Silvano Visintin
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Silvano Visintin
Nato a Venezia nel 1949. Maturità classica. Laurea in Lettere.
Docente materie letterarie negli istituti superiori di Venezia dal 1977 al 2013.
Polisportivo: alpinista e marinaio.
E’ stato per vent’anni skipper in Mediterraneo e lavorando nelle navi mercantili ha effettuato per due volte il giro del mondo.
Recentemente ha pubblicato alcuni racconti e poesie partecipando a concorsi letterari.
SECONDOCLASSIFICATO
"Isole della laguna"- POESIA
“Leggere lagune”
Poesia
Dubbio angoscioso
Lo dico senza pudore
l’assalto degli uomini neri
come orchi dal cielo dei misteri
l’anima ha riempito di terrore
Ho pensato se fossero amici miei
quei giovani e vecchi e bimbi
strappati delle madri ai grembi
sterminati come retrivi filistei
E quella bella giovane disperata
nella jeep a forza rapita
simbolo della nostra miglior vita
davvero io l’ho amata
Muto son rimasto e idiota
cercando tra le memorie
le ragioni nelle vecchie storie
e di giustizia la quota
Una è presto detta
per chi subito ha tanto torto
unico rimane il porto
e si chiama vendetta
Occhio per occhio dente per dente
finché lo strazio non sia sazio
nel cuore non ci sarà spazio
alla pace nella mente
Poi ho visto di Gaza le case
e il pianto sotto le macerie
non terroristi persone serie
sepolte da bombe imperiose
Madri bimbi medici infermieri
nel sangue e polvere mischiati
senza colpa disperati torturati
da lanci di crudeli artificieri
E il buio la fame la sete l’incertezza
ostinazione che non porta a nulla
e ogni ipotesi di pace maciulla
nel vento angoscioso di durezza
Sarà che forse sono tonto
ma quanti occhi quanti denti in più
vogliamo strappare da laggiù
prima che ci ritorni il conto?
S.V. ott.’23
Oh, il sesso
Oh il sesso
spettacolare bugia
piena di sogni espliciti
ed esclusiva fantasia
Io non sono mai stato tuo
e tu non sarai mai mia
Frammento dell’aforisma
tagliato di Platone
insegui nei riflessi del prisma
l’altra metà della mela
furbesca illusione
tessuta nella tua tela
Amore e forse affetto
congiungono le ali
ma quando si arriva al letto
per altra scala sali
Passo a due divenuto solitario
nel profondo umano paradosso
scrive ciascuno nel diario
con inchiostro del suo rimosso
Il gioco si fa serio
perché
il desiderio vive
sotto il giogo
del suo implicito ricatto
sogna
ambisce
ma sa che mai
dovrà essere soddisfatto
Altrimenti suggestivo
il vuoto sarà oltre le porte
raggiunto l’obiettivo
ecco inderogabile
la morte
Dunque sii solo lucerna
nel turbinio di luccicanti ombre
guizzanti nella caverna
E tieni le menti sgombre
tu amante
mia complice
persona fraterna.
1/12/21
Felicità
Regina
della vita dominante
apparsa un attimo
lontana nella stanza
profumo solo
concedi alla speranza
e marci altera
ormai sfuggente
Ti insegue ognuno
cavaliere o fante
e la lor corsa
non è mai abbastanza
che invero richiesti
recitano poi ignoranza
benché ti desiderino
come fa un amante
Lo disse chiaro
Il filosofo colto
che di lacrime esplorò
l’intera valle
finalmente dal male sciolto
Effimera
come volo di farfalle
tu non mostri il volto
solo possiamo scorgerti
ormai di spalle.
S.V.
13.10.22
Giustizia?
E tu moderno Pilato
che te ne stai seduto
davanti al disperato
migrante gregge
che per fame infrange
la tua elegante legge
ti prego
con sottile arguzia
spoglia l’austera statua
della Giustizia
Togli la feroce spada che affanna
i morti bimbi lungo la strada
sono più crudele condanna
un buon prezzo è già pagato
mio caro Ponzio Pilato
Ed è bene che anche tocchi
quella severa benda che chiude gli occhi
e finge equanime la bilancia
che soppesa e il male aggancia
alla pena modesta o ai suoi picchi
come fosse identica la causa
per poveri e ricchi
cieca solo all’origine di tutti i mali:
non si può far parti uguali
fra diseguali.
S.V.
Nov. 2020
Attualità di Eraclito
Il caos che regna
confusione
urlata come certezza
maledizione
di odio pregna
e la storia umana
che niente insegna
Eppure
nel chiacchiericcio dell’inetto
qualcuno antico
l’aveva detto
senza ombra d’esser un baro
e qui lo ridico
perché appare chiaro
Nel buio serva per barlume
Per il risvegliato
c’è un cosmo unico
e comune
Ciascuno dei dormienti
si involve
in un proprio mondo
e niente risolve.
10/2/24
“Orti dei Dogi”
Narrativa
Paranormale
Prologo
“Stasera devi venire… credimi è eccezionale… devi venire”
Umberto accompagnò con una spinta del gomito contro il corpo del compagno la sua emozionata affermazione. Alzò anche un po’ la voce. Non serviva troppo bisbigliare. Era l’ora di filosofia, nella classe I° B del liceo Marco Polo di Venezia, nell’inverno del 1967. Il prof Casellati giganteggiava nella sua imponente mole, seduto in cattedra. Aveva appena finito i suoi dieci minuti di voli pindarici, spaziando dalla filosofia antica ai tempi moderni, non lesinando feroci critiche alla decadenza dei tempi moderni e a tutti quelli che speravano di cambiare il mondo. Ora aveva deciso che si poteva riposare. Si gustava la sua sigaretta spulciando il giornale, mentre la classe si riappropriava della naturale anarchia. In questo contesto favorevole, avvenivano quei cambi di posto socializzanti che altri docenti ostacolavano, nella rigorosa applicazione della disposizione dei banchi.
Silvano ne approfittò per avvicinare Umberto. Lo trovava divertente nella sua ferocia dissacrante dei luoghi comuni e degli atteggiamenti presupponenti. Aveva poi la dote di attoriale narratore e le sue barzellette spesso venivano richieste in replica. Ma questa volta l’argomento pareva serio e Silvano fu un po’ colpito dal cambio di registro che aveva percepito nella comunicazione.
“L’abbiamo fatto col tavolo… non ci puoi credere… tremendo”
Già, non ci poteva credere. Qualche giorno prima gli era stata fatta la relazione dell’ultima seduta, avvenuta sempre a casa di Andrea, suo compagno di banco. C’era tutta la banda degli amici, oltre al padrone di casa. Partecipava Massimo, compagno di banco di Umberto, cioè gli inseparabili, anche fuori scuola, per il loro secondo lavoro di musicisti nel complesso dei “Venetian Five”. E Walter, esule nella più seria e quotata sezione A, ma desideroso di ritrovare i casini dei vecchi compagni. Mancava solo lui, Silvano, il lidense, giunto al liceo veneziano solo l’anno prima, dopo una tormentata carriera nel liceo dell’isola, ma subito bene integrato nel clima impertinente del gruppo. Si era rifiutato di partecipare, adducendo la difficoltà del rientro. Le sedute avvenivano di notte e spesso si concludevano tardi. In realtà gli erano parse velleitarie e confermarono i suoi sospetti le identità degli spiriti che si manifestavano.
Sì, perché di sedute spiritiche si trattava. Eseguite col metodo del bicchierino che le dita congiunte guidavano nei cerchi con le lettere, sino a formare parole e frasi che poi venivano trascritte. Umberto, qualche giorno prima, gli aveva detto che aveva perso un’occasione, perché avevano comunicato con Carlo Marx. Silvano aveva riso per quella che riteneva un’esplicita presa in giro del suo notorio impegno nella sinistra estrema e gli aveva contestato che, con le dita, era facile guidare il bicchiere dove si voleva. La volta prossima avrebbe partecipato, e per conferma avrebbe convocato lo spirito di Mussolini. Non capisci niente, aveva concluso il compagno, insistendo che il bicchiere si agitava da solo e che anzi era faticoso seguire la frenesia dei suoi movimenti.
“ Colpi chiari sotto il tavolo… uno sì, due no…. E poi … si alzava.. un poco da un lato.. Dai vieni.. davvero devi vedere anche tu… Ti xe un mona se no ti vien!”
La conclusione perentoria e a suo modo implorante, aveva colpito la sensibilità di Silvano che credeva di saper leggere le emozioni del compagno. E questa volta, oltre alla dimensione godibile dell’esperienza particolare, c’era anche la testimonianza di un certo timore, di una velata percezione del limite su cui si passeggiava e che si voleva condividere con la confortante presenza di un nuovo compagno. Magari scettico, magari materialista storico e ben disposto a smascherare le non improbabili beffe .
In più qualcosa di morbosamente curioso lo stimolava ad andare a esplorare quell’area. Era una radice ben impiantata nell’animo, fin dai ricordi della prima infanzia, dei sogni paurosi, stimolati da qualche banale immagine della veglia. Allora sgusciava dal letto e tentava la salvezza infilandosi nel calore del lettone dei genitori. Più avanti, anche nel letto del fratello maggiore. Fughe concluse con le vergogne dell’adolescenza. Soprattutto rimescolavano il suo profondo i misteriosi racconti della leggendaria padrona della casa in montagna, la signora ‘Mabile. Donna dall’età indefinibile, ma ben caratterizzata come una tipica nonna, cui venivano affidati i bimbi quando i villeggianti adulti decidevano di raggiungere l’unico cinema in paese, a qualche chilometro di distanza.
Così, nella cucina illuminata da una fioca lampadina e talvolta nella calda stalla, si svolgeva l’ipnotico filò dei racconti. Il verso insistente del cuculo e spesso anche quello della civetta (che nelle credenze montane annuncia disgrazie) intercalava le parole pronunciate con tono dolce, uguale, costante, quasi indifferente, come fosse perfetta normalità, quello che agli occhi sbarrati dei bimbi parevano gigantesche immagini terrorizzanti, misteri inviolabili. Le pause, sapientemente gestite, facevano il resto. Come tutte le fiabe, i racconti venivano ripetuti in più occasioni, così che entrassero per bene nella memoria.
E chi mai potrà dimenticare l’avventura di quel signore che al ballo s’innamora di una bellissima giovane dal seducente scollato abito da sera, con cui danza tutta la notte e cui cede la sua giacca per ripararla dal freddo, quando improvvisamente lei deve scappare. Passerà la mattina seguente setacciando il paese in cerca di notizie per poterla rivedere, ma ritroverà solo la sua giacca sopra la lapide del cimitero, con appesa la foto sorridente dell’amata. Brrr, mistero.
E chi non ha mai affrontato l’ineludibile enigma, quello della morte? Indissolubilmente legato al segreto della nascita, alimenta fin da piccoli i timori e la sensazione che non vi siano risposte esaurienti. Le fiabe si colorano di simbologie consolatorie e la religione un po’ ne approfitta per divulgare norme di buon comportamento che hanno pure un fondo di ragionevolezza sociale. Ma la ferita resta aperta e la soluzione tutta individuale. E’ il mondo dell’oscurità, il mondo altro, dove non valgono le leggi della fisica, dove l’esplorazione ha impliciti pericoli.
Spiriti, fantasmi, entità dal fascino irresistibile perché suscitano emozioni profonde, ataviche che a stento la ragione sa dominare. Tutto l’impianto delle religioni primitive è legato alla comunicazione dello sciamano con il mondo altro, quel dietro le quinte che conosce la contiguità con il divino e con la potenza delle forze più oscure. Silvano ne era da sempre attratto. In fondo, anche la mistica partecipazione alla rituale dottrina cattolica era stato un tentativo di aprire la porta e vedere cosa davvero c’era oltre. C’era sempre l’attesa del miracolo. Spesso sfidava provocatorio i divieti dogmatici, alzava la testa al momento proibito dell’ostensione, cercava un segno inequivocabile che però non era mai giunto. Neppure quel giorno che, per mascherare alla madre la bugia di essersi confessato, fu costretto a prendere la comunione nel pieno dei suoi morbosi peccati adolescenziali. Si aspettava il fulmine, che non arrivò.
Da lì cominciò la discesa verso un materialismo laico, stimolato anche dai crescenti divieti sessuali, che contrastavano con ormoni ferocemente voraci e parevano anche contraddittori con le ambigue avances di alcuni sacerdoti. La solita storia. Però, rimase intatta la voglia di conoscere, di esplorare quei turbamenti che neppure la scoperta della psicanalisi o le evidenze storiche dell’utilizzo sociale della paura della morte avevano cancellato. Insomma, divenne un agnostico affascinato dal mistero, ma molto impegnato al momento nella crescente rivoluzione dei costumi. Occasionalmente, divorava le suggestive storie paranormali o i libri originali sull’universo misterioso che spesso gli suggeriva l’amico Andrea. Tra precognizioni, antiche profezie, fantasmi e non mancavano gli UFO, il mondo appariva molto diverso, ma anche più interessante, di quello comunemente rappresentato. Tuttavia, sentiva forte il richiamo a un dovere di equilibrio razionale che aveva introiettato nella lettura dei testi politici. Gli pareva che fosse un gioco “borghese” di distrazione di massa, rispetto alle reali contraddizioni della società e ogni volta cercava di trovare il punto critico nei racconti, il passaggio in cui si rivelava il trucco, la doppia scatola come nella donna tagliata a metà.
Non si può dire che fosse vera presunzione o senso di superiorità quello con cui si presentò alla seduta quella sera. Certo era ben concentrato nel difendersi dagli scherzi degli amici che sapeva capaci di burle ben coordinate, soprattutto quando il “pollo” lanciava la sfida. Si era dunque limitato, nell’accettare l’invito, a confermare solo un ruolo di semplice esploratore. Non voleva entrare troppo nell’esperimento, perché in fondo preferiva lasciare gli spiriti dov’erano, senza disturbarli troppo e poi doveva andarsene presto per tornare al Lido. Condizioni accettate senza discussioni e con corali, ipocrite rassicurazioni. Sì, sì, non preoccuparti…. Sapeva benissimo anche lui che non sarebbe andata così e, prima di uscire da casa dopo cena, annunciò che sarebbe rientrato tardi.
Si saliva lungo una scaletta che portava alla soffitta. In verità si trattava di una mansarda sottotetto, dove oltre allo studio del padre di Andrea, noto musicista, era stato ricavato anche lo studiolo del figlio e più avanti, oltre uno stretto corridoio, si apriva un’altra stanzino, quasi un disbrigo, dominato da un grande armadio e da una finestra sul fondo.
