NicolettaRos
AUTORI 2024
Nicolina Ros
Pubblicazioni: 34 romanzi - 127 racconti - 12 sillogi in lingua italiana e friulana.
Riconoscimenti:
In concorsi letterari in Italia e all’estero, hanno ottenuto oltre milleduecento riconoscimenti.
Nel 2008 ha avuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il riconoscimento per l’opera “Opzione Italiani!” sull’Esodo Istriano-Giuliano-Dalmata.
Nel 2015, dal Vice Presidente del Senato, Valeria Fedeli, per il romanzo sul tema del femminicidio “Conta su di Me”.
Nel 2017 il riconoscimento dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’opera “Senza Ritorno”.
“Orti dei Dogi”
Narrativa
I viaggi di Giuseppe
Nicolò e Teresa, misero al mondo cinque figli: l’ultimo era Giuseppe. La loro era una realtà dura, ma piena d’amore.
Anni che, per sopravvivere, da inizio maggio a fine agosto, Nicolò e i suoi fratelli andavano a fare mattoni in Germania. Caricavano un carretto con il necessario per vivere nella baracca che sarebbe stata loro assegnata e partivano a piedi. Nella primavera del 1914 fu Giuseppe a seguire la mamma; aveva meno di un anno. Teresa era l’addetta ad impilare i mattoni pronti per la consegna e sedeva il figlioletto avvolto in una coperta davanti la catasta, per controllarlo. Quel giorno, uno scricchiolio sinistro, anticipò il crollo della catasta sopra il piccolino. Urlando Teresa prese a spostare i mattoni con le mani, assieme al marito. Apparve la coperta, nessuno osava alzarla convinti com’erano di trovare il bimbo cadavere. Era stato lui a fare cu-cu senza alcuno spavento.
Quella fu la prima volta che Giuseppe si fece beffe della morte.
Un giorno mentre aiutava il padre a raccogliere legna per il fuoco nel boschetto oltre la baracca, d’improvviso qualcosa lo aveva attratto. Un anello argentato, colpito da un raggio di sole, brillava seminascosto tra le foglie secche. Il bambino incuriosito lo raccolse. Attaccata all’anello c’era una pallina ovale in ferro quadrettato. Era così entusiasta per quella cosa che sembrava un giocattolo che, infilato il dito mignolo della mano sinistra nell’anello, aveva preso a farlo girare sempre più velocemente. Il padre Nicolò, a quello strano schiamazzo, si volse e correndo verso il figlio gli urlò di gettare quella cosa lontano. A quell’ordine angoscioso il piccolo spaventato ubbidì... Ahimè, troppo tardi. Quell’apparente giocattolo era una bomba a mano che scoppiò mentre la gettava.
Il primario dell’ospedale, chirurgo famoso e stimato, gli curò alcune ferite sul corpo, ma soprattutto gli salvò la mano sinistra, via del mignolo. Al posto del dito rimase, per la vita, una lunga cicatrice che partiva dalla base dell’anulare e arrivava al polso.
Dopo l’operazione, il taglio si era infettato e Giuseppe rimase cinque mesi in ospedale. Fu un periodo straordinario. Giuseppe si adattò subito all’ambiente. Era un attore nato, capace di imitare chiunque. Incline allo scherzo e con la risposta sempre pronta. Quasi subito conquistò tutti con l’innata simpatia e diventò la mascotte del reparto. Il primario temuto e venerato come un dio, s’infastidiva per un nonnulla.
Con quel bimbo sempre alle calcagna, invece, sorrideva e parlava. Giuseppe lo guardava dritto negli occhi senza alcuna soggezione.
Il professore lo aveva soprannominato ‘il mio piccolo” ed essendo un accanito fumatore gli insegnò a recuperare i mozziconi delle sigarette e, con i rimasugli del tabacco e le cartine, a rollarne di nuove.. Tutto ciò, ovviamente, avveniva di nascosto della Madre Superiora, caposala dall’algido cipiglio e dagli occhi di ghiaccio, che appariva ovunque neanche avesse il dono dell’ubiquità.
Giuseppe non appena sentiva il fruscio della lunga veste bianca recuperava il tabacco e lo nascondeva nella scatola che portava sul coperchio, la scritta: PROPRIETÀ DEL PROFESSORE - VIETATO TOCCARE. Il bambino guardava la suora dritto in faccia e le sorrideva; lei lo guardava, ma non sorrideva! A forza di rollare sigarette e accenderle, a sei anni Giuseppe imparò a fumare.
Ma imparò anche altro! Con il professore si divertiva e gli fu prezioso maestro anche nell’insegnargli l’alfabeto, a scrivere, leggere, a giocare a briscola, fare di conto a mente e declamare poesie.
Ormai si avvicinava il tempo d’iniziare scuola e la mano era guarita.
Nicolò andò in bicicletta a prendere il figlio e, quando il professore lo vide passare in cerca di Giuseppe, lo chiamò, lo guardò serio e disse che lui aveva fatto tutto il possibile. Poi, indicando il bambino, gli disse che doveva farlo studiare perché, quel piccolo brigante, aveva un’intelligenza vivace. Nicolò fece SI con la testa, prese il figlio per la mano sana, rimise il colbacco, tolto in segno di rispetto, e sussurrando:
-Grazie Professore, grazie a tutti – e s’incamminò verso l’uscita.
Prima di varcare la porta d’uscita si girò e tutti gli infermieri e anche il Professore lo salutarono a mani alzate! Anche la Madre Superiora che, furtiva, si asciugava gli occhi e batteva forte le mani.
Nel 1924 Giuseppe terminò la quinta classe. Il direttore chiamò il padre e lo invitò a fargli proseguire gli studi. Nicolò, confessò che non aveva la possibilità. Il direttore gli suggerì di mandarlo in seminario dove avrebbe potuto studiare gratis!
- Dai preti? - Saltò su Nicolò come punto da una vespa - Mai! - e Giuseppe disse addio alla scuola e iniziò il primo tentativo di imparare un mestiere. In paese c’era un laboratorio con un bravo sarto. Nicolò andò da lui con Giuseppe e gli chiese di metterlo in prova. Il sarto scrutò il ragazzo e accettò, ma ala fine del mese disse al padre:
- Neanche morto, piuttosto vado a funghi! -
Nicolò lo prese in parola:
-Verrai a funghi con me.- E, per quella stagione, Giuseppe si alzò all’alba e lo seguì nei prati ricchi di funghi, vicino casa. Nel periodo propizio ne raccoglievano a cesti, Teresa li puliva e i due macinavano chilometri a piedi per fornire i clienti.
Giuseppe scalpitava! Che lavoro era quello? Infatti durò solo il tempo di racimolare i soldi per fare il biglietto del treno per Milano da Angelina, la sorella maggiore sposata, che lo aiutò a trovare lavoro.
