ma per fortuna che c’è Ahmed. Mi vuole bene, come Seydou.
Seydou è un pittore. Ogni mattina sistema il suo panchetto lì, al confine del porticato grande che fiancheggia la stazione. Sciorina la sua tela e guarda in alto verso il cielo, coi suoi colori freddi e intensi che ti schiacciano da dentro. Lui guarda su e scorge qualcosa. Lo so perché sorride, quasi sempre.
Gli ho chiesto un giorno: “Che hai visto oggi, Seydou?”, ma non mi ha risposto subito. È rimasto lì con il suo mezzo sorriso a sbirciare il grigio delle nuvole, quasi aspettasse che si diradassero per far spazio a un po’ di azzurro. L’azzurro, però, non è spuntato più e Seydou si è voltato e mi ha guardato alla fine. “Ho visto un passerotto che cercava di volare in alto, ma da solo non riusciva e così sono arrivate un po’ di ali per aiutarlo a sollevarsi.” Non ho capito di quali ali parlasse. Ancora oggi mi chiedo cosa volesse dire.
Poi un giorno mi ha fissato. “Ti va se ti faccio il ritratto?”, ma non gli avevo mai visto disegnare alcun ritratto. Mi è piaciuta l’idea. Tanto. Gli ho detto di sì. Solo non capivo dove dovessi mettermi. E soprattutto come. Ma Seydou è stato meno complicato di me e mi ha detto di restare lì dov’ero, accanto a lui. Semplice come bere un bicchier d’acqua. È cominciato così il più bel periodo della mia vita. Giornate fantastiche colorate di rosa. Almeno la mattina mi alzavo con uno scopo. Pettinavo i capelli e mi truccavo con cura. E poi mi sentivo importante. Una vera star. Mi ritrovavo a ricevere attenzioni che non avevo mai avuto. I passanti poi! Tutti concentrati a guardare. I loro occhi si spostavano da me al dipinto per ritornare su di me. E non finivano di commentare. “Sta venendo proprio bene!”. “Io ci metterei un po’ più di colore”. “Ma perché il cielo è così grigio?”, come se a Torino il cielo fosse di un altro colore! Seydou restava calmo ma a tratti dava segni di insofferenza lanciando sguardi di fuoco. Allora il critico di turno si zittiva e si allontanava, impaurito.
Il giorno che Seydou ha finito il mio ritratto abbiamo festeggiato. L’indiano ha comprato dei dolcetti e ci ha fatto entrare nel suo retrobottega. Che meraviglia. Non assaggiavo un dolcetto da così tanto tempo! Avevo dimenticato che sapore avesse lo zucchero tra i denti, quella soffice sensazione d’impalpabile leggerezza sulla lingua e sul palato. Per poche frazioni di secondo mi sono sentita come una vera signora. Con quel ritratto tra le mani e l’immagine di qualcuno che non sembravo neanche io. A guardarlo sembrava proprio un’altra persona. Non poteva essere la stessa persona, no. Poi tutti a complimentarsi, a dirmi come stavo bene coi capelli e con il rossetto sulle labbra. Sicuramente qualcuno mi avrebbe notato ora e, chissà, magari riuscivo pure ad andarmene da lì e non rischiare di fare la fine di Veronica. Dopo tutto di Torino si dicevano meraviglie. Una città magica.
Quel giorno mancava solo Moussa. Cattivo e invidioso com’era non si era unito ai festeggiamenti. Non è mancato a nessuno perché, vedete, la gente come me capisce subito con chi ha a che fare e cerca di proteggersi. Qualcuno però ha pensato di mettere da parte qualcosa da mangiare per lui. Di sera l’avrebbe sicuramente apprezzato e magari sarebbe stato più gentile, con le donne soprattutto.
Quando l’indiano ha chiuso il suo negozio mi sono spostata all’angolo, tra le mie cose. Proprio non ci riuscivo a staccare gli occhi dal mio bel ritratto. Poteva davvero rendermi famosa in fondo. Moussa mi è spuntato accanto all’improvviso. Ho sentito uno spintone e poi una stretta al collo. Di certo voleva rubarmi il ritratto. Provava sempre a rubarmi tutto. Ma stavolta dovevo impedirglielo. Le sue mani mi frugavano in ogni parte del mio corpo, ma dovevo salvare il ritratto. Sono riuscita a liberarmi. Mi sono alzata. Sono scappata via. Sono scivolata lì, al confine del porticato grande che fiancheggia la stazione. Moussa mi ha tirato per le caviglie. Ho visto che aveva un coltello. Ma il ritratto l’ho salvato. Sono caduta a faccia in giù, difendendolo con la pancia, giusto in tempo per alzare lo sguardo e volare in alto.
Puro cobalto il cielo.  
Ma il ritratto poi è servito? Sta lì, vicino la valigia posata alla testata del letto, accanto al cuscino. Di notte allungo le mani e lo sfioro. Non sia mai me lo rubano. Come farei dopo senza?

N.B. (Dedicato alla clocharde dal dolce sguardo che mi sorrideva ogni mattina. Proprio non riesco a staccarmela dal cuore)

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