Si radunarono lì, dopo un breve saluto alla madre di Andrea, bella e gentile signora spesso inutilmente maltrattata dal figlio, che si raccomandò, ormai rassegnata di non fare troppo rumore.
Silvano notò che l’atmosfera pareva stranamente impegnata, priva di quel continuo, effervescente, ironico dileggio che accompagnava qualunque frase troppo seria. Sembrava quasi il preparativo di una messa, pensò, quando, pur nella quotidianità del rito, rimane l’attenzione che ogni particolare sia al suo posto. Cominciò ad interrogarsi. E decise di scombinare un po’ le carte. Chiese di cambiare posto, mentre si preparavano le sedie attorno al tavolo rigorosamente “trigambato”. La proposta fu accolta. La formazione prevedeva dunque la seguente disposizione in senso orario: Massimo che dava le spalle alla finestra, Andrea alla sua sinistra e quindi Umberto, Silvano e Walter che concludeva il cerchio ricollegandosi a Massimo.
“Riprendiamo da dove avevamo lasciato ieri sera - annunciò Andrea, che assieme a Massimo pareva guidare il gioco - formiamo la catena e poi spegniamo la luce. Restiamo concentrati… - si rivolse a Silvano e aggiunse - parliamo a turno… e descriviamo se ci sembra di percepire qualcosa di strano”
“Soprattutto niente mosse brusche - precisò Umberto - niente accensioni improvvise della luce…. Prima di farlo.. lo annunciamo.. diversamente potrebbe essere pericoloso..”
“Uahu! -esclamò Walter, rompendo il gelido mantello che cominciava a penetrare nella stanza - non si scherza con le forze occulte…” concluse e cercò con lo sguardo la complicità di Silvano che percepiva solidale nell’incredulità.
Ricevette un sorriso di conferma. A Silvano non dispiaceva avere a fianco un altro scettico, sarebbe stato più facile smascherare un’eventuale macchinazione. Tuttavia, cominciava a farsi strada una certa tensione che interpretò come una evidente congiunzione di energia nervosa, che sempre unisce i partecipanti a qualunque evento speciale. E’ come a teatro, pensò. O come l’istante che precede il calcio di rigore. Lui che giocava in porta nel Nettuno Lido, ne aveva vissuti altri intensi attimi in cui il tempo pare sospeso e tutto si ferma. Poi l’arbitro fischia e tutto riparte. Torna la realtà e l’istante ineluttabile. La rete si gonfia tra l’urlo della folla e la delusione graffia irriverente il tentativo disperato. Ma qualche volta gli era accaduto di pararlo e il petto si gonfiava d’orgoglio tra gli abbracci dei compagni. Sarà così anche questa volta, pensò, incoraggiandosi mentre l’imperturbabile clic dell’interruttore riempiva di buio la stanza.
I due mignoli delle mani di Silvano conservavano lo stretto contatto con quelle dei compagni. A destra Umberto e a sinistra Walter. La catena che avevano formato prima di spegnere la luce era quasi perfettamente tonda e seguiva il profilo del piano del tavolo, che aveva una linea un po’ ovale, con le estremità rivolte verso Umberto e Massimo. Tuttavia le sporgenze in eccesso erano modeste e il cerchio delle mani dominava praticamente tutta la superficie. Erano costretti a stare con il busto ben eretto per conservare i contatti ed anche le teste sporgevano sopra le mani. Si poteva chiaramente percepire il respiro di ciascuno ed intuire chiaramente, dal ritmo del fiato, come l’oscurità avesse di botto aumentata la tensione.
“Mi raccomando … niente sputacchiate..” Bisbigliò Walter, in tono scherzoso, nell’evidente tentativo di allentare il nervosismo.
“Eccolo.. il solito mona.. sta serio.. almeno una volta” Si lamentò Umberto, testimoniando, con l’eccessivo rimbrotto, che era ben nervoso anche lui.
Silvano taceva, ma accennò un certo tremore del fiato, come di una piccola risata trattenuta.
“Se ci sei ….. dacci un segno della tua presenza” Andrea, con il solito piglio di capocordata, richiamò tutti all’accordo che si erano dati e, con la più tradizionale delle formule, riportò i partecipanti all’impegno di concentrazione prestabilito.
Ebbe successo. Ritornò il silenzio. Uno strano, gelatinoso, invadente silenzio. Non era totale. Si percepivano i respiri controllati dei partecipanti. Era tuttavia chiaro che ognuno lavorava per assolvere diligentemente il proprio compito ed anche la respirazione era ridotta al minimo necessario. La faccenda, insomma, si era fatta seria e tale consapevolezza rimbalzava nella mente di ciascuno, rinforzando l’impegno di concentrazione.
Si fece ancor più seria qualche minuto dopo. Uno scricchiolio, forse più un leggero struscio ovattato al centro del tavolo. Prima quasi impercettibile, poi, sempre più chiaro, progressivo, inequivocabile. Tutti lo sentivano ma nessuno parlò. Poi parve scomparire, rendendo ancor più sorprendente quel che era accaduto e rinfocolò l’attesa che si manifestasse di nuovo. Così fu.
Un graffio chiaro, perentorio, non tanto rumoroso, ma urlante nella misteriosità della fonte, ruppe il silenzio dell’attesa. Il primo a parlare, nello stupore generale, fu Massimo.
“Vuoi parlare con noi? - esordì con voce controllata e quasi didattica - Se vuoi dire sì, batti un colpo - proseguì poi l’accordo linguistico - se vuoi dire no, batti due colpi”
Il silenzio, questa volta davvero buio e sospeso, si riappropriò della stanza.
Silvano fu sorpreso di non aver riso alla stucchevole, stantia proposta del “se ci sei batti un colpo” che aveva tante volte ridicolizzato nei racconti in classe. Questa volta gli era parsa persino ragionevole l’idea di stabilire un elementare vocabolario. Si rese conto di essere scosso e tentò un recupero di razionalità, pensando che il buio ha un potere naturale di suggestione dell’inconscio. E da lì possono risalire paure ancestrali, tensioni che non hanno nome, ma che paralizzano la capacità critica e riempiono di certezze immaginarie tutte le manifestazioni che non hanno una chiara spiegazione. Insomma, cercava di riprendersi e cominciò a studiare come svelare il trucco che certamente era in atto. Perché sul fatto che ci fosse stato un rumore chiaro non poteva aver dubbi, lo aveva percepito in modo incontrovertibile.
Toc!
Come un tuono che scuote improvviso l’allegra scampagnata primaverile e avvisa del nero temporale che arriva non visto alle spalle, il colpo secco al centro del tavolo sospese a tutti il respiro.
La sorpresa sconvolta fu rotta dall’entusiasmo inconsulto di Andrea che rinnovò l’inchiesta.
“Allora… vuoi parlare davvero con noi?”
Toc!
Ancora più secco e perentorio il colpo tolse ogni dubbio. Lo “spirito” intendeva parlare, anzi appariva un po’ seccato da tutti questi dubbi posteriori. Insomma, mi avete convocato con tanto fervore e ora fate i dubbiosi. Ora sono qui e vediamo…
“Oh fioi…dai.. niente scherzi.. restiamo calmi… io non so se davvero…”
Walter cominciava a manifestare incertezze nel voler continuare il gioco che iniziava a dare segnali di un futuro tenebroso, almeno alla sua progressiva tensione.
“Walter.. se non la smetti… te copo.. sempre el solito.. adesso che ci siamo…”
Umberto richiamava con la consueta gentilezza al rispetto delle promesse pronunciate prima di cominciare.
Silvano frenava l’agitazione, pensando come avevano fatto e chi era stato. Un colpo così secco presupponeva un movimento rapido del polso sotto il tavolo, perché era esattamente lì che l’aveva percepito. Sapeva bene come si può, con una certa destrezza, liberare una mano dalla catena, allargando l’altra a dismisura in sostituzione del contatto con il compagno e quindi utilizzare quella libera per altri scopi. Però non era per niente facile allungare il braccio sotto il tavolo senza far percepire la manovra ai compagni così stretti. E il colpo poi. Come eseguirlo così secco, deciso? Con le nocche di un pugno chiuso? Poi bisognava ritornare rapidi in posizione senza farsi scoprire. Davvero ci voleva una grande abilità. I pensieri si susseguivano veloci, ma a ogni ipotesi si opponeva una decisa evidenza che non era quella la strada e questo riapriva la valvola della tensione emotiva che s’incendiava con facilità .
“Puoi darci un altro segno della tua presenza?” Chiese Andrea con improvvido fervore.
Tutto si fermò di nuovo. Lunghi attimi di silenzio nei quali la tensione rimbalzava da una testa all’altra in un telepatico dialogo che diceva più di qualunque pronunciata parola. Fu lunga l’attesa. A posteriori la diremmo un efficace artificio scenico, come in teatro o nei film, quando si prolunga l’attesa per dare più forza all’evento risolutivo. Sembrava quasi di aver perso il contatto. L’unica cosa che si sentiva era il respiro sempre più profondo degli amici concentrati in catena.
Poi Silvano fu solo.
Leggero, delicato, prima incerto, poi sempre più chiaro e dolce, un tocco di una mano sfiorò il dorso delle sue, passando dall’una all’altra. E poi scomparve, lasciando il tonfo del cuore sulle tempie a ricordare quanto era successo e il dubbio che fosse stato vero. E di nuovo, eccola tornare, ancora più decisa, ormai ci conosciamo, sì, sono una mano che ti accarezza e vola sopra le tue.
“Walter, Walter… dai non fare il mona.. smettila.. non mi piace questo scherzo..”
Silvano si rivolse al compagno al suo fianco sinistro, perché da lì gli era parsa sfuggire la mano dopo l’ultimo tocco.
“Ma.. ma.. io non faccio niente .. cosa ti succede..?”
Il tono della risposta, la voce tremante e quasi impaurita, non lasciavano dubbi, non era stato Walter.
“Allora sei tu Umberto.. Così non vale.. “
Accusò Silvano, non molto convinto, ma non restava altra soluzione e poi era divenuto davvero nervoso nell’aver sbagliato la prima ipotesi.
“Ma ti xe fora!?…. Cosa vuoi?”
Anche in questo caso la voce di Umberto dichiarò un tiro fuori bersaglio.
“Ho bisogno di una pausa - dichiarò Silvano - dai accendiamo la luce… e dobbiamo mettere alcune cose in chiaro!”
Il tono non ammetteva repliche, la catena si sciolse, si accese la luce e mugugnando per l’inutile intervallo proprio sul più bello, si avviarono in corridoio per una sigaretta.
“Una mano che … una mano accarezzava le mie…. Bello scherzo.. non mi piace”
Silvano spiegava l’accaduto per giustificare la sospensione richiesta.
“Caro compagno - esordì Umberto sarcastico - lei vede al solito con gli occhi della illusione rivoluzionaria…”
“Ok, va bene, scherzo riuscito… mi avete fregato… ma la prossima..”
Cercava di riprendere la calma. La luce, la sigaretta, i volti dei compagni gli avevano ridato il controllo razionale. Sentiva dai commenti che gli veniva imputato un eccesso di emozionalità e questo un po’ lo disturbava. Non voleva apparire un fifone, tanto più se la beffa era stata organizzata proprio per questo. C’era cascato come un pero. Eppure non riusciva ancora a capire come avessero fatto. Certo non era stato Walter, che fin dal primo momento si era dimostrato sorpreso e anche ora continuava a cercare di capire cosa fosse successo, insistendo perché gli ripetesse bene quello che aveva provato. Umberto certo sapeva mentire bene e tenere senza incertezze la parte, però anche il suo dileggio appariva sinceramente ispirato alla convinzione di un improvviso isterismo. Andrea e Massimo erano troppo lontani e poi la percezione che aveva avuto era di una mano che si muovesse da dietro, con le dita nella stessa direzione delle sue e non perpendicolari come sarebbero state quelle dei due che gli erano quasi di fronte. Uno dei due si era alzato? Ma anche se erano d’accordo, come avevano fatto, senza farsi scoprire in quegli spazi limitati e stretti? Continuava a non capire e intanto il dibattito continuava.
“Adesso riprendiamo e come avevamo detto descriviamo quello che accade a ognuno” Andrea riprese così la direzione organizzativa, quando le sigarette si spensero e il fumo aveva già invaso con una densa nuvola azzurrina il corridoio.
“Potremmo chiedere qualcosa di specifico” Aggiunse Massimo che pareva il più concentrato.
“Niente giochi di mano, però” Annunciò Silvano che non capiva bene il senso della sua obiezione, se era un modo per svelare l’inganno o solo il desiderio di non riprovare quella conturbante sensazione.
“E niente isterismi, come le signorine” Confermò Umberto cui piaceva rigirare il coltello sulla piaga.
“Va bene ragazzi, adesso facciamo i bravi… facciamo le persone serie” Approvò Walter.
La catena si ricompose. Furono ripetute le raccomandazioni e l’invito alla massima concentrazione. Il buio e la tensione cancellarono del tutto la percezione del tempo lineare. Anche se in contatto fisico con le dita, ognuno era chiuso all’interno di una psiche che pretendeva di guidare verso l’espressione di una nuova, misteriosa energia, ma che in realtà rimbalzava tra le nuvole arcaiche dell’inconscio che liberavano antiche paure. Forse durò poco o forse molto, però giunse di nuovo il segnale.
Toc!
Era quello che Massimo aspettava e non indugiò oltre.
“Puoi darci un altro segno della tua presenza?… Ad esempio…. un soffio d’aria?…”
Silvano capì subito che non era stata una buona idea. Che cosa gli era venuto in mente di chiedere, un soffio d’aria? Faceva parte del piano? E come sarebbe avvenuto l’evento? Non si poteva restare sul più semplice bussare sul tavolo che consentiva il dialogo? Capiva che stava cominciando nuovamente a vaneggiare. Che senso potevano avere tutti quei dubbi se era convinto che si trattasse di un trucco. Era chiaro che tutto era stato predisposto, quindi calma e cerchiamo di cogliere il punto debole. Ma la voce razionale era come soffocata dall’attesa che si prolungava e consentiva al buio di scavare sempre più in fondo nell’ansia del mistero. Ci volle del tempo e poi…
Un soffio d’aria gelida, prima leggero, poi più sostenuto, ma sempre dolce nell’intensità crescente, come chi voglia liberare un fiore delicato da qualche impurità senza danneggiarne i petali, gli attraversò i capelli.