Iniziò facendo il Rider si direbbe oggi. Un panettiere lo aveva fornito di bicicletta con due contenitori, e consegnava il pane appena sfornato ai clienti. Era stato quasi uno spasso quello sfrecciare per le strade di Milano nella bella stagione, ma con il freddo dell’inverno e la nebbia fitta era un problema. Meglio lavorare al caldo in una pasticceria, poi in un bar, poi in un ristorante. Le provò tutte via!
- Mille mestieri! nessun mestiere! - sentenziava suo padre le volte che tornava a casa.
Sua madre, che non aveva mai nascosto la predilezione per quel figlio, gli rispondeva dicendo che prima o poi avrebbe trovato la sua strada.
Era arrivato in regime fascista e Giuseppe, con suo fratello Fiore, tornato da Milano, venivano costantemente chiamati all’addestramento militare fascista, ma i due fratelli disertavano sempre.
Giuseppe aveva fatto le elementari con un coetaneo che era riuscito a farcela solo con il suo aiuto costante. Costui, ora fervido fascista, lo ammonì:
- Non sfidarci camerata, vieni ai raduni, ti fai vedere dal podestà e tutto va a posto. –
Lo sollecitò più e più volte fino a stufarlo e fargli scappare di bocca:
- Io non sono tuo camerata e se ti senti grande a fare il pagliaccio in piazza fai pure, ma non venire a rompermi le scatole! -
E i due fratelli perseverarono nella loro latitanza, sfidando le ire di quegli scalmanati.
L’alba indorava il cielo quando batterono la porta di Giacomo quasi volessero scardinarla.
Fiore, la sera precedente, aveva trovato quattro oche che vagavano per la campagna e le spinte a casa.
- Senz’altro qualcuno verrà a reclamarle! - Disse ai quattro camerati che erano entrati e chiedevano spiegazioni.
Quelli innervositi replicarono che, se le oche stavano nel loro cortile, voleva dire che le aveva rubate. Ma c’era dell’altro e molto più serio! Al tempo del ventennio sulle case contadine, con grandi facciate, veniva dipinta la testa del Duce. La cosa che incriminò senza appello Fiore fu la frase, vergata con lo sterco, sulla facciata della fornace sotto la raffigurazione della testa di Mussolini: - Prima tagliamo la testa alle oche e poi al Duce. - Chi poteva aver scritto una tale nefandezza se non chi snobbava i raduni in piazza?
La madre era sbiancata, il padre guardava i figli, impietrito.
Il capo si era avvicinato a Fiore e con voce feroce aveva gridato che era un pezzente, un ladro e un antifascista infame. Gli chiese più e più volte chi lo avesse aiutato in quell’abominio.
Giuseppe vide il fratello cadere in ginocchio terrorizzato. Il capo, gli allungò un ceffone così brutale da stenderlo e, urlare:
- Non l’hai fatto da solo vero? Qualcuno ti ha aiutato? Chi? Confessa…- e gli allungò un calcio allo stomaco. Fiore, con un conato di vomito guardò il fratello e:
- Giuseppe - implorò in cerca di aiuto.
- Chi???- urlò il capo - è stato tuo fratello? Ha confessato l’avete sentito! - E gli appioppò un altro calcio ripetendo la domanda:
- Tuo fratello? - e Fiore stordito aveva lasciato cadere il capo in avanti e sembrò un “Si” fatto con la testa.
Ammanettati, li portarono al comando di Udine alla stregua di due assassini.
Chiaro che i due fratelli non c’entravano nulla, pagavano lo scotto della disubbidienza.
Due anni e venti giorni di reclusione, il verdetto per ciascun fratello.
Giuseppe fu mandato in Sardegna nel carcere dell’Asinara.
Dopo qualche giorno, in fila per ricevere il pasto, qualcuno bestemmiò perché la mescita della minestra andava a rilento. Il detenuto addetto alla distribuzione del cibo, alzò gli occhi e:
- Qui non si bestemmia!- sibilò in lingua friulana!
Giuseppe aveva drizzato le orecchie e, quando gli fu davanti:
- Anch’io sono friulano - aveva sussurrato.
L’altro lo guardò fisso negli occhi e gli riempì la gavetta. Giuseppe diventò amico di quell’uomo con il fisico di un gigante e buono come il pane. Ben presto lo propose al superiore quale spesino e gli venne assegnato il posto.
Doveva raccogliere le richieste dei detenuti sui generi di sopravvitto e consegnarli al direttore generale.
L’onestà, la vivacità e la generosità di Giuseppe, seppure in quel luogo orrendo, lo fecero benvolere da tutti e, come era accaduto da bambino nell’ospedale di San Vito, quello dell’Asinara fu per lui un periodo singolare, quasi bello. I detenuti rinchiusi si erano macchiati di reati gravissimi, ma avevano capito che lui non c’entrava nulla con loro. Lui non diceva di essere innocente, lo era! E diventò il confidente di molti di loro. A lui, confessavano atti commessi spaventosi. I detenuti erano per la maggioranza analfabeti e Giuseppe scriveva per loro tenendo i contatti con le famiglie. Aveva altresì capito che, era la condanna peggiore per loro era il rimorso.
Giuseppe era un asso al gioco delle carte e aveva messo da parte un gruzzoletto che gli sarebbe servito per tornare a casa.
Cominciò a star male alla fine della detenzione. Una febbre alta lo aveva assalito privandolo delle forze. Il giorno che si aprì il portone e sentì il vento della libertà schiaffeggiargli la faccia, a malapena percepì le voci dei suoi amici che dalle inferriate delle celle che lo salutavano urlando:
-Mandi furlàn!-
Un guardiano lo fece salire sul traghetto per Roma e poi alla tradotta per Udine. Lui cadde sfinito sul sedile di legno, mise il borsone come cuscino sotto il capo e si addormentò.
Lo svegliò un controllore:
-Sei arrivato!- Giuseppe aveva viaggiato tre giorni e due notti in preda della febbre altissima. Gli avevano rubato il borsone con i soldi e tutto il resto. Gli avevano lasciato solo il biglietto del treno. A casa avrebbe scoperto che la febbre era dovuta alla malaria.
Il 10 giugno 1940, fu chiamato a far parte dei corpi speciali e destinato alla campagna sul fronte italo - iugoslavo.
Giuseppe tornò a casa dopo l’armistizio del 8 settembre 1943.
La guerra lo aveva psicologicamente annientato. In molte operazioni cui aveva partecipato aveva visto la morte in faccia e visto morire il suo amico; e ancora le azioni brutali, violenze sui bambini, ma soprattutto sulle donne. Atrocità che i suoi occhi avevano fotografato indelebilmente.
Riprese la via di casa ma, non usufruì mai dei vantaggi che il periodo della guerra gli riconosceva. Era un uomo orgoglioso e nel suo vocabolario non esisteva pretendere il dovuto.
