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Alberto Pedrazzini
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Alberto Pedrazzini
È nato a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia.
Ingegnere e architetto, per diversi anni è stato professore incaricato di “Storia dell’Architettura” presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Territorio della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna.
La sua attività di ricerca gli ha consentito di pubblicare libri, saggi e articoli su diverse riviste di settore.
Ha partecipato a missioni umanitarie nei paesi dell’Africa e del Sud America.
Assai diversificati i suoi interessi, da quelli storiografici a quelli musicali, in particolare del violino, e la grande passione per la poesia.
Numerosi i primi premi in concorsi letterari, nazionali e internazionali, Menzioni d’onore e di Merito.
Già presente edizione
“Leggere lagune”
Poesia
(dalla silloge “Corrispondenze”)


INDESIDERATI
PUÓ DARSI CHE IL MIO DESTINO
VORREI CHE TU FOSSI QUI
CITTÀ DELL’ASSENZA
PER UN CENTESIMO DI PACE
INDESIDERATI



La simmetria della foglia,
il teorema costruttivo del ragno
o la costanza della proporzione aurea
non appartengono alla natura
delle anime sgualcite.
Ombre prive di memoria,
e già traghettate all’inferno
per condizione, non per scelta.
Gli indesiderati danno fastidio;
gocciolano fili di saliva,
hanno odori che pizzicano,
fiati densi di vapori e solitudine.
Infastidiscono per i rantoli cupi,
per i balbettii inconsci
di sillabe senza suono,
di note stonate.
È il chiamarsi dei nascosti
sul ribrezzo dell’indifferenza.
Nel di qua non c’è decenza
per le verità dei diversi.
Gli indesiderati sono crepe
della società,
viaggiatori senza biglietto
su di un treno in ritardo,
abbonati fuori elenco,
in attesa di una carezza
che ne giustifichi il riscatto.
Il carcere dei loro corpi spastici,
gli sguardi persi sull’invisibile,
sono il cuore di un’umanità
fragile, innocente.
La mano che si offre loro,
riveste indicibili spazi di carità.
PUÓ DARSI CHE IL MIO DESTINO
Può darsi che il mio destino,
così già per mio padre e mio nonno,
fosse di rimanere qui,
fra un ponte e l’altro del Po,
dentro una campagna piatta
che mi fosse, a un tempo,
casa, ombrello o cappotto,
proprio come il guscio della lumaca.
La stranezza è che sia qui
e non altrove.
Qui, dove anche il più umile dei campi,
dei caseggiati, il più povero degli orti
o degli oratori sparsi
gareggia, nella sua bellezza dimessa,
con i giardini ben curati, i palazzi
nobiliari, le chiese di città,
in un intrecciarsi di differenze
che il Po riconosce e unisce.
L’unica ragione è perché ci sono nato.
Non ne vedo altre.
Alla fine, le cose che contano
sono quelle che si infilano
nelle pieghe più nascoste
e accarezzano l’anima
come fa il vento quando porta
nelle narici
il profumo della primavera o dell’autunno;
immagine di un ricordare che sa di orti e stelle,
di occhi che ti salutano per un lungo viaggio
o per sempre.
Avevamo davvero bisogno di fermarci,
con naso e bocca coperti,
e riflettere alla distanza
infinita del metro.
VORREI CHE TU FOSSI QUI
Vorrei che tu fossi qui, papà.
Vorrei che mi dicessi
ancora una volta:
“abbracciami”,
i tuoi occhi nei miei
gonfi di lacrime
mentre schiudi un sorriso.
Vorrei poterti dire:
sono passato a trovarti
portandoti il saluto degli amici
e l’odore buono di casa.
E che oggi c’è il sole
oppure piove.
Vorrei poterti dire:
ritornerò domani, domani l’altro,
e, imboccandoti,
incoraggiarti a mangiare.
Scorrono le immagini
di ciò che siamo stati
io e te, padre e figlio.
Immagini di una vita
che vive nel mio ricordo.
Ti penso in viaggio
verso chissà dove
e assaggio l’aria di primavera
camminando con piede
leggero lungo il viale
fra le croci di un cimitero.
CITTÀ DELL’ASSENZA
Sfuma i suoi confini
la città dei morti.
Nel compulsare pensieri
misuro il ritmo del silenzio
agglutinando i ricordi.
Mi attardo, come altri,
a riconoscere un volto
all’ombra della croce.
Un fruscio d’assenza
un battito, un distillato di vita,
che siano anche miei.
Per tutti la morte
è un’immagine,
lo sguardo fotografato
in un sorriso,
la nostalgia di una fiamma
che si è spenta.
Qui è l’approdo, le radici,
ciò che sei e sarai
nell’attimo strappato.
Il destino che ci attende
non esprime tristezza;
nuove albe sorgeranno
e tornerà verde
il ciglio dei fossi.
PER UN CENTESIMO DI PACE

Il buio incatramato
di un cielo dolente
non impedisce al mondo
di vedersi infranto.
In un groviglio di ombre
neri spettri inquieti,
dai capelli ancora impigliati
ai rami dell’adolescenza,
si aggirano armati
fra brandelli di case
per snidare e uccidere.
La chiarezza della morte
ha strappato l’ansito ai feriti
e la ragione, sorella della pietà,
ha dimenticato sé stessa.
Sul sottile filo di lama,
dove resistere
è sinonimo di esistere,
il giudizio delle colpe
salta di generazione
sino al punto d’origine
in cui ebbe inizio
una convivenza mai fiorita.
Nessun muro del pianto
o di dolorosa costrizione
può zittire la rabbia del vento
che s’impenna oltre i confini
e spazza il deserto dei cuori.
Cresce l’ansia di attesa
per un centesimo di pace
che dia alle pietre
la stessa dignità delle stelle.
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