Ogni piccolo recettore nervoso del suo cuoio capelluto fu investito dal segnale, che si ripeté diligente a tutti gli altri, in una catena che percorse dalla fronte fino alla nuca e poi più giù, lungo alla schiena per tutto il corpo, fino a risalire alle punte delle mani.
Nessun dubbio, il soffio era arrivato.
“Basta …Per oggi ho chiuso.. aprite la luce.. voglio andar via!”
“Ancora Silvano - Dai aspetta - Cosa è successo? - Stiamo calmi! - Va bene interrompiamo”
L’annuncio aveva creato disappunto e curiosità. Apparentemente, nessuno aveva capito.
Alla ripresa della luce, Silvano dichiarò che non era in grado di sostenere la situazione. Aveva sentito un soffio, ma non tentò nemmeno di descriverlo, perché gli parve chiaro che il verdetto era già stato pronunciato: paranoia. Quindi gli sembrò più semplice ammettere una debolezza emotiva e uscire a fumare, continuassero pure, lui avrebbe aspettato fuori, in corridoio.
Così fece. Fumava nervoso e intanto si ripeteva il mantra della suggestione. Sì, era stata una suggestione favorita dallo stato di sovreccitazione. E poi il soffio poteva essere partito da Massimo o Andrea, alzatosi in piedi e avvicinatosi alla sua fronte. Nel buio non avrebbe potuto vederlo. Mentre però rifletteva su questa soluzione ecco risalire il dubbio, difficile da smentire perché troppo vicina era ancora la sensazione che si era incisa sul suo ricordo. Freddo, di più, gelato. Nessun fiato, vivo, poteva avere quella temperatura. Per quanto cercasse nella fantasiosa indagine tecnica, non riusciva a trovare un metodo convincente per imitare quell’effetto. E in quel contesto, poi. Certo non sofisticato come il palcoscenico di un illusionista. Pochi minuti prima, rientrando per la ripresa della catena, aveva indagato attentamente con lo sguardo per cercare di svelare come poteva essere stato congegnata la truffa. Ma la scena appariva desolatamente spoglia. Niente tende alle spalle, niente spazi abbondanti nei quali potersi muovere agilmente, il grande armadio chiudeva tutto un lato e aveva porte così grandi che avrebbe richiesto lo spostamento di tutti per aprirle. Nulla, insomma, che potesse ricadere nelle arti burlone dei suoi compagni di liceo. Cominciava a soffrire la tensione del topo in gabbia che continua sbattere ossessivo contro la stessa parete chiusa. Devo calmarmi, s’impose, non devo farmi prendere dal panico, ci penserò dopo.
Non ci fu il tempo.
“Sciaff!!”
Il rumore secco di uno schiaffo, come un colpo di fucile in un prato desolato, echeggiò oltre la porta chiusa. Una pausa, lunga quanto la sorpresa. Poi la porta si spalancò di colpo e tre figure balzarono fuori precipitose. Silvano non capì, ma era l’unico in quegli istanti a non essere partecipe del terrore che pareva aver colto i compagni. Si avvicinò alla stanza e giunto sullo stipite poté cogliere nella penombra la figura di Massimo, seduto immobile a capotavola. Allungò la mano sull’interruttore e accese la luce. Lo colpì lo sguardo fisso del compagno. I suoi occhi parevano non vederlo, sembrava fissare il vuoto. Aveva ricevuto una sonora sberla. La stessa che lo assolse dai sospetti di Silvano, precipitato definitivamente nella voragine dei dubbi esistenziali.
Quella sera la seduta finì lì.
Esplosione
Fu una settimana dura in classe. Non riuscivano a prestare la minima attenzione alle lezioni. Non era una novità, tuttavia l’atteggiamento assunse le vesti dell’eccezionalità. La disposizione dei banchi, Umberto e Massimo davanti, Silvano e Andrea dietro, favoriva il cicaleccio e spesso il fervore del dibattito si dimenticava del contesto. Fioccavano richiami e note, con mugugni risentiti e del tutto immotivati. Perfino il disperato tentativo del prof di italiano di sedurre la bella Maria Grazia, la sua “gattina selvaggia”, che teneva fede al soprannome, rifiutandosi sdegnosamente di commentare con impressioni personali la passione di “Paolo e Francesca”, aveva perso d’interesse. Eppure era stato uno dei teatrini preferiti, di quelli che avevano ispirato esilaranti, satiriche imitazioni durante l’intervallo. Ora tutto era sommerso dall’oceano imperscrutabile, dal tema del giorno che non dava pace, le sedute.
Silvano si era rifiutato di proseguire dopo la spettacolare serata. Al solito, aveva accampato scuse per non ammettere che era rimasto scosso e soprattutto deluso dal suo contraddittorio comportamento. Gli altri avevano continuato, esaltati dal successo e dalle clamorose manifestazioni che a loro dire mai erano accadute prima. Tutto però era rimasto fermo. Sembrava che quello schiaffo avesse posto una chiusura definitiva al dialogo. Più il tempo passava e più ciò che era successo perdeva di definizione, i contorni scolorivano e i ricordi cominciavano a sollevare dubbi sulla realtà degli avvenimenti. Si discuteva animatamente sulla successione dei fatti, cos’era avvenuto prima e dopo. Una cosa era certa, lo schiaffo a Massimo. Ad esso però si sommava la forte tensione creata dai lamenti di Silvano, che dichiarava sensazioni e manifestazioni forti che nessun altro aveva percepito.
In mancanza di una scienza certa, tutti diventano scienziati. Comparve perciò una nuova dottrina. In qualche modo ragionevole, forse giustificata e per certi versi affettuosa. Era la teoria del gruppo. L’energia che serviva ad alimentare il contatto con il mondo altro era data dalla compattezza del gruppo. Qualcuno, poi, inconsapevolmente medium, l’avrebbe utilizzata per “materializzare” lo spirito “guida”. Insomma, si coniugavano elementari competenze di spiritismo, con principi di elettromagnetismo appresi dagli esperimenti con la gabbia di Faradell condotti in laboratorio dalla simpatica prof. di Fisica, cui si aggiungevano non disinteressate implicite pressioni verso una necessaria complicità. Durò qualche giorno il dibattito, poi Silvano cedette e acconsentì a riprendere gli esperimenti, consapevole che la sua resistenza era in realtà contrastata da un’incontrollabile curiosità di capire cosa sarebbe successo.
La sede fu la stessa e anche la squadra, nella stessa disposizione. Squadra che vince non si cambia, recita un vecchio adagio sportivo. In questo caso fu una meticolosa premessa teorica.
Che ebbe quasi immediata, sconvolgente conferma.
Qualche attimo di buia, ostinata, sincera concentrazione e subito ecco un “TOC!!” Di benvenuto.
Sembrava li stesse aspettando e gioisse per la ritrovata formazione iniziale. Il successo incoraggiò i piloti, Massimo e Andrea, che cominciarono ad interrogare lo “spirito” concordando la procedura linguista nelle risposte. Fu favorevolmente accolta, con puntuale, disciplinata puntualità. Pareva proprio che avesse voglia di giocare con quella banda di arruffati ricercatori.
Nell’entusiasmo, di nuovo, Massimo azzardò “Puoi muovere il tavolo?”
Tutti sanno che la levitazione degli oggetti è uno dei traguardi più spettacolari delle sedute spiritiche ed anche uno dei trucchi più utilizzati per suscitare l’ammirazione entusiasta degli spettatori da parte di illusionisti e truffatori. Silvano lo ricordò subito, appena udì la richiesta. Sapeva che Massimo e Andrea, che ai suoi occhi apparivano i più determinati a proseguire nell’esperienza, si erano documentati con letture di testi specifici e testimoniavano una certa fretta di raggiungere i traguardi più elevati nella scala dei fenomeni paranormali.
Voglio proprio vedere come se la cavano, pensò, perché la mano e il soffio forse potevano essere stati suggestione, il colpo sotto il tavolo un trucco difficile ma possibile, però… far levitare un tavolo? Caspita, se mai ci avessero provato con un piede o una mano, ci avrebbe pensato lui a vendicarsi di tutti i turbamenti provati. Accese tutti i sensi, pronto ad intervenire cogliendo un dettaglio di debolezza, avrebbe spinto in basso con tutte le sue forze. Si mise in attesa, concentrato, ma ancora una volta fui sorpreso.
Cominciò da un lato. Un saltello. Piccolo, quasi impercettibile se non fosse stato segnalato dal clic della ricaduta. Il silenzio si fece ancor più silente, perché tutti trattenevano il respiro per capire se fosse stato un abbaglio. Ed ecco allora un saltino, più alto e chiaro anche nel finale, CLOC!
E poi, come un gioco divertito per la sorpresa di quei cinque inebetiti scemi che non ci credevano, ecco la successione dei salti CLOC… CLOC ….CLOC.!
Nessuno parlava, nessuno fiatava e ognuno cercava nell’intimo come rispondere a questa improvvisa magia che non si fermava, anzi sembrava averci preso gusto. Il piano del tavolo s’inclinava sempre più fino a formare una decisa discesa da un lato che costringeva tutti a impegnarsi per non rompere la catena. Poi parve quietarsi e atterrò di colpo, rendendo il silenzio una gelatina nera in cui tutti erano immersi.
Silvano non era riuscito nel suo intento. L’improvvisa manifestazione l’aveva spiazzato e nell’emozione aveva dimenticato il proposito “scientifico”. Certo, se era un trucco, era stato congegnato con una grande regia e per quanto pensasse possibile la truffa, gli era parso che si manifestasse una forza sconosciuta e originale. Era turbato, ma un po’ si rammaricava di aver perso l’occasione della verifica.
Quasi avesse colto i suoi turbamenti, il tavolo riprese la danza.
Sì, proprio una danza, come se volesse dire, allora non vi basta? Ecco cosa so fare, cosa posso fare.
Invece che sollevarsi su una sola gamba, il tavolo cominciò ad alzarsi alternativamente da una parte all’altra, alzando e facendo ricadere tutte e tre le gambe una dopo l’altra. Fu lì che Silvano si scosse dal torpore e dallo spavento e, come un eroe omerico, come Ulisse che accetta di soffrire pur di sentire il canto delle sirene, avanzò dalla sedia e cominciò a spingere verso il basso, caricando il suo peso.
Oh che beffa! Povero Ulisse, come si strugge il tuo animo all’irresistibile canto soave! Oh liberatemi da queste corde che io possa restare tra queste languide voci!
Nessun effetto. Niente della forzuta, atletica, allenata, muscolatura poté qualcosa contro quell’energia, che si muoveva a suo piacimento. Anzi, quasi a cancellare ogni residuo dubbio, il tavolo decollò. So che non è facile a credersi, ma così fu. E Silvano e tutti gli altri seguirono, alzandosi in piedi, le gioiose evoluzioni del tavolo, che si dilettò ancora un po’ e poi atterrò deciso al suo posto come niente fosse accaduto.
Nel silenzio qualcuno chiamò “Pausa”
Proposta accolta, perché tutti sentivano il bisogno di fumare.
Il corridoio si animò subito di un acceso dibattito, mentre le sigarette si consumavano con avide boccate che creavano una folta nebbia nello stretto spazio. Nebbia che però era come scomparsa dalla riflessione di Silvano, che ormai si era convinto. Non poteva essere un trucco. Per quanto abili fossero a volte i compagni nel congegnare burle, questa non sarebbero mai stati in grado di eseguirla senza l’ausilio di qualche artificio tecnico sofisticato, che inoltre avrebbe dovuto scomparire immediatamente, dato che l’accensione della luce era quasi istantanea dopo il via libera e non lasciava spazio a stratagemmi. In più aveva ben chiaro il volume della forza che cercato di esercitare per spingere in basso il tavolino, senza ottenere alcun effetto. Anzi, aveva percepito chiaramente, sin da subito, che si trattava di un’energia che era indifferente alla sua manipolazione, di una categoria diversa, gli veniva da dire non normale, perché ancora aveva qualche riserva nel pronunciare quel termine “paranormale” che gli pareva una resa senza condizioni.
Però gli parve che quell’evidenza aprisse una nuova porta al suo comportamento. Sciolto l’arrovello del dubbio, che è la causa prima di ogni sofferenza, ora poteva affrontare il problema con una nuova prospettiva. Ricorse all’atteggiamento scientifico, per quanto privo ancora di veri strumenti d’indagine. Il fenomeno non era un trucco, era veramente accaduto, pur tenendo conto del moltiplicatore suggestivo dell’emozione. Questa era l’unica certezza su cui poteva giurare. L’interpretazione spiritica era solo una delle possibili, non ancora dimostrata, anche se utilizzata per aprire la porta all’esplorazione. Dunque, la sua “moralità” ideologica restava intatta e non tradiva il piedistallo filosofico su cui si basava. Decise di sciogliere ogni riserva e di prestarsi totalmente al gioco, come da tempo richiedevano i compagni. Solo che non era più un gioco.
Di questo si erano resi conto anche gli altri, che continuavano a discutere su come si dovesse proseguire in modo “scientifico”. Insomma, quei cinque diciottenni, scolasticamente certo non irreprensibili, ma culturalmente originali, stabilirono un patto comune di studio, che rispettarono ben più delle obbligatorie, quotidiane versioni di greco e latino. Andarono alla ricerca nelle biblioteche dei testi sofisticati sull’argomento, cercarono testimonianze tra i circoli esoterici esistenti, crearono contatti con adepti prima sconosciuti, “esibirono” i loro fenomeni in più occasioni in sedi diverse, insomma crearono a loro modo un “movimento” che lasciò sicuramente una traccia indelebile in chiunque vi avesse assistito in città.
Ma questo avvenne dopo. Torniamo alla sera del “tavolo volante”. Molte riflessioni si erano confrontate nell’intervallo e tutte unitariamente puntavano a proseguire “l’esperimento” cercando nuove conferme. Il ruolo di leader era concordemente attribuito a Massimo e Andrea che dimostravano una superiore competenza nozionistica, ma anche Umberto testimoniò argute intuizioni, mentre Walter ribadiva pacatamente l’opportunità di procedere prudentemente per gradi. Di Silvano bastò il consenso esplicito a restare nel gruppo che prima pareva incerto.
Fu deciso quindi di giocare il jolly.
Era così forte l’entusiasmo per l’accaduto, così chiara la disponibilità dello “spirito guida” al colloquio, che si poteva azzardare un nuovo gradino della fenomenologia mediatica, la scrittura.
Al centro del tavolino fu posto un foglio di carta e una matita, con l’implicita ambizione che, come descritto in molte antiche relazioni, l’entità volesse lasciare traccia di suo pugno. Intento velleitario, forse, ma finora non aveva fatto altro che sorprenderli con effetti speciali, dunque perché non tentare?