Solo quando ero diventata stata più grande e lui raccontava del suo tempo sprecato da innocente in carcere e poi in guerra, capii il perché di quelle regole.
Giuseppe era mio padre.
La conchiglia rossa
PARTE PRIMA
Erano diversi anni che le coste italiane, greche e turche, fossero approdi di umanità in cerca di speranza di vita. Vecchi scafi di legno, gommoni e qualsiasi mezzo che galleggiasse, erano usati per scappare senza nessuna parvenza di sicurezza per affrontare il mare aperto.
Giovani uomini e donne, molte incinte e specialmente bambini, spesso da soli, erano imbarcati per offrire loro un’ultima possibilità di futuro, quando ormai non c’era più nulla in cui sperare.
I bambini erano i più a rischio. Quante immagini di piccoli annegati che il mare aveva restituito sugli arenili, hanno fatto il giro del mondo, entrando nelle case, a cercare di risvegliare le coscienze, ormai abituate a restare indifferenti a qualsiasi orrore.
Infinite parole di circostanza, sono durate fino all’arrivo della successiva tragedia, senza che un rigurgito di umanità aprisse i cuori alla solidarietà umana, lasciata alla bontà dei singoli volontari dell’accoglienza, sindaci, medici, poliziotti, carabinieri, marinai, ultimi emblemi di fratellanza umana, all’interno di Stati e Continenti completamente assenti, come infastiditi da questa migrazione di esseri umani in cerca di un futuro migliore.
Il mare Mediterraneo fossa comune di 20.000 morti e quanti bambini cui è stato impedito di diventare adulti? Di portare la loro esperienza come seme di una ritrovata generale umanità, inutilmente da pochi implorata, ma sempre da nazioni, governi, ricchi di tante cose inutili, non considerata.
PARTE SECONDA
Era stata per Marco un’altra notte delle tante vissute al cardiopalmo. Era stata una scelta di vita che si sentiva obbligato con tutto se stesso a viverla fino in fondo. Solo così si sentiva in pace con se stesso e con gli altri. Lui l’umanità l’aveva dentro di se. L’aveva ricevuta con gioia. Era stato un dono che aveva capito e l’aveva fatto diventare grande dentro di lui fino a trasformarlo prima in un desiderio, poi in passione e infine in uno stile di vita.
I suoi genitori, il papà medico condotto del paese e la madre insegnante elementare, erano stati vittime di un incidente d’auto quando aveva solo dodici anni. Uccisi mentre percorrevano la pista ciclabile che dal paese portava verso le vicine colline a fianco della strada statale, nell’unica curva del tracciato, un’auto che arrivava a forte velocità guidata da un uomo che poi risultò essere ubriaco. Non aveva neanche accennato a rallentare l’andatura o a sterzare per impostare la curva e, continuando diritta la sua folle corsa li aveva travolti, lasciandomi esanimi a terra.
Era stato un colpo durissimo da superare per Marco e per i suoi nonni, che da qual momento, l’avevano cresciuto, con la speranza che l’impegno che si assumevano, potesse, almeno in parte, attenuare il dolore che attanagliava tutti e tre.
Marco poi continuando gli studi aveva scelto di intraprendere la professione del padre che fin da piccolo gli aveva insegnato quanto fosse importante fare del bene per gli altri e, nel suo caso, il bene era cercare di alleviare le sofferenze e i disagi delle malattie, specialmente delle persone più povere, che aggiungevano al male, anche l’impossibilità di potersi curare.
Alla fine degli studi Marco si era laureato in medicina e chirurgia, poi, spinto dal suo desiderio di aiutare il prossimo, si era specializzato in medicina d’urgenza e di primo intervento.
Il pronto soccorso dell’ospedale cittadino era diventato immediatamente la sua ragione di vita. Proprio lì aveva incontrato anche l’amore per Laura, anche lei medico di primo intervento con specializzazione pediatrica. La grande felicità dell’amore era subito stata addolorata dalla perdita dei nonni che, in poco tempo, uno dopo l’altro, se n’erano andati, portando con loro la gioia di aver visto Mauro diventare un uomo maturo e consapevole come lo era stato suo padre.
Tra le ferie rimandate da anno in anno per la mancanza di personale sufficiente in ospedale, i turni do lavoro al pronto soccorso che raramente avevano l’occasione di fare assieme e i rientri per sostituire qualche collega, Marco e Laura avevano poche occasioni di stare a lungo assieme, ma questo per loro non era un problema e neanche avevano fatto programmi per sposarsi; erano felici della loro professione a cui dedicavano tutte le loro energie e passione.
Così gli anni erano trascorsi, tra quello che inizialmente si era manifestato come un cruccio, nel vedere i primi sbarchi di profughi arrivare nelle spiagge italiane, greche e turche a cercare una speranza di vita e si era trasformato poi in un vero dolore.
Per loro due che lavoravano donando tutta la loro cura ed esperienza allo scopo di alleviare e curare le sofferenze, quelle scene strazianti, che quotidianamente la televisione proponeva, erano alla fine diventate un tormento, tanto che avevano preso in seria considerazione la possibilità di usufruire di tutte le ferie accumulate per andare a prestare la loro professione, come medici volontari, in un centro di primo soccorso presso i punti di accoglienza degli sbarchi dei profughi.
Avevano subito avuto le informazioni che cercavano da altri colleghi medici che li avevano preceduti, anche loro utilizzando le ferie per domare il loro aiuto.
La decisione di partire la presero insieme una delle poche sere che la combinazione dei turni li aveva messi assieme nel turno dalle 12 alle 24.
All’ora di cena, del 3 settembre 2015, nella mensa dell’ospedale, mentre stavano mangiando una pizza, parlando di com’era trascorso il pomeriggio al pronto soccorso, la televisione mostrò l’immagine del bimbo siriano, Aylan Kurdi, di tre anni, che si era annegato durante l’affondamento della piccola imbarcazione, partita dalla costa turca di Bodrum, con cui tentavano di raggiungere l’isola greca di Kos e approdare così in Europa.
«Che strazio!» avevano detto insieme, guardandosi negli occhi e coprendo con la mano, con il boccone di pizza ancora in bocca.
Il servizio televisivo, aveva a lungo commentato la tragedia…
“È troppo facile dimenticare la realtà di una situazione disperata che molti rifugiati devono affrontare”, commenta il conduttore, spiegando una scelta non scontata e lanciando, con una domanda, un appello:
“Se queste immagini straordinariamente potenti di un bimbo siriano morto su una spiaggia non cambiano l’atteggiamento dell’Europa nei confronti dei rifugiati, cosa può farlo?”.
Lo chiede agli inglesi terrorizzati dall’ondata di migranti nel tunnel della Manica e agli ungheresi che costruiscono muri, agli austriaci scioccati dai morti asfissiati nel camion, a tutti gli stati dell’Unione Europea che non sanno dare risposte alle centinaia di migliaia di disperati in fuga dal caos, al di là del Mediterraneo.
L’Onu: ‘Il mondo intero guardi alla crisi di rifugiati e migranti’.
L’Unicef: ‘Lo choc non basta, ora bisogna agire per evitare di dare la vita dei bambini in mano ai trafficanti’.
Nilufer Demir, è la fotoreporter che ha scattato la foto simbolo della crisi umanitaria legata all’immigrazione.
‘Quando ho visto quel bimbo, sono rimasta pietrificata. Sulla spiaggia di Bodrum, Aylan Kurdi, giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu, piegati all’altezza della vita. L’unica cosa che potevo fare, era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti.
Il fratello di Aylan, “Galip, di 5 anni, giaceva a 100 metri.
Mi sono avvicinata e ho visto che non aveva giubbetto salvagente. Immortalare quella scena era un mio dovere professionale, nella speranza che, grazie a quello scatto, qualcosa possa cambiare’.
Il padre di Aylan: ‘Ho tentato di salvare i miei ragazzi’ racconta. ‘Li stringevo entrambi quando la barca si è capovolta, ma un’onda alta prima ha ucciso mio figlio più grande, Galip, e poi si è presa il più piccolo’.
Anche Rehan, moglie di Abdullah e mamma dei due bambini, è morta.
Abdullah ha spiegato che aveva provato a raggiungere l’Europa tante volte per scappare da Kobane, la città curda assediata lo scorso anno dagli jihadisti dello Stato islamico: ‘Stavolta ero riuscito, con l’aiuto di mia sorella e mio padre, a mettere insieme 4mila euro per fare questo viaggio. Arrivati a metà della traversata, la piccola imbarcazione di cinque metri è stata colpita da diverse onde. Improvvisamente abbiamo visto il trafficante turco saltare in mare e ci hanno lasciati soli a lottare per le nostre vite. Sono rimasto tre ore in mare, fino all’arrivo della guardia costiera turca’.
Le autorità turche hanno arrestato i quattro presunti scafisti.
Il giornale “Ottawa Citizen”, quotidiano canadese, sostiene che la zia di Ayalan, Teema Kurdi, attualmente viva nel paese nordamericano, abbia fatto diversi tentativi per far ottenere il visto a tutta la famiglia; la richiesta sarebbe stata rifiutata in giugno. Dopo quanto accaduto, il governo canadese ha offerto ad Abdullah la possibilità di andare lì.
‘Dopo quanto è accaduto, non voglio andare. Porterò i corpi prima a Suruc, poi a Kobane. Passerò lì il resto della mia vita. Voglio che il mondo intero ci ascolti dalla Turchia, dove siamo arrivati fuggendo dalla guerra. Sto soffrendo tantissimo, faccio questa dichiarazione per evitare che la stessa cosa succeda ad altri’. …
«Che strazio!» avevano ripetuto, e non avevano terminato la pizza; il servizio appena visto gli aveva fatto passare la fame e fatto venire il groppo alla gola.
«Andiamo a dare una mano a quest’umanità soffrente?» aveva detto decisa Laura, mentre due lacrime le solcavano il viso a quella visione terribile.
«Andiamo!» aveva risposto Marco, sforzando un lieve sorriso per rincuorarla e stringendola a sé.
Dopo una settimana, adempiuto gli obblighi formali delle consegne e avuto il benestare dell’amministrazione dell’ospedale a usufruire di due mesi di ferie arretrate, erano arrivati a Lampedusa.
Non c’era stato il tempo di ambientarsi; la situazione di piena emergenza li aveva messi subito in prima linea nelle operazioni di accoglimento dei profughi.
PARTE TERZA
Marco e Laura si erano resi conto immediatamente di quanto era diverso lavorare al pronto soccorso dell’ospedale rispetto alle condizioni di essere in prima linea ad accogliere quelle persone che, spinte dalla disperazione salivano si qualsiasi natante, anche mezzo sfasciato pur di alimentare ancora un sottile filo di speranza nel futuro proprio e dei propri figli.
La differenza vera tra gli ammalati dell’ospedale e i migranti, era proprio quella: la mancanza di speranza e la desolazione della rassegnazione! La mancanza di futuro, che svuota i loro occhi della luce della speranza nel domani, che li tende invisibili, dei morti viventi. La rassegnazione che ha prosciugato le loro lacrime al morire della speranza.
Le prime due settimane erano state intensissime di sbarchi favoriti dal bel tempo; si sentivano distrutti non tanto dalla fatica e dall’impegno assiduo e senza orari, ma dallo stress emotivo di incrociare le loro esistenze con quell’umanità implorante che, a mani tese, chiedeva aiuto.
Erano comunque felici di essere lì, dove avevano a lungo desiderato di esserci per offrire le loro braccia e le loro capacità ad alleviare le sofferenze.
Alla fine di ogni settimana, dopo cena partecipavano a una riunione operativa di tutti i medici per la programmazione dei turni per la settimana successiva.
Al termine delle due settimane, rientrando per la cena, Marco si era sentito particolarmente stanco e prima di cenare aveva detto a Laura che si concedeva un sonnellino di mezz’oretta seduto sulla poltrona per rilassarsi e recuperare un po’ di energia prima di andare alla riunione dei medici.
«Mi sento le palpebre come se fossero due blocchi di cemento che non riesco più a tenere aperte…» aveva detto addormentandosi di colpo, con la testa abbandonata all’indietro sullo schienale della poltrona…
PARTE QUARTA
Il suono forte, stridulo e incessante del cellulare di servizio ruppe il silenzio della stanza.
Marco al suono ebbe un sobbalzo. Nel display lampeggiava il codice di emergenza medica, di presentarsi immediatamente al porto.
Laura non era presente. Probabilmente era uscita per acquistare qualcosa al vicino supermercato, ma siccome aveva anche lei, era dotata del medesimo cellulare di servizio, non si preoccupò; si sarebbero poi incontrati al porto, come altre volte era successo.
Partì immediatamente, correndo in direzione del porto ancora un po’ assonnato.
Al porto, un fermento di gente che correva in tutte le direzioni, ma tutti sapevano bene cosa fare. Era arrivato un dispaccio di avvistamento di tre natanti carichi all’inverosimile di migranti siriani, che, partiti dalle coste libiche, una volta arrivati nelle acque internazionali avevano incontrato il mare in tempesta e si erano rovesciati.
Il mare, già dal primo pomeriggio aveva iniziato a ingrossarsi, tanto che l’arrivo incessante che li aveva impegnati per tutta la mattinata e primo pomeriggio, verso sera si era attenuato, per cessare completamente con il continuo ingrossarsi del mare.