“Vuoi continuare a parlare con noi?” La voce di Massimo riaprì la seduta, dopo che il buio aveva ridato la giusta dinamica emotiva alla catena.
“TOC!”
Senza indugi, immediato, di nuovo il colpo secco sorprese tutti che pur l’aspettavano. Poi ancora silenzio (Dio solo sa quanto contano quelle pause, corte ma, nel buio, interminabili!) quindi, come d’accordo e con convinto autocontrollo, nonostante la sorpresa, si sentì la voce di Umberto
“Ecco… sento … mi sta accarezzando la mano destra… si sposta … va alla sinistra…”
Silvano ascoltò con piacere la conferma che la volta prima non era impazzito, ma nello stesso tempo immaginava cosa sarebbe successo e si preparò.
“Sì… anch’io adesso la sento sulla destra… è dolce…va a sinistra… piano..”
Il tocco completò il giro, passando da Walter a Massimo fino ad Andrea. Tutti nel frattempo descrivevano le sensazioni e confermavano che il contatto aveva un andamento delicato, quasi piacevole, se così si può dire di uno spirito che ti accarezzi, idea che a mente fredda mette i brividi.
“Ora…ora… ora mi accarezza i capelli…” Ribadì Umberto.
Silvano aspettava in tensione. I capelli, queste a volte trascurate estremità, possono divenire un veicolo molto intenso di sensazioni. Quando sono toccati con leggerezza, diventano lunghe antenne che penetrano nel cranio, quasi a portare direttamente il tocco alla centrale. Il segnale poi è amplificato e rimbalza come una scossa lungo la colonna dorsale, accendendo tutte le luci del quadro. Brividi. Però, volendo essere scientifico testimone, gli sembrò di cogliere (non ridete) una testimonianza d’affetto, che in qualche modo lo tranquillizzò. In fondo nessuno vuole farsi del male, pensò e gli parve il giusto atteggiamento da tenere.
Di nuovo il giro si completò e richiese più tempo, perché le soste si prolungavano su alcuni, costretti a trovare aggettivi sempre più sofisticati per descrivere ciò che accadeva.
Poi tutto si fermò, facendo riesplodere il silenzio e l’attesa.
Questa volta nessuno parlò, ma ci fu un lungo, concorde tentativo di aumentare la concentrazione. Non c’era stato un vero programma. Nacque così sul momento la decisione di tentare a insistere senza una domanda, ma con ben chiaro l’implicito obiettivo.
“TIC..SCIRF…TIC…TAC…SCIRF…TIC…TAC..TA..TIC …….”
Il piano del tavolino faceva da cassa armonica come ben sa chi suona la chitarra e a volte si diletta di effetti speciali. Si può moltiplicare il silenzio? Sì. E’ la risposta esatta, perché quei cinque restarono per tutto il tempo in apnea, ingigantendo il padiglione auricolare, increduli ed entusiasti per quel che stava accadendo. Finché calò il sipario e si chiuse “TAC!!” La matita batté secca sul tavolo, come il colpo di cannone che chiude i fuochi del Redentore.
Fu chiaro per tutti l’accordo di accendere la luce.
Sul tavolo il foglio scritto in rapido, ma non impreciso stampatello, urlava il suo messaggio.
“DOMANI EMMA”
Completava la firma, il disegno di un triangolo con un cerchio tangente il lato più lungo.
L’ordine era chiaro e fu obbedito. L’assemblea si sciolse mentre la “Marangona” segnalava l’una della notte.
La vita normale fu rivoluzionata. Per tutti. Non solo precipitò l’andamento scolastico, che risentiva delle lunghe veglie notturne, accompagnate da un sonno che non si può certo definire ristoratore, perché l’alba a volte giungeva quasi come consolazione, per i mille timori che stuzzicavano il sospetto di visite improvvise. Lo studio poi era concentrato solo sul tema specifico, con lunghe permanenze alla Querini Stampalia, spulciando indici e consultando strani testi che tornavano a respirare dopo lunghi anni di ozio. Appunti, riflessioni, confronti, dubbi penetranti che lasciavano poco spazio alla leggerezza degli scherzi e facezie abituali. L’avevano presa sul serio, e non poteva essere altrimenti. L’attività diurna era solo una lunga, quasi ansiosa attesa, dell’incontro notturno e delle nuove rivelazioni che, di fatto, segnarono il seguito della vicenda.
Le conversazioni aumentarono e il dialogo con Emma divenne sempre più raffinato. Si scoprì dalle sue dichiarazioni e dalle ricerche, che furono tentate anche con l’aiuto di amici romani, che era vissuta a Frascati in età fascista, che era morta a 35 anni circa, che era sepolta nel cimitero della città che tuttavia (guarda caso) aveva avuto l’archivio devastato da un incendio durante la guerra e quindi impossibili erano i riscontri. Ma, al di là dell’identità, che in fondo era solo una nota di colore, quello che apparve più clamoroso fu il suo desiderio di comunicare, usando sempre più spettacolari strumenti di persuasione, in particolare la scrittura.
Sarebbe lungo descrivere minuziosamente le molte sedute che si succedettero dopo le prime. E noi abbiamo per certa solo la testimonianza di Silvano, che, a distanza di più di cinquant’anni, si è deciso a raccontare, garantendo per altro solo quanto vissuto in prima persona e con la premessa che si tratta solo dei dettagli più sconvolgenti, che hanno lasciato traccia indelebile a causa della forte emozione. Tra queste, sottolineò una delle prime volte, quando il dialogo iniziale si era fatto fitto e stringente, perché gli interroganti avevano preparato una scaletta di domande, ma erano state dimenticate fuori dalla porta, in corridoio, la carta e la matita che venivano poste sul tavolo per raccogliere la scrittura.
Era, infatti, divenuta consuetudine che prima si scaldasse l’atmosfera con il tavolo volante e poi si passasse al gran finale. Fu dunque enorme la sorpresa non appena nel buio, calmatosi il dondolamento del piano, sentirono la penna graffiare veloce il tavolo e ancor più grande fu la meraviglia nel trovare il foglio fittamente scritto con la matita adagiata, il tutto arrivato si direbbe “air mail”. (Qualcuno l’aveva in tasca direte voi, ma Silvano insiste nel sostenere che sarebbe stata impresa superiore a qualunque tecnica di prestidigitazione).
Ancora Silvano segnalò un altro episodio, particolarmente stressante. Dovete sapere che gli “spiriti guida” sono così chiamati perché, come Virgilio, accompagnano i coraggiosi e sprovveduti curiosi, nelle praterie di un mondo sconosciuto, ma molto popolato. E non sempre da presenze favorevoli. Ci sono anche personaggi, forse invidiosi o malevoli di natura, che possono provocare situazioni pericolose. A volte Emma segnalava il passaggio di simili entità. E suggeriva anche di lasciar perdere, di rinviare la prosecuzione della seduta. Non sempre era creduta. Un po’ per la morbosa curiosità di scoprire ulteriori dettagli, un po’ per la constatazione, confortata dalle relazioni di molti spiritisti, delle caratteristiche di queste entità amiche. Sono burlone, suscettibili e poco affidabili, paiono divertirsi a provocare forti emozioni. Fu quindi deciso di continuare, nonostante i ripetuti messaggi di andare via perché c‘era una presenza ostile, pericolosa.
All’ennesimo rifiuto, il tavolo si era alzato, trascinando letteralmente la catena delle mani in alto, a destra, a sinistra, in basso e di nuovo in alto, con decisione, quasi con rabbia e poi, tra i brividi di tutti,
CRRRRAAAAAC….. SPRANG… TOC…TOC
Il tavolo era scomparso dalle mani, la catena era sciolta. Il buio silenzio urlava il terrore degli astanti. Non servì accordo dichiarato, il più vicino al pulsante accese la luce.
Lo storico tavolino “trigambato”, di ciliegio massiccio, era a terra, ridotto in pezzi.
Il primo a rompere lo sgomento fu Silvano. Constatò che ci voleva una bella forza per smembrare quel tavolo, che era la prima volta che si provocava un danno e che forse conveniva seguire il consiglio e smetterla. Ma non aveva colto, e lo capì solo dopo, che nella psiche ci sono tunnel inesplorati e speciali che sanno confondere l’azzardo con il coraggio, l’orgoglio con la curiosità di sapere. Confini labili anche nella normalità, figuriamoci nell’eccitazione di situazioni oggettivamente eccezionali. In più quella sera erano presenti anche altri “ospiti”, perché ormai la notizia delle sedute si era rapidamente diffusa in città e c’era chi premeva per partecipare. Curiosità, ma anche spesso voglia di sfidare gli improvvisati medium e scoprire i loro trucchi.
Quella sera era venuto a svelare il trucco Gilberto, il fratello maggiore di Silvano, e il suo amico Roberto, irriducibile avversario del paranormale. Dopo gli infiniti dileggi ai suoi racconti e le accuse di ingenuità, Silvano aveva deciso di far constatare loro con mano (sic!) come si svolgeva la catena. Durante tutto il viaggio di andata, era continuata provocatoria l’intervista sugli episodi precedenti, accompagnata da esilaranti commenti e salaci apprezzamenti sulle qualità muliebri dello spirito guida. Un’atmosfera goliardica che Silvano aveva fatto fatica a tacitare una volta giunti all’appuntamento, richiamandoli all’accordo preliminare di non disturbare in nessun modo la concentrazione, dato che erano ospiti. Erano stati corretti, ancor più ora, dopo il disastro. Non parlavano più e Silvano notò che anche loro parevano pallidi e smarriti.
Andrea invece, e Massimo e forse, ricorda Silvano, anche Umberto, insistettero per continuare. L’alibi del tavolino distrutto fu presto risolto con un tuffo di Andrea al piano di sotto, incurante dell’ora ormai tarda. I pezzi defunti dello strumento furono depositati in fondo alle scale e al suo posto apparve un altro tavolino, più semplice e quasi dozzinale. Aveva un piano tondo leggero ma conservava sempre l’imprescindibile caratteristica delle tre gambe (secondo i dettami dello spiritismo non dovrebbero esserci chiodi, ma solo incastri per non influenzare il “fluido eterico”. Il cerchio, simbolicamente, rappresenta il serpente che si mangia la coda e le tre gambe i tre vertici del triangolo magico, cosiddetto di “orientazione magica”, sempre inserito nel cerchio. In termini fisici, le tre gambe sono la condizione minimale per avere una struttura in equilibrio, che tuttavia un professore di meccanica definirebbe “labile”).
Senza curarsi troppo dei consigli prudenti, e incoraggiati dall’essere riusciti a trovare un adeguato sostituto medianico, la seduta riprese. Silvano a posteriori s’interrogò a lungo sul fatto che, pur con diversi atteggiamenti e convinzioni, nessuno si sottrasse a quella che appariva chiaramente una forzatura. Tuttavia tutti erano in qualche modo psicologicamente condizionati, chi per esaltazione dei fenomeni, chi per timore di apparire debole o vigliacco, chi, e qui sta forse il lato più interessante, senza una vera motivazione, ma solo perché sentiva che si doveva fare così.
Fu un errore.
Appena si spense la luce, lasciando solo un debole chiarore che filtrava da sotto la porta chiusa, perché la luce del corridoio nella fretta era rimasta accesa, si riformò la catena. E il tavolino si agitò immediatamente, con una baldanza e uno scuotimento che trasmetteva fastidio. Poi si fermò di colpo e si sentì l’ormai consueto ticchettio della matita che scriveva. Infine …….come un alito di vento e poi…
SBANG!!!….PLANK..tuc.
Un colpo secco, violento, terribile e paralizzante, amplificato dalla cassa armonica dell’armadio dove qualcosa era rimbalzato. Servì qualche istante per riprendere a respirare, prima che una voce più sobria lanciasse il messaggio opportuno “Accendiamo la luce”.
Nuovamente illuminata la stanza rivelò il mistero. Una delle tre gambe del vecchio tavolino distrutto e depositato in fondo alle scale giaceva ora a terra poco sotto il grande armadio. La porta, segnata da un’evidente bugna, dichiarava la forza con cui quella gamba era stata scagliata e che aveva provocato lo spostamento d’aria. Oltre l’enigma di come vi fosse giunta, ciò che terrorizzava di più era l’immediato confronto con quello che sarebbe successo se avesse colpito qualcuno in testa.
Timore che aumentò alla lettura del messaggio (da dove erano arrivati carta e matita?)
“STATE ATTENTI QUANDO TORNATE A CASA” sottoscritto con la consueta firma.
E’ facile intuire che la seduta quella sera si concluse lì. Più difficile immaginare quali oscuri pensieri navigassero nell’impetuoso oceano in burrasca dell’inconscio, così confusi e alterni che è arduo, a detta dello stesso Silvano, indagare sull’attendibilità dei ricordi di quel tormentato ritorno, che ognuno affrontò con stoica determinazione. Di sicuro rammenta che usciti che ormai erano quasi le due di notte da casa di Andrea, dietro campo Santo Stefano, li accolse una di quelle nebbie invernali veneziane che sanno trasformare la città, già di suo teatrale, in una perfetta scenografia per un racconto del mistero. Ancora ricorda la frenesia con cui frugò a lungo le tasche in cerca delle sigarette che, desolatamente vuote, accesero la rabbia di averle dimenticate da Andrea. Furono poi misteriosamente ritrovate nelle stesse tasche, una volta giunto al Lido. Ma questa certo non può essere prova di nulla, troppa la suggestione. Di certo ci fu, e questa è storia, il rientro in casa del guerriero materialista Roberto, che pregò gli amici di aspettare, prima di andarsene dalla strada, che lui accendesse la luce della sua camera, in segno di scampato pericolo. Ma ancor più conferma che non era solo lui “visionario” e, in un certo qual modo, quasi compensatoria vendetta dei rifiuti adolescenziali, fu la richiesta del fratello maggiore Gilberto, che incapace di trovar pace dalle emozioni vissute, nonostante la luce accesa del comodino, nel cuore della notte, chiese di poter condividere il letto, per poter finalmente rassicurato riposare po’.
Anche Silvano trovò conforto dal condiviso calore, mentre continuava a chiedersi come uscire da quel tormento che spezzava certezze, ma non aiutava a stare meglio.
Accentuò lo studio teorico e diradò la partecipazione che si fece saltuaria, anche perché il gruppo navigava ormai in una fama non solo cittadina. Giunsero esperti perfino da Bologna, per conoscere il gruppo di cui si narravano sorprendenti risultati. Si rivelavano “spiritisti” prima sconosciuti, che mettevano in luce la realtà di una pratica sommersa ma diffusa. Fioccavano le richieste di poter partecipare, dato che secondo la disciplina spiritica “è interessato al fenomeno anche chi è presente, non restando al tavolo”. In molti casi si aprivano le porte di signorili palazzi veneziani, con gruppi di persone, a volte anche venti e più, che si contendevano le sedie pur di assistere a distanza al gruppo che in catena svolgeva la seduta, descrivendo a voce quel che avveniva al buio. In realtà, già quei rumori avevano una loro forza suggestiva, ma il buio non era mai veramente tale, perché le imposte veneziane lasciano sempre filtrare un po’ di luce dalla strada. Così, si potevano scorgere indefinibili ombre attraversare quei piccoli raggi di luce o, a volte, piccoli bagliori luminescenti, quasi lucciole, manifestarsi sopra il tavolo dei praticanti.
Silvano raccontò di come, in una di queste popolari sedute, nel grande salotto di un palazzo in campo Santa Maria Formosa, nonostante gli scrupolosi ammonimenti preventivi per evitare brusche, pericolose interruzioni della seduta, una delle numerose ragazze presenti, impaurita lanciò un grido che fece scattare nel solerte cavaliere seduto al suo fianco l’istinto protettivo. L’interruttore era vicino alla sua mano e bastò un clic!
Silvano dichiara di avere ancora davanti agli occhi l’immagine stupefacente della stanza popolata di piccoli oggetti sospesi in volo a mezz’aria. Fermi, come amanti d’improvviso sorpresi nell’amplesso, stupiti e poi tutti insieme giù, a terra tra le grida non proprio trattenute delle signore presenti. Foto indimenticabile.
Molti sarebbero gli aneddoti da narrare, ma in fondo ciò che conta è descrivere l’evoluzione della storia su cui, anche da parte dei primi protagonisti, è calato un velo di silenzio. Non durò a lungo, anche se, come un’esplosione atomica, lasciò strascichi di radioattività a lungo permanenti in chi vi partecipò.
Per l’estate del 1968 tutto si era già concluso e la vecchia catena degli ex diciottenni si riunificò in ben altra impresa, nel tentativo disperato di recuperare gli anni scolastici perduti, frequentando lo stesso istituto privato a Padova. Nello scompartimento del treno che da Venezia li trasferiva quotidianamente, a volte erano tirate le tende… come se si dormisse e…. s’intonavano con grande impegno canti di montagna. Mai nessuno osò accennare alle sedute dell’anno prima. Vigeva una specie di veto implicito, mai dichiarato. Per alcuni, infatti, la chiusura della vicenda era stata particolarmente traumatica e aveva richiesto aiuti psicologici. Leggenda vuole che vi fosse stato anche chi, al ritorno di una seduta particolarmente turbolenta in una soffitta in montagna, dove un giovane si era impiccato di recente, una volta a casa si fosse svegliato all’improvviso, trovando la stanza popolata di presenze che lo fissavano. Il resto lo potete immaginare.
Ma ci siamo dati l’impegno di raccontare solo quanto accertato dall’unico testimone che ha deciso di descrivere la sua storia. Silvano aveva proseguito a singhiozzo le sedute, sempre più imbrigliato nella contesa tra l’evidenza indubitabile dei fenomeni, il rifiuto di accettare la tesi esplicitamente spiritica, il desiderio di trovare una formula scientifica e l’incapacità di adottare strumenti sperimentali veramente in grado di dare risposte. Aggrava la prostrazione qualche altra avventura sopra le righe, come quella, davvero terrificante, vissuta insieme ad un amico di Massimo, Renzo, anche lui particolarmente sensibile e che certamente non nascondeva uno stato evidente di agitazione, che forse potremmo definire paura.
Dopo l’ennesimo bailamme di colpi, voli di tavolino e avvisi di pericolo, alla prima pausa, confrontatisi nella comune tensione, Renzo e Silvano decisero di aspettare in corridoio la fine della seduta. Qualche minuto dopo la porta si aprì mostrando la stanza illuminata e volti preoccupati. Un messaggero mostrò loro lo scritto con la perentoria richiesta
“RENZO E SILVANO DENTRO”
Voi siete matti, fu la corale immediata risposta dei due, convintissimi che si trattasse della più crudele delle burle. Ma, a volte, Umberto riusciva a elaborare scherzi cinici senza battere ciglio. Resistettero alle insistenze che dichiaravano importante la loro presenza, perché il tavolo si agitava continuamente senza costrutto e si era fermato solo per lasciare questo messaggio. Rifiutarono orgogliosi della loro fermezza (e tacitamente terrorizzati dalla descrizione).
Nuovamente la porta si chiuse e stavolta, pur fingendo di disinteressarsi della cosa fumando l’ennesima sigaretta (quanto si fumava a quell’epoca!) poterono udire rumori secchi e colpi all’interno, poi silenzio e di nuovo porta aperta e luce accesa. Volti preoccupati li fissavano, in attesa della loro reazione quando, questa volta Massimo, consegnò loro il nuovo messaggio.
“RENZO E SILVANO DENTRO ALTRIMENTI PERICOLO”
Oh, sì, anch’io ho sorriso quando Silvano me l’ha raccontato. E ho immaginato quanto poteva essere divertente per gli altri vedere i compagni terrorizzati. Ma Silvano spergiura che anche il volto degli altri testimoniava la preoccupazione per una situazione inaspettata e imprevedibile nelle conseguenze che non avevano immaginato. Ci fu addirittura un tentativo di consiglio di guerra in cui ognuno cercava di indicare la strategia migliore. Nel frattempo, i due condannati si guardavano in faccia, ormai smontati nella loro baldoria di sfida alle insistenze dei compagni e ben pungolati da quel “altrimenti pericolo”, che lasciava tuttavia ritenere che, se obbedienti, nulla sarebbe accaduto. Si dettero la mano, quasi scherzando, ma in realtà c’era di più in quel gesto finale. Entrarono. La tensione divenne gelatinosa, perché anche gli altri temevano qualcosa di strano. Buio.
“Ecco…la sento…sento la mano che mi accarezza… le mani.. e ora i capelli.. a lungo.. rimane…” Così esordì Silvano, proseguì per lunghi istanti che verrebbe da dire minuti.
Poi fu Renzo “Ora è qui da me….continua ad accarezzarmi… insiste sui capelli…”
La scena si ripeté, quasi in una forma di premio o di ringraziamento per il coraggio dimostrato. Almeno di questo vollero convincersi i due, sollevati dal terrore di subire chissà quale condanna. Anche gli altri ne furono confortati, perché l’andamento proseguì con la tranquillità standard delle altre volte. Ci fu chi poi sostenne che i due erano i preferiti, ma quest’ affermazione non esaltò Silvano che rimase davvero scosso dall’episodio.
Tempo dopo, ebbe a leggere in uno testi canonici delle sedute spiritiche queste parole che paiono dare ragione dell’episodio “Se anche uno solo dei presenti abbandona il tavolo e interrompe la catena, lo spirito resta intrappolato e non può più far ritorno al luogo di provenienza”.
Forse fu quella sera stessa o un’altra, non ricordava bene, perché da un po’ di tempo anche in casa succedevano cose strane, che cominciavano a indurre in lui il sospetto che il contatto non si chiudesse con la fine della seduta.
Una volta, in una seduta in un antico palazzo di Venezia presso San Tomà, una casa signorile come di nobili d’altri tempi, era stato chiesto di materializzare degli oggetti. In effetti dopo altre insistenze, sul tavolo comparve una catenella, di povera foggia che a Silvano parve come famigliare. Era una di quelle che solitamente si usano per tenere nel retro un quadro e Silvano ne aveva presente una, che si trovava nello scantinato di casa sua. Tuttavia fu solo un flash, quasi senza un vero senso di attribuzione.
La sorpresa arrivò dopo, quando ritornato a casa, sua madre ancora in piedi, raccontò di come il fratello Gilberto e l’amico Roberto fossero saliti a tarda ora dallo scantinato, dove stampavano delle foto, spaventati dal rumore di una catena che strisciava insistentemente sulla parete. Di sicuro erano ancora suggestionati dalla volta precedente, ma la madre era un po’ preoccupata per come non ascoltassero quasi le sue rassicuranti obiezioni e non avessero più voluto scendere giù. Silvano non disse nulla. Il mattino dopo, scese a vedere e la catenella non c’era più. Ma anche questo è troppo poco scientifico per dimostrare qualcosa.
Ancora meno misurabili le sensazioni che cominciò a provare nella notte fonda, mentre dormiva regolarmente con la luce accesa. Finestre che pensava di aver chiuso bene che si aprivano all’improvviso, lasciando entrare una strana corrente d’aria che agitava le tende (ma aveva davvero chiuso la finestra?). Talvolta aveva l’impressione di avere un gatto seduto sul petto. Apriva gli occhi e lo vedeva per un attimo e poi scompariva (Immagini ipnagogiche determinate dallo stress?). Dubbi tormentosi che lo costringevano ad alzarsi per andare a bere un po’ d’acqua. Ma le veglie si moltiplicavano e una notte incrociò sua madre, donna artisticamente anticonformista e curiosa. L’unica cui aveva rivelato alcuni dettagli delle sue serate.
“Se non riesci a capire, lascia perdere. I dubbi sono pericolosi. Qualunque cosa sia, meglio rispettarla e non usarla per divertimento. Potrai ritornarci quando vuoi. Ora riposati.”
Parole sante. Rimaste indelebili. Il divertimento era finito da un pezzo. Forse era rimasta la curiosità e anche quel morboso rimpianto di lasciare ad altri, agli amici la possibilità di nuove scoperte. Ma finora quello che aveva accertato in tutti coloro che avevano partecipato, anche e soprattutto i più increduli, era il dubbio. Il tentativo cioè di riportare ad un controllo logico degli eventi, a quella “normalità” che di fatto era stata violata. Emergevano teorie anche suggestive nel disegno ideativo, ma che progressivamente si squagliavano alla verifica dei fatti “para” normali che solo chi non partecipava poteva spudoratamente definire trucchi. Allora provava un certo disagio nel vedere persone che intellettualmente stimava molto, da cui pensava di poter cogliere un’interpretazione superiore, che affondavano come lui nell’incertezza, benché nel rifiuto di credere al tradizionale, facile teatro degli spiriti.
Un’altra donna lo spinse alla scelta di smettere. Fu la fidanzata dell’epoca che si accorse come reagiva alle sue carezze quando riuscivano a dormire insieme. Il gesto di tenerezza, di amore al compagno dormiente, generava reazioni spaventate nella confusione del dormiveglia. Si rese conto che doveva finire. Così fece e s’informò solo saltuariamente di come procedevano i compagni.
Seppe che gli esperimenti proseguivano con un’intensità crescente. La “troupe” ora si muoveva anche fuori dalla città e cercava situazioni sempre più estreme, spinta da un accanimento che aveva quasi il sapore di una prossima decadenza. In effetti, rifletté Silvano, che senso aveva cercare il limite a dei fenomeni che erano già fuori da ogni misura controllabile?
L’unica spiegazione che si dava è che ormai si fosse creata una specie di dipendenza. Morbosa, come tutte le catene psicologiche che investono oltre la libera scelta. Pressioni continue dei curiosi, necessità di dimostrare che non erano dei ciarlatani, false promesse a se stessi che sarebbe stata l’ultima volta, apprezzamenti interessati dei molti adepti segreti che ambivano a dimostrare anche le loro capacità, insomma, una grande ruota che girava per conto suo e accelerava. Fu contento della sua scelta.
Non aveva più niente da dare e anche i suoi studi in biblioteca, più che risposte avevano acceso dubbi e nuove domande. Cercò solo di salvare oltre all’anima tormentata anche l’anno scolastico, che scivolava decisamente verso la catastrofe. Ci riuscì per il rotto della cuffia, ma con una quasi crudele vendetta dei professori, costretti dal suo brillante esito in italiano a limitare la condanna. Niente bocciatura, ma via a settembre, con quattro in latino e tre in greco e matematica. E mo’ vediamo come te la cavi.
Ce la fece, con un’estate di clausura, dispendiose ripetizioni sovvenzionate dall’eroico padre Guerrino e un tormento continuo nel cuore. Oltre agli spiriti, anche il materialismo storico comunista presentò i suoi dubbi. I carri armati entrarono a Praga e si ruppero molte amicizie ossequiose dell’ortodossia, ma questa è un’altra storia.
E Emma? Che fine aveva fatto lo spirito guida che tanto lo aveva apprezzato? Scomparsa come i suoi famosi scritti, raccolti in una cartellina custodita da Andrea che, interrogato molti anni dopo, aveva dichiarato che “dovrei ancora averli da qualche parte”.
Silvano qualcosa conservò chiaro nella memoria, oltre al categorico divieto di disturbare inutilmente qualunque cosa fosse. Un po’ come gli etilisti anonimi che divengono poi integralisti del divieto, ben conoscendo la loro insidiosa fragilità. Solo una volta, dopo una cena abbondantemente innaffiata a casa di un amico, stimolato dall’eco antico delle sue vicende e dalla presenza di un tavolino a tre gambe, si lasciò corrompere e iniziò una seduta. Ma appena percepì quell’energia, quella forza che gli altri ancora dubitavano esistesse e che spingeva il tavolino verso l’ amico orfano di recente del padre, chiese di smettere. E si rese conto di aver fatto bene, perché anche agli altri ogni ilarità si era spenta e subito concordarono che non era il caso di procedere.
Per descrivere come quest’esperienza avesse lasciato un’impronta indelebile nel suo inconscio, mi raccontò quel che accadde la fatidica sera del terribile terremoto del Friuli, nel 1976.
Erano passati ormai quasi dieci anni, quella sera stava cenando con la sua compagna alla trattoria alla Rivetta, a Venezia, dietro San Provolo. Erano seduti in un ultimo tavolo striminzito, addossato alla parete, finalmente liberato dopo una lunga attesa nel locale affollato. Era militare, in fuga da distretto di Vicenza e felice per la notte in compagnia che lo aspettava. Giunti alla frittura, improvviso arrivò il rombo e poi…la parete cominciò a spingerlo, fino a sbatterlo contro il tavolo…
IL primo pensiero? “EMMA… perchè..? perché?” Poi si rese conto che quella era certo un’energia superiore, ma di un terremoto e non quella strana e potente delle sedute.
Allora, gli ho chiesto, perché parlarne ora, dopo tanti anni e diciamo così, con una pace ritrovata?