Laura era arrivata subito dopo al porto e assieme si erano imbarcati su una delle sei motovedette del convoglio della Guardia Costiera, partite per dare soccorso.
Era la prima volta che Marco lasciava il centro di accoglienza e affrontava un mare così grosso, ma si sentiva lo stesso felice. Affrontare la paura, superare la comoda, calma e protettiva esistenza di città che lo faceva sentire tranquillo e al riparo delle avversità era il modo più giusto di dare la mano concreta a chi è nel bisogno. Ora lo spirito che lo aveva spinto a intraprendere la sua professione lo sentiva pulsare dentro di se e gli dava il coraggio e la serenità di operare al massimo delle sue capacità.
Giunti al posto del naufragio, lo scenario che si presentò dinanzi superò ogni attesa che l’esperienza fino allora aveva maturato e l’immaginazione avesse potuto preventivare.
“C’è un limite umano a tutto e ognuno ha il suo. Chi, come me fa la vita in un pronto soccorso forse lo dovrebbe avere più forte e temprato, ma davanti a questo strazio sovrumano che raggela il cuore si può solo sperare di non lasciarsi andare alla disperazione o di esserne travolti” pensò Marco ed era più una preghiera che la constatazione della realtà che aveva dinanzi.
La presenza di Laura, l’equipaggiamento di sicurezza in dotazione e la professionalità dell’equipaggio, erano i componenti che, in quelle difficili condizioni, davano a Marco la tranquillità e il tempo di prepararsi, a quello che avrebbero dovuto affrontare una volta giunti al punto dove le imbarcazioni dei naufraghi erano affondate.
Le sei motovedette navigavano molto distanziate per tenere un buon margine di sicurezza con il mare così grosso. Marco notava che le condizioni atmosferiche peggioravano man mano che s’inoltravano in mare aperto e il solo pensiero di come stessero vivendo quei naufraghi alla deriva, gli facevano venire i brividi. Aveva incrociato lo sguardo pure preoccupato di Laura, si erano strette forte le mani in un lungo silenzio, tra il frastuono del temporale e il ruggito sordo del mare rabbioso e nero. Poi, come facevano spesso quando si trovavano ad affrontare situazioni difficili in ospedale, avevano ripetuto il loro rituale: prima incrociato gli occhi, poi li avevano chiusi e quello era il segnale di recitare una breve preghiera con il cuore, una supplica invocativa per essere aiutati e sorretti a compiere la loro opera nel migliore dei modi. I loro occhi si erano riaperti con una nuova luce e come in tutte le altre volte che l’avevano richiesto, anche questa volta erano stati esauditi e rinforzati nello spirito. Un accenno di sorriso, come a dirsi: “OK . Siamo pronti. Ce la faremo anche questa volta!”. Contando nella loro assoluta preparazione e nel metodo sperimentato di operare assieme a procedure consolidate, dava loro, la giusta serenità per affrontare con professionalità il loro compito, per le difficilissime condizioni ambientali che li circondava.
Era notte fonda quando arrivarono al punto del naufragio. La situazione sicuramente difficile che avevano pensato di trovare era disastrosa, apocalittica, indescrivibile.
La mancanza del supporto degli elicotteri a illuminare la zona, causa il pessimo tempo, si dimostrò essere il problema maggiore. Tutti gli equipaggi sapevano bene cosa fare, ma era impossibile decidere: come fare!
Attuato tutte le procedure previste: lancio dei salvagenti, zattere autogonfiabili, cime e messo in mare piccoli gommoni, restava il problema di come riuscire in quella tempesta a raggiungere i naufraghi. Dispersi in un’area vastissima, un attimo si vedevano vicini sotto di noi, che sembrava di potersi afferrare, un attimo dopo erano portati in alto sopra un’onda e irraggiungibili. Il vento forte mulinava in giro all’imbarcazione facendo ruotare anche i poveri naufraghi.
Con pazienza si riuscì ad afferrare i primi che fortunatamente le onde portavano vicino l’imbarcazione che a sua volta era continuamente spostata dal vento e dalle onde diventando un approdo in continuo movimento, difficile da raggiungere da parte dei naufraghi.
I naufraghi che si cominciavano a recuperare erano tutti giovani e in gran parte donne, ma la vera preoccupazione erano i corpi che si notavano galleggiare senza più nessun accenno di vita.
Il vento che cambiava continuamente direzione, portò a vista una delle barche naufragate, obbligando il comandante spostarsi di conseguenza per tenerla il più possibile nella condizione ideale per soccorrere i naufraghi ancora agganciati allo scafo capovolto.
Una giovane donna, la prima salita a bordo, recuperata dall’imbarcazione alla deriva, appena riprese fiato si mise a gridare in lingua inglese che sotto quello scafo capovolto c’erano delle bambine, che essendo state legate alle tavole dello scafo, al momento del capovolgimento non era stato possibile liberarle.
Il capo squadra chiese la disponibilità di un medico di affiancarsi a lui per andare a soccorrere quelle piccole creature. Due uomini avrebbero tentato di legare con delle funi l’imbarcazione, altri due e un medico avrebbero tentato di soccorrere le persone in mare. Marco era già pronto. Diede prima un accenno di assenso a Laura, poi l’Ok al capo squadra e si misero in mare.
Non fu facile raggiungere l’imbarcazione alla deriva. Il mare nero ululava rabbioso e sembrava di essere immersi in un enorme pentolone di melassa in ebollizione. Sopra di noi il cielo era di un nero inferno che credo nessun pittore lo avesse potuto rappresentare. I lampi accecanti dei fulmini che sembravano attirati dalla nostra unica presenza di umanità in quel catino di mare, lo facevano vedere ancora più nero di quello che era. Una grandine fitta graffiava i visi. Era la vera rappresentazione dell’inferno. Pensò che quell’insieme tetro e spaventoso, diventasse da un momento all’altro un enorme buco nero che inghiottisse tutto, così da rendere di nuovo umano quel lembo di mare che rappresentava il culmine del dramma umano.
Nessun naufrago era rimasto appeso al relitto. Intorno a noi vagavano corpi di superstiti inermi che le onde, spinte dalle raffiche del vento li facevano ruotare attorno allo scafo in un perverso girotondo come fossero fuscelli di paglia.
Arrivato per primo al bordo dello scafo rovesciato. Marco entrò sotto a cercare se c’erano le bimbe che la donna salvata aveva annunciato. Al primo momento a un controllo veloce non riuscì a vedere niente, e sospettò che la donna in quella confusione concitata che sicuramente era avvenuta prima e dopo il naufragio avesse potuto scambiare uno scafo per un altro.
Poi un’improvvisa onda fece alzare la prua dello scafo e proprio agganciato a una tavola che fino a quel momento era nascosta, dall’oscurità apparve come un piccolo pacchettino, prima che lo scafo ricadesse su se stesso e nasconderlo nuovamente.