In primo luogo, mi ha risposto, si tratta solo di un giudizio sospeso. Certo c’è stata a volte la tentazione di chiudere la partita, approfittando delle nebbie del tempo trascorso e etichettare tutto con la facile archiviazione della truffa e della suggestione. Ma al di là della forse stantia questione dell’onestà intellettuale (esiste davvero o è solo un gioco nella polemica dialettica, esiste poi “la verità”?) C’era una sorta di resistenza pragmatica nel confondere ricordi che, per la loro eccezionale rilevanza emotiva, erano rimasti nitidi e denunciavano l’unica cosa certa dell’esperienza: quei fenomeni erano accaduti e non erano possibile fossero frutto di un trucco.
Si era data una forte ingenua spiegazione che aveva poi archiviato nel corso del tempo come soddisfacente, ben sapendo che si trattava solo di una semplice constatazione di impossibilità a trovarne una davvero dirimente. C’era stata una coincidenza favorevole di fattori casuali. La stretta amicizia dei compagni di classe, un rapporto che ancora oggi dura con incorrotta complicità, si era forse combinata con alcune capacità occulte e inesplorate di qualcuno di loro.
C’erano state anche ipotesi, respinte tuttavia dagli interessati, che individuavano alcuni come medium. Silvano preferiva l’iniziale ipotesi dell’energia di gruppo che dava ragione dei grandi effetti ottenuti nella parte iniziale dell’esperienza e di cui aveva avuto esperienza diretta. Di altre avventure, come già detto, aveva solo notizie riportate, molto suggestive, ma certamente soggette al principio del dubbio.
C’era comunque un’altra motivazione esplicita del suo desiderio di mettere in chiaro quanto era accaduto in quegli anni. Era il tentativo di superare finalmente quel senso di disagio che provava ogni volta che cominciava a raccontare gli avvenimenti. Non solo incredulità che è ben comprensibile, compariva negli ascoltatori, ma soprattutto ilarità, senso si superiorità, conditi con la recita meccanica di tutte le conquiste razionali, con i luoghi comuni del limite del possibile, della normalità.
Insomma, nella migliore delle ipotesi, passava per un visionario accecato dalla suggestione, quand’anche come un povero idiota, ingenuamente vittima degli scherzi di amici complici. Si ribellava con moderazione, alla fine sorrideva, concordando per allentare una tensione che intuiva difficile da contrastare. Smentire certezze sulla solidità dominabile della realtà, costruite con anni di esercizio, è impresa velleitaria. Tuttavia, dentro di sé tornava con la memoria a quei giorni, a quei dettagli che mille volte aveva valutato, nel tentativo di trovare una breccia che demolisse quei fenomeni che anche in lui distruggevano ogni certezza. Non c’era riuscito e, come abbiamo già detto, restava solo la certezza che non potevano essere trucchi.
D’altronde, tutte le più accese obiezioni provenivano da chi non aveva mai partecipato a simili esperienze. E Silvano ne aveva viste tante di rivoluzioni del prima e del dopo. Tant’è che a volte era perfino tentato di riprovare, per il gusto di vedere come avrebbero reagito al manifestarsi esplicito di quella misteriosa energia, se mai ci fosse riuscito. Poi rinunciava, fedele al giuramento pronunciato a suo tempo, nessuna esperienza per puro divertimento.
Però, sul piano del dibattito, a volte tornava sul tema e citava episodi noti della cronaca che rivelavano come non fosse il solo a credere che esistesse una realtà diversa.
Gli era accaduto di parlarne quando anche la stampa s’interessò della seduta spiritica avvenuta durante il rapimento dell’onorevole Moro. Tutti i “compagni” ironizzavano su quella domenica del 2 aprile 1978, quando il professor Romano Prodi con altri due docenti universitari, utilizzando la tecnica del piattino, giunsero a tre nomi che indicavano la probabile prigione dello statista. Viterbo, Bolsena, Gradoli. Luoghi che furono perquisiti su segnalazione di Prodi senza alcun risultato. Giorni dopo, una perdita d’acqua consentì però di scoprire il covo del capo brigatista Mario Moretti, in via Gradoli a Roma, come aveva suggerito, inascoltata, la signora Moro. Tutto questo parve, forse giustamente, una messa in scena per coprire le trame dei servizi segreti che allora si ritenevano eterodiretti e inaffidabili. Ma la cosa che indirizzò Silvano fu la dimensione di naturalezza che poteva aver indotto personalità autorevoli del mondo accademico se non a fare, almeno a dire che era avvenuta una seduta spiritica con il loro contributo.
Ripescò allora alcune notizie tra i suoi appunti, che utilizzò per contrastare la falsa convinzione che quella dimensione riguardasse solo sprovveduti.
Bastava ripercorrere la storia, a cominciare dal fondatore dello spiritismo moderno nel 1857, quel Allan Kardec, pseudonimo del pedagogista francese Hippolyte Rivail, che oltre alle molte meritorie e importanti pubblicazioni nella sua disciplina, scrisse il testo base “Il libro degli spiriti” ed altri quattro libri sulle “intelligenze incorporee” che determinarono milioni di seguaci. Fu lui il primo a parlare di voci elettroniche, la “psicofonia”, che ancor oggi si sperimenta. Fu sempre lui a indagare sulla fenomenologia mediatica, su tutti quei fenomeni (mai però rilevati in condizioni di controllo) che accompagnano le sedute: Il tabellone, il tavolino, le materializzazioni.
Sulla sua lapide nel cimitero parigino dei grandi di Le Père-Lachaise, troneggia la scritta che riassume la sua filosofia “Naître, mourir, renaître encore et progresser sans cesse, telle est la Loi” (Nascere, morire, rinascere e progredire sempre: tale è la legge).
E che dire di Charles Robert Richet? Non fu solo medico fisiologo, fondatore della sieroterapia e pioniere delle ricerche sull’anafilassi che gli valsero il premio Nobel per la medicina nel 1913. Dotato di una delle intelligenze più vivaci ed eclettiche del secolo, si dedicò con successo nei più diversi campi. Fu attivista pacifista, scrittore, commediografo, storiografo egizio. In collaborazione con l’ingegnere Tatin e i fratelli Breguet, sviluppò una sua idea originale sul volo, allora pionieristico. Propose di sostituire le doppie ali, con un’unica struttura, simile a un aliante, manovrata dalle correnti d’aria. L’idea si rivelò così geniale che il modello perfezionato portò alla prima azienda aeronautica francese, la Breguet Aviation, originariamente chiamata Ateliers Breguet-Richet.
Ciò che più conta per noi, sono i suoi studi psichici, che intraprese fin da giovane, sia riguardo l’ipnotismo che il sonnambulismo. Approfondì anche il tema della suggestione mentale e della telepatia, fino all’incontro con la celebre medium italiana, Eusapia Palladino. A Milano partecipò a ben diciassette sedute, che influenzarono fortemente le sue ricerche. Fu il primo ad utilizzare il termine ectoplasma (dal greco ektòs, cioè “fuori”, e plàsma, cioè “materia che prende forma”) per indicare una sostanza di natura sconosciuta, che uscirebbe dai medium in stato di trance prendendo varie forme. Fu nominato Presidente onorario dell’Institut Mètapsychique International de Paris. Fu lui a coniare il termine metapsichica, intendendo così situare i fenomeni paranormali nel campo di una psicologia allargata e oltrepassante i limiti dell’intelligenza umana – divenuto poi di uso comune nel mondo occidentale.
Ecco il resoconto di una delle sedute con la Palladino, redatto da Richet
“Ebbe luogo all’Institut de Psychologie di Parigi. Erano presenti solo Mme. Curie, Mme. X, una sua amica polacca, e P. Courtier, il segretario dell’Istituto. Mme. Curie prendeva posto alla sinistra di Eusapia, io alla sua destra, Mme. X un po’ più lontano, col compito di prendere appunti, e M. Courtier ancor più distante, all’estremità del tavolo. Courtier aveva posizionato una doppia tenda dietro ad Eusapia; la luce era fioca ma sufficiente. La mano di Mme. Curie, che teneva quella di Eusapia, era ben visibile sul tavolo, così come la mia, che stringeva l’altra... Vedemmo la tenda muoversi come se spinta da un qualche oggetto di grandi dimensioni... Chiesi di poter toccare... Sentii una resistenza e afferrai una mano reale che strinsi nella mia. Persino attraverso la tenda potevo sentire le dita... La tenni saldamente e contai per ventinove secondi, durante tutto l’arco dei quali ebbi la possibilità di osservare entrambe le mani di Eusapia sul tavolo e di chiedere a Mme. Curie se fosse certa del suo controllo [sulla mano di Eusapia]... Dopo quei ventinove secondi dissi “Voglio di più, voglio uno anello (sic, in italiano nel testo)”. Immediatamente la mano mi fece sentire un anello... pare difficile immaginare un esperimento più convincente... In questo caso ci fu la materializzazione non solo di una mano, ma anche di un anello.”
E già, avete letto bene. Eusapia Palladino era arrivata a Parigi nel 1905 e tra coloro che si erano interessati ai suoi poteri oltre a Richet, vi erano anche i premi Nobel Pierre e Marie Curie. Non solo, altri famosi amici si aggiunsero al gruppo guidato dal fratello di Pierre, Jacques, fervente spiritista, tra cui segnaliamo il futuro premio Nobel Jean Perrin.
I Curie consideravano le sedute spiritiche come veri e propri esperimenti scientifici e registravano accuratamente quanto accadeva, eccone un esempio.
“Abbiamo effettuato una serie di sedute con Eusapia Palladino alla Società per la ricerca sui fenomeni psichici. È stato molto interessante, e davvero i fenomeni cui abbiamo assistito sono apparsi inspiegabili se li si volesse considerare trucchi: tavoli sollevati da terra con tutte e quattro le gambe, movimenti di oggetti a distanza, mani che ti pizzicano o accarezzano, apparizioni luminose. Il tutto in un luogo preparato da noi, con pochi spettatori e tutti amici fidati, senza la possibilità della presenza di un complice. L’unico trucco possibile sarebbe quello che potrebbe derivare da una straordinaria abilità di prestidigitazione da parte della medium. Ma come ti spieghi i fenomeni quando uno tiene le sue mani e i suoi piedi e la luce è sufficiente a vedere tutto quanto stia accadendo?”
Eusapia Palladino si recò anche in America dove però, chiusa in una serie di stretti vincoli di controllo, deluse con sedute inconcludenti e fu pure smascherata nel tentativo di truccare la seduta. Tuttavia, prima di andarsene ebbe la “certificazione” da parte Howard Thurston, forse il più famoso illusionista mondiale dell’epoca, che scrisse:
“Credo che mai prima d’ora nella storia del mondo un illusionista e uno scettico abbiano avuto il privilegio di vedere quello cui io potei assistere. Vidi Eusapia posizionare le mani su quel tavolo che io avevo ispezionato con tanta attenzione. Lo vidi sollevarsi e galleggiare, senza supporti, in aria. E mentre restava là sospeso io mi misi in ginocchio e gli girai intorno, cercando invano una qualche spiegazione naturale. Non ce n’erano. Nessun filo, nessun supporto, niente. Eccetto un qualche potere occulto che andava al di là della mia comprensione. Chiesi ulteriori prove e con sconcertante sollecitudine l’anziana signora si disse d’accordo. Mrs. Thurston teneva fermi i suoi piedi, io le sue braccia, e anche così, per quanto sorvegliata e imprigionata, il tavolo si sollevò di nuovo! Quando infine precipitò nuovamente sul pavimento, davanti ai miei stessi occhi, io ero uno scettico sconfitto. La Palladino mi aveva convinto! Non c’era trucco in quanto mi aveva mostrato... Se dopo aver letto quanto ho detto di questa avventura in un regno in cui la mia magia non può penetrare il lettore dubita ancora, non della mia parola ma della mia capacità di osservazione, lasciatemi dire questo: la mia carriera è stata dedicata in larga parte alla magia e all’illusionismo. Comprendo i principi che stanno alla base di ogni trucco conosciuto... In tutte le mie ricerche sulle sedute spiritiche metto a frutto tutte le mie conoscenze contro il medium, facendo attenzione alla più piccola prova di trucco. Sono disposto a giocarmi la mia reputazione di illusionista sul fatto che quanto questa medium mi ha mostrato fosse reale. Insisto che quella donna mi mostrò una reale levitazione, ottenuta non tramite un trucco bensì attraverso una forza sconcertante, intangibile, invisibile che si irradiava dal suo corpo e sulla quale ella esercitava temporaneamente un controllo assoluto e spossante.” Tra gli illustri studiosi che continuarono a ritenere verosimile l’ipotesi spiritica nonostante le delusioni, i raggiri e gli imbrogli che spesso avvenivano nelle sedute, ci sono figure di prestigio. Cominciamo con uno dei più grandi esponenti della letteratura, Victor Hugo. Nel suo esilio volontario per le sue idee politiche nell’isola Jersey, in Normandia, Hugo organizzava numerose sedute spiritiche con amici e famiglia. Cercava un contatto con la figlia Leopoldine, annegata nella Senna dieci anni prima. Secondo le relazioni della moglie che annotava gli eventi, il figlio Charles era il medium, la figlia Adele l’ispiratrice. In tale contesto il tavolo si mosse più volte e si potè udire anche distintamente la voce di Leopoldine. Poi si può aggiungere l’autorevole figura del famoso filosofo Henry Bergson, premio Nobel per la letteratura; e ancora lo scrittore Arthur Conan Doyle, inventore dell’iper raziocinante investigatore Sherlock Holmes; oppure lo psichiatra Carl Gustav Jung; il filosofo William James; il biologo evoluzionista inglese Alfred Russel Wallace; il criminologo positivista Cesare Lombroso. A proposito di quest’ultimo, fu anche lui partecipe degli esperimenti con i Curie con la Paladino e fu uno di questi a condurlo da una visione strettamente materialista, alla fede nel mondo degli spiriti e nella vita dopo la morte. Come ricorda nelle sue “Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici” del 1909, avvenne in una seduta, il 28 febbraio 1891, in cui Eusapia levitò, nell’oscurità della stanza, fino a portarsi sopra del tavolo. Eppure c’è anche il rovescio della medaglia. Fin dalle origini della massiccia diffusione novecentesca, si moltiplicarono ciarlatani e imbroglioni. Famosa è la ricerca del mago Houdini, disposto a tutto pur di rientrare in contatto con la madre deceduta di recente, che mai trovò risposta adeguata, pur avendo consultato i più famosi medium. Decise di divenire acerrimo avversario dei medium e ne smascherò in continuazione i trucchi, forte della sua competenza illusionistica. Restando nel campo più scientifico, Robert Amadou, ex segretario dell’Institut Métapsychique de Paris, affermò che “Tutti i grandi medium hanno frodato”. In effetti, messi in un laboratorio, corredato delle opportune strumentazioni di controllo, nessun medium è riuscito a riprodurre le spettacolari prestazioni descritte nelle sedute normali. Pare ci sia ancora in piedi la promessa di una ricompensa di milioni di dollari, per chi riesca a superare la prova.
Lo stesso CICAP, (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze), riprendendo la formula già espressa dal fisico russo Mendelev, in una famosa conferenza del 1876, la dichiara come regola consolidata e cioè: controllo scientifico = 0. - fenomeno spiritico = 100 controllo scientifico = 100 - fenomeno spiritico = 0 C’è chi, tra gli adepti, sostiene che le condizioni di laboratorio non sono compatibili con la qualità delle emozioni dei partecipanti ad una seduta e che quindi non consentirebbero al medium di operare quella concentrazione di energia che consente di realizzare i fenomeni. Altri “agnostici” sottolineano che i fenomeno “medianici” parrebbero di natura spontanea, comunque effettivamente reali, anche se difficilmente interpretabili con le conoscenze attuali. Qualcuno si spinge a dire che esistono tanti imbroglioni proprio perché esistono fenomeni veri, non perché non ne esistono. E’ un ipotesi un po’ fragile forse, ma è quella che in qualche modo continua a far credere a Silvano che le sue non furono solo suggestioni, anche se non si azzarda in alcun modo a dare risposte alle spinose domande che ha momentaneamente rimosso. Mi ha detto che il suo racconto vuole solo essere un resoconto storico e implicitamente un invito a guardare alla realtà con meno presunzione e più prudenza. Ne sappiamo davvero ancora molto poco.
“Isole della laguna”
Narrativa
Malamocco e la fondazione della città di Venezia
L’acqua piatta e ferma, specchio quasi immobile del sole caldo estivo, rifletteva il tepore anche sotto l’ombra del pino. La laguna riposava nel meriggio e l’isola di Poveglia, davanti allo sguardo, pareva galleggiare nel vasto panorama di un tempo sospeso.
“Buongiorno prof!” La voce squillante e improvvisa lo distolse dalla meditazione estatica.
“Che piacere incontrarla…- aggiunse con sincero entusiasmo il giovane – come mai da queste parti, qui a Malamocco?”
“Ciao Giorgio – rispose, fortunatamente ricordando il nome dell’ex studente e interrompendo l’improvvisa inquisizione – E’ difficile rispondere – aggiunse con lentezza calcolata – ci sono molti motivi…Il baccalà mantecato che è il primo pretesto..” Notò che stava stimolando curiosità.
“La bicicletta poi, che vedo è passione comune” Precisò costruendo complicità.
“E quindi il tuffo nella storia che da qui è immediato e suggestivo.” Concluse, indicando con la mano la vastità della laguna che, seguendo la serpentina delle briccole, conduceva attraverso isole sparse alla gloriosa immagine della città, segnalata dal “Paron de casa”, il campanile di San Marco.
“A me è sempre piaciuta la storia… e anche il baccalà – precisò il giovane – mi ricordo quando ci raccontò l’incredibile avventura di Pietro Querini… quel naufragio alle isole del Nord… e i pescatori che li salvarono e poi regalarono lo stoccafisso che così arrivò con loro a Venezia e divenne specialità della Serenissima, perché cibo utile per i marinai che non avevano frigoriferi”
“Bravo! Dovrò promuoverti di nuovo.” Scherzò il prof ormai pensionato, gongolando all’idea che quell’uomo testimoniasse con piacere il successo didattico.
“Se hai qualche minuto e ti siedi qui con me, ti potrei raccontare alcune notizie che pochi ricordano e anzi molti confondono”
“Con piacere – rispose Giorgio sedendosi – mia moglie con la bambina sono salite ai murazzi per fare un bagno, ci vorrà almeno un’ora e io sono curioso di scoprire qualche segreto.”
“Bene – sorrise il prof facendogli spazio sulla panchina – allora cominciamo subito. E’ qui, da Malamocco che è cominciata tutta la storia di Venezia”
“Sì, sì, lo so – interruppe il giovane – poi ci fu il maremoto….”
“Va bene – lo bloccò il prof – ma lasciamo stare le leggende. Io ti racconterò di fatti storici, non si sa mai quanto certi, perché molto lontani nel tempo, ma in gran parte documentati e molto accreditati dagli studiosi. Non per questo meno affascinanti e intricati. Ad esempio, senti questa vicenda. Siamo nell’anno 804 e Obelerio viene eletto doge a Malamocco. Apparteneva a un partito filofranco, anche perché era sposato a una francese di nome Carola, forse la prima dogaressa di cui si ha notizia.
“Ma è il periodo di Carlo Magno e del sacro romano impero…” Suggerì Giorgio
“D’Occidente.. davvero mi sorprendi, allora studiavi sul serio… la storia però è complicata, perché il voto popolare gli assegnò un co-reggente, il fratello Beato, che molto probabilmente aveva tendenze filobizantine”
“L’impero D’Oriente.. Costantinopoli o Bisanzio..” Recitò il giovane
“Bravo. Dobbiamo aggiungere poi che questo dogado famigliare si completava con un terzo fratello, Obelieato, che fu il primo vescovo di Olivolo, un episcopato prettamente lagunare, con una dimensione tutta venetica, al di fuori quindi delle contese tra le sedi di Grado e di Aquileia. Lì si ebbe la formazione del sestiere di San Pietro di Castello, per lungo tempo centro nevralgico della laguna. Però la questione principale è l’oscillazione delle alleanze. In un primo tempo Obelerio e Beato si schierarono con Carlo Magno. Dopo la nuova distruzione di Aquileia e lo strappo della Dalmazia ai bizantini, i due dogi nell’805 resero omaggio all’imperatore in persona, sancendo così l’asservimento alla potenza franca.”
“Cosa che non piacque per niente ai bizantini” Precisò il giovane che ci stava prendendo gusto.
“Infatti, subito dopo la flotta bizantina, al comando del famoso ammiraglio Niceta, dopo aver riconquistato la Dalmazia, si presentò in laguna. E cosa fecero allora i due co-dogi?”
“Resero omaggio all’imperatore bizantino!” Sentenziò Giorgio.
“Esatto, vedo che hai un futuro in politica. Comunque, mentre per gli orientali questa duplicità era comunque nella tradizione del costume levantino, per il nordico Carlo Magno fu un affronto da lavare con il sangue. La punizione dei “Perfidi Venetici” fu dunque affidata nell’809 a Pipino, il giovane figlio di Carlo Magno e re d’Italia. Vedo che sorridi e immagino cosa sarebbe successo in classe al pronunciare questo nome. Ma sottolineo che l’azione militare che ne seguì, coincide con la fondazione della città di Venezia. E’ forse proprio la strenua difesa dei Venetici che darà vita alla parziale indipendenza delle isole lagunari, attorno il nuovo centro “Civitas Rivoalti” l’attuale Rialto. Pipino dunque, cui non mancavano i mezzi, conduce un’imponente flotta e conquista prima Eraclea, poi Jesolo, Chioggia e Pellestrina, fermandosi ad Albiola. Malamocco, sede del governo, fu perciò rapidamente sgombrata e trasferita a Rialto, così quando i Franchi vi arrivarono, la trovarono deserta.”
“Ma come pensavano di difendersi i veneziani?”
“I Venetici, perché allora si chiamavano così. Te lo spiego subito, perché lo sai già. Siamo nel Medio Evo, anzi nell’Alto Medio Evo”
“Sì, fino all’anno Mille”
“Bravo, vedo che ricordi le date, qual era allora il simbolo di quel periodo? Quello che sintetizzava il clima di incertezza…”
“Il Castello!” Rispose felice Giorgio.
“Bene e che cosa rendeva difficile espugnare un castello oltre le alte mura?”
“Il fossato!” Esclamò il giovane, quasi come Archimede uscito dalla vasca.
“Perfetto – aggiunse il prof che stava rivivendo il piacere del metodo maieutico – E che cosa consentiva agli abitanti di superare questo ostacolo e rifugiarsi all’interno?”
“Il ponte levatoio”
“Certo, è proprio quello che anche noi ora abbiamo davanti agli occhi e che fortunatamente è aperto, perché se fosse chiuso sarebbero guai.”
Così dicendo, il prof indicò con la mano la vastità della laguna, facendo un teatrale giro con il braccio steso. Colse, con un po’ di sadico piacere, che lo sguardo di Giorgio esprimeva stupore e incertezza. Si decise quindi come un vecchio illusionista a svelare il banale trucco.
“Di che cosa era fatto il ponte levatoio?” Esordì con l’intento di facilitare la soluzione.
“Con il legno” Fu l’elementare risposta.
“E dove vedi legno qui nell’acqua della laguna?”
Ci fu una breve pausa di osservazione, cui seguì l’affermazione convinta: ”Sì, sì, i pali..”
“Le briccole – corresse pedante il prof – che sono opera recente, anche se ben specificate da una normativa dell’8 dicembre 1439. E da allora, nulla è cambiato in tema di segnaletica nei canali e in laguna. Ma prima non c’erano, e solo i piloti locali conoscevano la rotta sicura dei canali interni, specie con il cambio di marea, per evitare le secche. La laguna quindi era il grande fossato del castello veneziano e i suoi abitanti il metaforico ponte levatoio.”
“Ca..spita!” E la semplice esclamazione suscitò gran soddisfazione al docente.
“Quindi – proseguì, perché non bisogna mai perdere il momento in cui l’attenzione è più vorace – Il comandante della flotta Venetica, tal Vittorio d’Eraclea, mandò incontro alla flotta nemica piccole imbarcazioni, in grado di navigare in una marea alta un metro, con l’ordine dopo un primo attacco, di simulare la fuga.”
“Come i guerriglieri!” Commentò Giorgio, che aveva appena visto un film sull’argomento.
“Più o meno – concordò il prof – Infatti, le grosse navi di Pipino provocate, si diedero all’inseguimento. Ben presto, sorprese dalla bassa marea calante, furono bloccate nelle secche ed esposte, con l’arrivo di molte altre piccole imbarcazioni venetiche, al lancio di frecce, sassi, pece bollente, ecc. senza potersi muovere. Fu una vera e propria carneficina che è rimasta per secoli nella memoria dei veneziani. Il canale che da Malamocco lungo Poveglia, Santo Spirito, San Clemente, giunge fino quasi a San Marco, come si chiama?..... Si chiama Canal Orfano, perché ricorda la morte dei tanti padri guerrieri franchi.”
“E come si concluse la guerra?”
“Pipino si arrese e la leggenda vuole che avesse gettato il suo scettro in acqua, per testimoniare che rinunciava ad ogni pretesa su quelle lagune. In effetti, la rinuncia ad ogni diritto sui Venetici fu ufficialmente sancita con la pace di Aquisgrana (812) tra Franchi e Bisanzio, Venezia poté così ricollegarsi a Bisanzio e praticare liberi scambi con l’Occidente”
“E creare la sua fortuna economica…” Aggiunse Giorgio che aveva un piccolo negozio di specialità veneziane.
“Già – constatò il prof – ma ancor più importante fu la conseguenza politico istituzionale. Senti cosa dice lo storico Renier sull’importanza fondamentale della vittoria – e dal suo zainetto estrasse un quaderno zeppo di appunti che sfogliò rapidamente – Ecco… sì.. la difesa di Rialto..
le terre dei veneziani non furono più una raccolta di isolette disgiunte fra loro, ma una Repubblica unita ed una vera città, che fu denominata Venezia.”
“Quindi prima erano solo dei poveri pescatori separati nelle isole…”
“Piano, piano –replicò il prof – non tanto separati e soprattutto non tutti poveri. Senti un po’ come Alvise Da Mosto descrive il successivo doge, quell’Agnello Partecipazio o Angelo Parteciacio, che governò dall’810 all’827 e che alcuni cronisti sostengono vero protagonista della difesa di Rialto – frugò tra le pagine degli appunti e proseguì – Si dice appartenesse ad una famiglia di Eraclea, che secondo Da Mosto era: molto ricca per le proprietà rustiche e fondiarie, che possedeva disseminate su tutto il territorio, e per i lucrosi fondaci commerciali da lei aperti per l’esercizio dei traffici marittimi - e quindi più avanti aggiunge che aveva: casa domenicale a Rialto (..) altre proprietà ad Eraclea, ad Equilio e Torcello, vigna nel lido bovense, paludi, valli e mulini nell’estuario, un ricco corredo di servi e serve, di bestiame, di piante arboree e da frutto, di pascoli, selve e mezzi di trasporto fluviali.”
“Ost…rega! Ogni ben di dio!” Esclamò il giovane.
“Hai detto giusto Giorgio e pensa che da loro ebbe origine un’altra ricca famiglia. I Badoer, da cui un detto popolare, in voga fino a non molto tempo fa, che affermava –Pien come un Badoer – per indicare chi aveva raggiunto la ricchezza”
“E con tutti questi soldi, fu davvero un bravo doge?”
“Credo proprio di sì – confermò il docente – basterebbe elencare un po’ dei suoi interventi, per esempio la sistemazione edilizia di Rialto, nuovo centro del dogado. Presso la chiesa di San Teodoro fabbricò l’abitazione del doge, e pose le basi anche del futuro Palazzo Ducale. Forse, la razionalizzazione di un ramo del fiume Brenta fu l’eredità più spettacolare. Il corso dell’antico fiume Prealto, con quella via d’acqua larga e profonda, spartì in due gruppi l’arcipelago. Era nato così il Canal Grande, che avrebbe consentito il passaggio alle imbarcazioni più grandi. Insomma, quel luogo da Civitas Rivoalti sarebbe divenuto Civitas Venetiarum.”
“Non capisco bene, quale sarebbe la differenza?”
“Si formò una precisa identità statale, oggi diremmo nazionale, svincolata dal vassallaggio franco o bizantino, con un preciso progetto istituzionale, affermato con concreti provvedimenti. Stai attento, perché questo è il filo conduttore di tutta la mia narrazione. Ci sono passi essenziali nella formazione di una nazione o direi meglio di una civiltà. Il cronista Cornaro da Candia racconta di un piano regolatore preciso, con un magistrato nuovo, ovvero un ufficio urbanistico con tre ripartizioni tecniche: ampliare e ornare la città; bonificazione delle velme; assicurazione dei lidi.”