Marco, al solo pensiero che si trovava sotto quel relitto e a pochi metri doveva esserci una bimba in difficoltà, si senti addosso la forza di cento leoni. Arrivò alla prua e con un coltello recise la stoffa che legava quel corpicino allo scafo e la depose sopra il salvagente di scorta che teneva legato alla cintura in vita.
Essere sotto lo scafo, protetto dalle raffiche di vento e dalla tempesta, gli permettevano di poter operare con un po’ di più tranquillità che se fosse stato all’estero in piena burrasca.
La luce apposta sull’elmetto poi lo aiutava a valutare meglio la situazione e ciò nonostante le sue pulsazioni erano salite alle stelle.
Il corpicino era in una condizione di grave ipotermia. E lui conosceva bene quella condizione; spesso arrivavano al pronto soccorso pazienti in ipotermia, ma di solito avevano i brividi che facevano tremare tutto il corpo, con l’impossibilità di controllarne l’effetto. La piccina, che potrebbe aver avuto al massimo un anno di vita, anche se immediatamente aveva iniziato a massaggiarla, non rispondeva, era gelida e rigida! Il respiro quasi assente, come il battito cardiaco.
«Qui ci vuole Laura! Qui ci vuole Laura!» cominciò a gridare mentre il cuore gli era salito alla gola che pareva soffocarlo per la paura di essere arrivato troppo tardi e continuava a recitare come un infinito rosario:
«Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura! Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura!»
Dopo i primi attimi si accorse che la mano destra della piccina era meno gelida della sinistra e la teneva stretta al corpo con il pugno chiuso al centro del petto.
«Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura! Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura!».
Marco cercò di aprire quel pugnetto chiuso per massaggiare bene la mano, ma sembrava di gesso! Non si apriva! E in più, spostando il fascio di luce della pila dalla manina, si accorse che racchiudeva qualcosa di piccolo, ma che emetteva anche della luce rossastra a intermittenza.
«Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura! Devo fare in fretta! Qui ci vuole Laura!».
Proprio in quel momento batterono tre colpi sullo scafo; era il segnale convenuto con il marinaio della sua squadra cui doveva rispondere con tre colpi per confermare la sua presenza e la richiesta che entrasse anche lui sotto lo scafo per aiutarlo, oppure doveva rispondere con un solo colpo e prepararsi a uscire per il rientro alla loro motovedetta.
«Dobbiamo fare in fretta! Dobbiamo portarla immediatamente da Laura!».
Il compagno capì al volo la gravità e aiutò Marco a coprire il corpicino con un telo termico impermeabile per proteggerla a fino all’arrivo nella motovedetta.
Marco e il compagno nuotarono fino alla motovedetta come se avessero le eliche al piedi. Si erano dimenticati anche della condizione del mare. Arrivato nei pressi della motovedetta, Marco cominciò a sbracciarsi e gridare con tutta la voce che ancora riusciva a emettere, per dopo lo sforzo che aveva fatto che lo aveva stremato.
«Laura! Laura! Preparati questa bambina è in ipotermia! Bisogna intervenire presto!».
Tutti si adoperarono al massimo, anzi di più, per non perdere un solo attimo che poteva essere fatale! In mezzo a quell’ecatombe che si stava compiendo, era indispensabile salvare una vita umana. Bisognava dimostrare a se stessi e a tutto il mondo, l’importanza della vita, dell’aiuto, del sacrosanto dovere innato di aiutare chi cerca disperatamente di fuggire all’orrore della guerra per cercare a qualsiasi costo e pericolo una speranza di vita.
Laura immediatamente prende cura della piccola. Mentre attendeva il ritorno di Marco, aveva parlato a lungo con la donna che aveva comunicato la notizia che la piccola era all’interno del barcone legata allo scafo. La bimba si chiama Farida (perla rara). Alla partenza del barcone era stata portata da una donna che asseriva, essere un’amica dei genitori, entrambi morti sotto un bombardamento, appena che Farida era nata. La madre aveva lasciato detto a questa sua amica che se fosse successo qualcosa a loro due genitori, in mancanza di altri parenti che potessero accudirla, avesse fatto in modo di caricarla su un barcone verso l’Italia per cercare una speranza di vita per il suo avvenire e così era stato.
PARTE QUINTA
Laura si era trovata in un caso che, valutando le condizioni della piccola, definirlo per il momento, disperato, era ottimistico.
Al suo fianco Marco, era come se non fosse più un esperto medico di pronto soccorso. L’agitazione che si era impossessata di lui al momento che aveva raccolto la piccola Farida, non l’aveva più abbandonato. Stando al fianco di Laura, continuava a chiederle:
«Non si riprende! Mio Dio! Cos’altro possiamo fare? Dimmi Laura! Se non si riprende, non potrà resistere a lungo in queste condizioni critiche». Le sue parole, pronunciate con le mani in aria, mosse dal desiderio di voler, di poter fare qualcosa erano allo stesso tempo, una constatazione data dalla ragione, una domanda dettata dal desiderio e un’implorazione suggerita dal cuore!
Marco desiderava almeno utilizzare le sue mani per il momento immobili, almeno per accarezzare quel corpicino freddo, darle un po’ di calore, di vita. E un pensiero terribile gli
si presentò prepotente: “Farida, nella sua breve esistenza, nell’inferno della guerra, sarà riuscita ad avere una carezza dai suoi genitori? Pochissime, stando al racconto della donna che l’aveva caricata sul barcone.
Un elemento di assoluta novità e imprevedibilità, oltre alle condizioni critiche generali, era dato dal fatto che la manina destra di Farida, che continuava a essere con il pugnetto chiuso e rigido, assieme al braccino, posato in centro al petto. Impossibilitati per il momento a forzare l’apertura delle dita, non si riusciva a capire cosa fosse racchiuso in quel pugnetto che emanava dei flebili impulsi intermittenti di luce rossa, con il medesimo lento e appena percepibile ritmo cardiaco rilevato dalla strumentazione.
Laura stava concentratissima a interpretare un qualsiasi piccolo segnale che potesse guidarla a individuare meglio su come procedere. Completamente chinata sul corpicino di Farida, aveva fatto un perentorio cenno a Marco di calmarsi per non disturbarla e sembrava aver smesso anche di respirare, tutta protesa a individuare l’evoluzione del caso, che, maledizione, non arrivava.
Trascorsi alcuni minuti, che sembravano interminabili, con la situazione immutata, con gli occhi di Marco e Laura che osservavano ogni millimetro di quel corpicino in attesa di un segnale che ancora tardava a manifestarsi, che d’improvviso entrambe notarono che il tenue raggio di luce che filtrava dalla manina, aveva aumentato di un po’ la sua intensità. Contemporaneamente:
«I sensori indicano che comincia ad acquisire temperatura» dissero assieme guardandosi felici negli occhi. Era solo un piccolo segnale, ma significativo.
«Cominciamo a massaggiare lentamente i piedi con poca pressione, solo sfiorandoli. Poi passeremo a fare altrettanto nelle mani e braccia» suggerì Laura.
Era per fortuna iniziata la svolta decisiva.
I massaggi si dimostrarono essenziali. Le articolazioni lentamente persero la rigidità e quando riuscirono alla fine a massaggiare anche la manina che racchiudeva quel qualcosa che emanava quella strana luce rossa palpitante, con loro immensa meraviglia scoprirono che era una piccola conchiglia rossa chiusa, che, anche dopo averla tolta dal palmo della mano di Farida, continuava ad emanare la luce e pulsare.
Marco e Laura non avevano mai visto una cosa simile. Cos’era? Un giocattolo? Un talismano? Nessuno dei due si sentì di formulare una spiegazione a quel mistero, e non c’era né il tempo, né il luogo adatto, però di comune accordo stabilirono che quella stana conchiglia dovesse rimanere a Farida, così prima la legarono con dello spago e gliela misero al collo.
Il viso di Farida intanto aveva iniziato a prendere colore e a muovere gli altri. Sembrava che gradisse i massaggi, forse li scambiava per carezze: le prime carezze della sua vita, appena riagguantata proprio all’ultimo istante.
Marco e Laura tirarono un grosso respiro di sollievo: la temperatura di Farida continuava piano a salire, così da permettergli di poter iniziare la terapia del caso. Era anche il momento di un abbraccio tra le lacrime di gioia che rigavano i loro volti: era una delle poche sopravvissute a un’immane tragedia che aveva sepolto in fondo al mare centinaia di vite umane.
Le condizioni della piccola Farida restavano comunque sempre critiche, tanto che Marco fece presente al comandante la necessità di rientrare immediatamente in porto in modo da poterla portare in un ospedale attrezzato.
Restava da chiarire il mistero della conchiglia che emanava calore e luce pulsante, ma, seppur fosse interessante approfondire e studiare a fondo la struttura, le caratteristiche e gli effetti che aveva avuto o provocato su Farida, era di vitale importanza stabilizzare prima le condizioni della bambina.
Il rientro in porto fu meno difficoltoso del previso perché il vento spingeva a oriente la tempesta. All’arrivo già era pronta un’ambulanza per l’aeroporto, dove un aereo aveva già avuto l’autorizzazione al decollo per l’aeroporto Punta Raisi – Falcone e Borsellino di Palermo.
Un’ora solo di volo e ancora quaranta minuti con un’ambulanza avremmo raggiunto l’ospedale Pediatrico G. Di Cristina.
Marco e Laura non abbandonavamo un attimo gli occhi di dosso da Farida. Ogni attimo che trascorreva senza l’insorgere di nuovi problemi, era un passo in più verso la tranquillità. Laura poi conosceva bene quell’ospedale con cui aveva avuto occasione di collaborare per diversi casi e non vedeva l’ora di arrivarci. Entrambi facevamo quel viaggio come fossero in apnea e non vedevano l’ora di arrivare, per tranquillizzarsi un po’ e riprendere la normale respirazione.
Farida per tutto il viaggio, anche se immobile, li osservava. I suoi occhi erano languidi, lontani, impauriti, ma nonostante, non avesse la forza di tentare di esprimere un sorriso per dar luce al suo visino, non esprimevano più il terrore infinito dei primi minuti quando Marco l’aveva ritrovata al buio sotto lo scafo e la conchiglia, continuava a pulsare luce con un’intermittenza pari al suo battito cardiaco, debole ma regolare.
Arrivati all’ospedale le piccina fu affidata all’equipe di servizio. Marco e Laura restarono a disposizione per dare tutte le informazioni del caso necessari e a stilare la cartella clinica e, senza nemmeno accordarsi tra loro due, vollero che accanto, alla dichiarazione della donna che aveva raccolto la storia di Farida, fosse evidenziato che loro due, una volta accertata la condizione di abbandono di Farida, volevano adottarla.
Ora che Farida era nelle condizioni di ricevere tutte le cura che aveva bisogno, emerse quello che già Marco aveva notato, ma che fino ad allora non c’era stato il modo di analizzarlo a fondo: la conchiglia che pulsava ed emetteva luce con la frequenza cardiaca della piccola Farida.
Nessuno dei medici presenti si sentì di elaborare una risposta, né di definire il da farsi. La presenza della conchiglia metteva in campo un aspetto sconosciuto e misterioso che portava in campo due problematiche, la prima di natura medica riferita a Farida, perché nessuno era sicuro di cosa potesse succedere alla piccola togliendole di dosso la conchiglia rossa; la seconda invece investiva l’aspetto della sicurezza, non conoscendo che cos’era quella starna conchiglia rossa.
Di che materiale era composta?
Erano pericolose le sue pulsazioni ed emanazioni di luce e calore?
La piccola paziente aveva bisogno di essere sottoposta ad accertamenti radiologici e tac considerati di ruotine per il suo caso. Per consentire al suo debole cuore di pulsare doveva tenere addosso la conchiglia rossa e nessun medico era in grado di stabilire se fosse pericoloso sottoporla alle radiazioni.
La direzione medica chiamata d’urgenza decise intanto di spostare la piccola in un reparto d’isolamento e di chiamare uno scienziato, biologo marino, per analizzare la conchiglia rossa. Contemporaneamente fu avviata con urgenza la verifica dello stato di abbandono allo scopo di avere una informativa completa del caso.
Intanto era d’obbligo procedere “a vista” in attesa di qualche chiarimento.
PARTE SESTA
Giungono rapide le risposte che, la conferma dello stato di abbandono di Farida è confermata, e la domanda di adozione, risulta presentata in forma regolare e completa e avviata, con valutazione positiva e urgente, con le procedure di legge, verso una positiva conclusione.
Le analisi della conchiglia restava il punto fondamentale da chiarire per poter, prima definire una diagnosi precisa e poi iniziare la terapia a Farida.
In attesa del risultato, Marco fa una ricerca, ma non trova risposte oltre alla composizione della struttura delle conchiglie: “Essenzialmente costituite da sostanze inorganiche come il carbonato di calcio o fosfato di calcio che cristallizzandosi forma la calcite e l’aragonite. La struttura di una conchiglia è data proprio dalla natura e dal tipo di aggregazione dei cristalli: a seconda di come essi sono disposti, l’aspetto cambia”.
La constatazione rende immediatamente chiaro che qualcosa sfugge sia a lui sia ai ricercatori e non fa a tempo a prendere forma una plausibile risposta che una notizia che appare improvvisa e preoccupante, su tutti i media, viene a rendere ancora più sconvolgente l’apparizione della conchiglia rossa.
La notizia ha una portata mondiale! Improvvisamente si moltiplicano i ritrovamenti di conchiglie rosse con le stesse caratteristiche, in tutte le spiagge marine.
Nessuno è in grado di stabilire se considerare l’evento, un pericolo, una calamità o un’apparizione senza conseguenze.
Migliaia i commenti e le dichiarazioni che, in mancanza di poter definire la composizione della materia, vertono su legittimi interrogativi:
È dovuto a un intervento extraterrestre? Divino?
Che pericoli o cambiamenti si possono verificare?
Quali rimendi immediati?
Tutti commenti, dichiarazioni appropriate e domande legittime, ma a nessuno è venuto in mente, neanche lontanamente che l’avvenimento che era avvenuto e che stava ampliandosi, avrebbe rivoluzionato il modo di vivere e pensare del mondo intero e che nessuno aveva la facoltà o il potere di fermarlo e modificarlo.
Marco, solo ora si accorge di essere stato scelto dal destino a essere il primo a scoprire l’apparizione della conchiglia rossa e, seppur la presenza di Laura gli sia di conforto, non riesce ancora a rendersi bene conto di quanto sta avvenendo, ma confida a Lara che una strana sensazione di serenità e pace l’ha invaso, e le svela anche che si è fatto strada in lui una sensazione che tutto quello che sta succedendo sia positivo.
I media lo sollecitano a raccontare il suo incontro con Farida, ma lui, com’è nel suo stile, ringrazia e rinuncia, dicendo che non ha niente da aggiungere.
Il mondo intero resta in ansia nel verificare quanto sta succedendo.
PARTE SETTIMA
Trascorrono alcuni giorni, senza sostanziali novità. Intanto giungono le risposte che: lo stato di abbandono di Farida, che proprio quel giorno compie tredici mesi, è confermato, e la domanda di adozione, risulta presentata in forma regolare e avviata, con valutazione favorevole e urgente, tramite le procedure di legge, verso una positiva conclusione.
Continuano le scoperte sulle spiagge e la raccolta delle conchiglie rosse. Alcune prime novità emergono, poi ci pensano i media a diffondere le notizie e giorno per giorno tenere tutti aggiornati. Alcuni aspetti cominciano a divenire particolarità e abitudini consolidate e l’effetto è quello di una pacifica rivoluzione mondiale che giorno per giorno coinvolge tutti.
Farida, pur in assenza d’interventi medici, improvvisamente migliora. Il torpore si attenua e poi scompare, lasciare il posto a un accenno di sorriso che vaga a trovare approdi di sicurezza e quando incrocia lo sguardo di Marco e Lara, s’illumina il viso. La conchiglia rossa aumenta le sue pulsazioni quando Farida allunga la mano in cerca di un contatto che avviene forte, sicuro e amorevole. Marco e Lara sono alle stelle!
Confortata dal contatto Farida, si rilassa e lo accompagna a un sonno ristoratore. Marco e Lara tentano di sciogliere le loro mani per lasciarla più libera, ma appena provano ad abbandonarle la conchiglia rossa aumenta il suo battito e Farida inizia a tremare, così le restano accanto.
Farida al risveglio sembra rigenerata. Ha ancora le mani strette tra quelle di Lara e Marco e con un sorriso deciso e sicuro, preso atto della loro presenza rassicurante, prima sorride, poi svincola le sue manine per aiutarsi a mettersi in posizione seduta e avvicinarsi ai visi di laura e marco per accarezzarli e stringersi a loro. La conchiglia rossa non altera le sue pulsazioni. Loro due provano a offrile da bere e Farida gradisce veramente, poi riesce anche a mangiare dei biscotti.
Lara e Marco sono al settimo cielo. Come stessero giocando, le fanno una visita e le condizioni che accertano sono decisamente buone. Non è servito niente per ripristinare una condizione di normalità: solo donarle amore!
PARTE OTTAVA
Uno tsunami gigantesco aveva travolto e sepolto in un secondo i miserabili ed egoistici interessi che avevano fino ad allora guidato il mondo, verso interessi personali, nazionali e politici che avevano portato a far scomparire, l’amore e la dignità, facendo diventare necessario il superfluo e la povertà una colpa.
Un misterioso impulso aveva improvvisamente fatto riscoprire, a tutti, i sentimenti veri dell’uomo, come la pace, l’amore, la fratellanza, che facevano riscoprire quanto di straordinario avevamo perso: la gioia di vivere.
La ricerca per venire in possesso ognuno dalla propria conchiglia rossa non generò alcun problema. Ci si accorse subito che quanto era accaduto era regolato da un ordine supremo che contemplava precise e democratiche regole.
Solo una conchiglia rossa aveva i poteri, diventava personale al momento che era colta. Tutte le altre che si coglievano immediatamente perdevano i poteri, ma se si donavano a chi non ancora ne aveva possesso, riacquistavano il potere verso chi le otteneva in dono.
Il bene prese il sopravvento su tutto e trionfò illuminando le menti per eliminare le ingiustizie e il male. Una forza soprannaturale s’impossessò degli uomini, inducendoli ad avere ognuno la propria conchiglia rossa pulsante che rendeva felici.
In poco tempo tutti la portavano al collo come simbolo della nuova era di felicità.
PARTE NONA
«Marco… Marco…», prova a chiamarlo Lara, ma lui non accenna a rispondere. Sembra all’interno di un sonno profondo.
«Marco! Marco!», insiste a chiamarlo Lara, con un tono di voce più forte. Nessuna reazione!
«Marco! Marco! Dobbiamo andare! Svegliati! È tardi! Forza!», quasi grida, con la bocca vicino le sue orecchie e scuotendolo con le mani afferrate alle sue spalle.
«Marco! Marco! Marco!» continua, ormai preoccupata della sua difficoltà a risvegliarsi.
Continua a chiamarlo…, gli accarezza il viso per stimolarlo al risveglio.
Passano alcuni minuti…, Marco, lentamente inizia a svegliarsi.
«La conchiglia…, la conchiglia rossa…, dobbiamo andare a raccoglierle per noi…, per te…».
«Tesoro! Hai avuto un incubo? È da tanto che tento di svegliarti! Ti ricordi che dobbiamo andare alla riunione dei medici?».
Marco sussulta…, appare turbato…
«Tesoro! Hai avuto un incubo?», riprende Lara preoccupata.
Marco non risponde.
Ha bisogno di riordinare le idee…, rientrare nella realtà…
Poi un sorriso lo illumina, abbraccia Lara, la stringe forte a se…
«Lara, tesoro mio! No. Non ho avuto un incubo. Ho sognato il futuro, il paradiso! È bellissimo credimi! Ma ora andiamo a fare il nostro dovere. Ti racconto per strada…, la storia di Farida, la perla rara, la nostra vita assieme, ricomincerà con lei».