“Insomma, un regolamento comunale” Confermò il giovane che ben conosceva la burocrazia, a volte spietata nel controllo delle attività commerciali.
“Forse anche qualcosa di più – concordò il prof – perché si aggiunse un’intelligente, accurata, e inevitabilmente forzata, distribuzione delle popolazione nel territorio, in modo da colonizzare anche le parti meno frequentate e bonificare dossi e barene, costruendo nuove case e chiese.”
“Quindi era nata la Serenissima Repubblica?”
“In un certo senso sì, ma per completare l’opera serviva un elemento forte d’identificazione, un simbolo cui riferirsi popolarmente. Qualcosa che avesse a che fare con la religione che a quei tempi riempiva l’immaginario di conforto e speranze. C’era già un santo patrono però di origine bizantina, San Teodoro di Amasea, per i veneziani Todaro, il guerriero con scudo e lancia che svetta da una delle colonne della piazzetta a San Marco. La statua è ancor oggi simbolo di Venezia e della sua capacità di riunire culture diverse. Pochi lo sanno, ma è stata costruita con un assemblaggio di elementi di diversa provenienza, La corazza è dello stesso marmo del Partenone; la testa e il busto sono d’imperatori romani, forse Costantino e Adriano; lo scudo è in pietra d’Istria; mentre gambe, braccia e lo stesso drago provengono da un’isola tra mar Egeo e Mar Nero”
“Al Todaro, dove si va a mangiar il gelato – confermò Giorgio – la mia bimba mi tormenta sempre quando passiamo di là”
“Anch’io avevo quest’abitudine, però mi pare che nel tempo la qualità sia cambiata… anche i santi protettori cambiano e se poi rimane la spettacolare leggenda devozionale, le mutazioni hanno spesso una più discreta, perfino segreta, motivazione politica. E’ così che a Venezia giunse San Marco…”
“Ah prof, questa la so.. el sogno col Pax Tibi… e poi i mercanti che lo portano via coperto di maiale… e a Venezia costruiscono la basilica.” Si fermò in cerca di approvazione, soddisfatto della sua sintesi.”
“C’è del vero in quel che dici, ma c’è anche di più. Se hai tempo e pazienza ti spiegherò perché questa vicenda, che spesso viene raccontata nella cornice della leggenda, è forse il più importante momento fondante della città di Venezia e della sua secolare Repubblica. Per capirlo però dobbiamo affidarci a quei dati storici che suggeriscono una lettura meno fantastica e più concreta.”
“Dai prof, ormai avrà capito che non mollo finché non arriviamo al punto. E poi mi piace imparare queste curiosità della storia di Venezia… poi le racconterò in negozio ai turisti e così… fasso un figuron!”
“Allora comincia a prender nota, perché stiamo arrivando al cuore della vicenda. Il protagonista è il figlio di Agnello, Giustiniano Partecipazio, che fu doge (827 – 829) di grande acume. Intanto riportò un grande successo, potremmo dire di politica estera, aiutando l’imperatore di Oriente contro i Saraceni con la riconquista di Siracusa.”
“Ci sono andato in viaggio di nozze …. Che bella Ortigia e il teatro…” Commentò il giovane, felice di essere stato dentro la storia.
“Forte di tale accreditamento pensò come risolvere l’annosa questione dei patriarchi di Grado, a suo tempo riconosciuto da Carlo Magno, e di Aquileia, sostenuto invece dal bizantino Lotario, sempre in baruffa tra loro, non tanto per questioni dottrinali, ma per il potere terreno – riprese il prof – Giustiniano, molto ambizioso, pensò ad una terza realtà, perfino più forte e sicuramente indipendente da entrambi. Il Papa voleva riunificare le sedi in un unico patriarcato, e per accreditarsi come futura sede ecclesiastica ci vogliono reliquie di un certo livello. Serviva un simbolo che unificasse questi mondi, serviva un santo di grande prestigio. E’ da questo che ideò la traslazione del corpo di San Marco, l’apostolo che convertì le lagune.”
“Ma non erano stati dei mercanti di passaggio… sì, lì in Oriente.. non ricordo bene dove, che comunque quasi per caso avevano trovato…” Suggerì Giorgio.
“Va bene… va bene, la leggenda la conosciamo tutti fin da quando ce la raccontavano alle elementari, però ora siamo cresciuti e dobbiamo guardare meglio dentro alle favole. Conviene in primo luogo conoscere meglio i protagonisti, i famosi due mercanti che tu prima ricordavi “
“Sì, mi ricordo che alle medie ci avevano fatto veder un mosaico che mostrava la navetta con i due e il santo…”
“Bravo, è nella basilica e ricorda Buono o Bon di Malamocco e Andrea detto Rustico di Torcello. Il primo, Buono era stato nominato tribuno per essersi distinto nella battaglia che ho raccontato prima, quella contro il re franco Pipino. Si racconta che fosse non solo validissimo mercante, ma anche il più esperto navigatore di quei tempi, specie in caso di condizioni climatiche avverse. Rustico era un ex carpentiere ed abile mercante, nonché un po’ come tutti all’epoca anche lui valente marinaio.”
“Beh, Malamocco la conosco, ma Torcello è ben lontana dal centro, come mai erano insieme?”
“Si dice che anche Rustico avesse combattuto Pipino. Però a molti appare più politica la scelta. Torcello e Malamocco sono i centri che per primi sono stati abitati in laguna, ma che dopo lo spostamento del centro a Rialto e San Marco, stavano perdendo potere. L’incarico del doge, oltre che per l’abilità e il coraggio dimostrati, sembra quasi un atto fondativo nella concordia, facendoli diventare eroi nazionali.”
“Ma allora non fu un caso!” Esclamò stupito Giorgio
“Quale caso? – ribadì il prof – fu una delicatissima missione segreta, che meriterebbe uno degli spettacolari film colossal americani. Partiti nel novembre 827 con 10 navi, contravvenendo alle disposizioni di Bisanzio, ufficialmente accettate anche dal doge, di non trafficare con gli arabi, dalla flotta si staccò la nave San Nicola, di proprietà del Buono, per raggiungere Alessandria d’Egitto”
“E’ quella del famoso Faro?”
“Sì, certo quello che si racconta fosse alto 120 metri. Ma c’era anche il tempio del dio Serapide.
Era una metropoli cosmopolita di un milione di abitanti…. Dove San Marco, inviato da Pietro a fare proseliti, dopo l’apostolato nella sua Cirenaica (Libia orientale), fu arrestato mentre celebrava la messa di Pasqua, il 25 aprile del 68. C’è chi dice che non sopravvisse al secondo giorno di detenzione. Altri descrivono il suo martirio, trascinato da cavalli fino a staccargli la testa e, come segno di ulteriore disprezzo, condannato alla cremazione. Secondo la leggenda, una bufera avrebbe spento le fiamme, consentendo di salvare le sacre spoglie, poi conservate nel santuario. Ma questo lo approfondiremo dopo, adesso voglio restare sul film della nave”
“A me piacciono i film di pirati”
“Hai detto giusto. Forse non erano pirati, ma certo non solo mercanti. – prese in mano gli appunti e con fervore cominciò ad elencare i membri dell’equipaggio della nave San Nicola – Buono da Malamocco comandante; Rustico da Torcello primo ufficiale; Pietro pilota e secondo ufficiale; i marinai Giacomo, Emilio, Nikos e Medes; il legato del doge Isepo Basejo detto Giusto; i soldati Brutus detto Brutto e Hubert de Gascoyne detto Franco; il medico ebreo Eilhu ben Moische e il suo assistente Rebekan ben Moische.”
“Sembrano quelli del film la sporca dozzina!” Suggerì ridendo Giorgio che amava rivederlo ogni Natale.
“Insomma – proseguì il prof – si sapeva da tempo che il califfo Mamun di Alessandria aveva intenzione di costruire moschee e palazzi, utilizzando colonne e marmi presi dalle chiese cristiane. Si pensò allora di usare il panico dei custodi per convincerli a concedere di salvare i resti del santo. Vennero perciò promessi anche grandi onori e generose ricompense. Ma non fu per niente un’impresa facile e oltre ai poteri magici del santo, ci vollero molta astuzia, abilità e complicità, in particolare del monaco Staurazio e del prete Teodoro, sacerdoti greci e custodi del tempio.”
“Davvero prof, questa potrebbe diventare una serie televisiva. Ma, esattamente come fecero a prendere i resti del santo, senza farsi scoprire dai fedeli che immagino numerosi?” Chiese il giovane incuriosito.
“Bravo! E’ proprio nel trafugamento che si rivelò l’abilità della banda. Molte notizie le abbiamo da Andrea Dandolo che, dopo l’elezione a doge nel 1343, scrisse la Ducis Venetiarum Chronica per extensum descripta, in cui fornisce precisi dettagli dell’operazione.”
“Già, ma io non so il latino”
“Te li riassumo io, si tratta di due trucchi geniali, potremmo dire da mercanti truffaldini. Il primo è per ingannare i fedeli locali del Santo, contrari alla sua rimozione. Il corpo era avvolto in una veste di seta e chiuso nella stessa, da capo a piedi, con molti sigilli. Per evitare sospetti, portano il corpo di Santa Claudia (qualcuno dice San Claudiano) e tagliano dietro il mantello, estraggono il corpo di S.Marco e lo sostituiscono con quello di S..Claudia, mantenendo intatti i sigilli. Così, quando per miracolo il corpo del santo diffonde in città un misterioso profumo soave, i fedeli accorsi col sospetto che sia stato mosso il corpo dell’Evangelista, davanti ai sigilli intatti, devono ricredersi.”
“Però che furboni ‘sti mercanti!”
“Il secondo trucco già lo conosci, è quello famoso per trasportare il corpo alle navi e superare i controlli dei doganieri. Lo ricoprono di verdure e carne di maiale, così inorriditi i Saraceni quando esplorano la merce gridano “Ganzir! Ganzir!” (maiale) e lasciano passare.”
“E giunti in nave, dove lo nascondono? Perché potevano esserci altri controlli…”
“Raggiunta la nave, lo coprono con una vela, finché si allontano dalle spiagge, lontani dai controlli dei Saraceni. Benché nascosto, il Santo non resta inerte. La leggenda vuole che salvasse l’intera flotta dal pericolo di naufragio. Infatti, in una notte tempestosa, con le navi furiosamente spinte dal vento e in imminente rischio di naufragio, il Santo sarebbe apparso in visione a un monaco di Comacchio, un certo Domenico, dicendo di ammainare rapidamente le vele. I marinai obbedirono e la flotta si salvò, raggiungendo intatta le isole Strofadi”
“Eh va ben prof, ma qui andiamo sul fantasy…” Suggerì l’allievo che non aveva mai frequentato l’ora di religione.
“Già, lo so che tu hai sempre preferito l’ora alternativa, utilissima per la sigaretta in cortile o la trascrizione degli esercizi di matematica.. è per questo che ora ti voglio descrivere meglio la figura di San Marco. Non voglio convertirti, ma credo sia utile per tutti sapere con più precisione chi fosse e la sua importanza per il contesto veneziano”
“Va bene prof, per lei mi faccio anche il segno della croce” Celiò Giorgio, ben sapendo che il docente era convintamente laico ed agnostico, casomai forse buddista, perché aveva raccontato spesso di viaggi in Oriente e di meditazione.
“Devi sapere che San Pietro non parlava greco, che era all’epoca la necessaria lingua internazionale, un po’ come l’inglese oggi. San Marco divenne quindi il suo traduttore personale. Ascoltando i racconti del maestro, cominciò a trascriverli. Nacque così il suo Vangelo, redatto in greco e conosciuto come il più breve dei quattro. Nei 16 capitoli, San Marco accenna spesso a Cristo come figlio di Dio e c’è chi dice che perciò fu scelto come simbolo dell’Evangelista il leone, dominatore degli animali.”
“Ma quindi lui è sempre stato con San Pietro a Roma?” Osservò il giovane cui non tornavano i conti.
“No, nell’anno 48 Pietro inviò Marco ad Aquileia che, per importanza dopo Roma, era la seconda città della penisola. Dopo due anni di feconda permanenza, durante la quale compì anche il suo primo miracolo, guarendo dalla lebbra Ataulfo, figlio di Ulfio, capo della città, Marco decise di tornare a Roma. Assieme a lui c’era il friulano Ermagora, che avrebbe dovuto essere nominato da Pietro ufficialmente nuovo responsabile dei cristiani di Aquileia.”
“Insomma, una specie di consiglio direttivo dei rappresentanti…” Scherzò Giorgio
“Attenzione, perché ora inizia la leggenda che ci riguarda e spiega meglio la volontà di possedere le reliquie del santo. Rientrando da Aquileia verso Ravenna, per poi proseguire via terra verso Roma, la barca a vela, spinta da una forte bufera, fu costretta ad attraccare su un isolotto della laguna veneziana: Rivo Alto.”
“Mi pare di aver già sentito questo nome…” Osservò ironico il giovane che cominciava a capire il legame simbolico.
“Infatti, è proprio qui che, secondo la leggenda, il Santo avrebbe avuto la visione mistica che profetizzava la sepoltura in una magnifica, nuova città. E ora sappiamo che era Venezia. Anche tu ricordavi che l’angelo disse: Pax tibi Marce, Evangelista mei, qui riposeranno le tue spoglie.”
“Quindi non poteva che essere lui il nostro patrono…aveva ragione il doge… un Evangelista vale molto di più di un uccisore di drago.. Però è così perfetta la storia, che mi pare quasi costruita ad arte… Tutto combacia.. Mah…” Giorgio esprimeva dubbi sinceri.
“E non è finita, caro mio, perché ci saranno ancora nuove sorprese – Il prof scrutò se vi era interesse e convinto proseguì – Risalito l’intero agitato mare Adriatico, il convoglio con i resti del santo giunse infine ad Umago, in Istria, da dove fu inviata un’ambasciata al doge, per preparare una degna accoglienza. Infine, il 31 gennaio 828 il corpo di San Marco arrivò a Venezia, nel porto di Olivolo, che era la sede vescovile nel Sestiere di Castello. Ad accoglierlo vi era l’intera città, guidata dal vescovo Orso e dal doge Giustiniano Partecipazio. In attesa che venisse costruita la Basilica, le spoglie del santo furono custodite in una stanza del Palazzo Ducale.”
“E i nostri eroi? Che fine hanno fatto gli agenti segreti?” Chiese il giovane curioso.
“Di certo sappiamo che furono premiati e ricompensati con una bella cifra, si dice 100 libbre d’argento ciascuno.” Fu la prima risposta.
“Cioè? Quanto sarebbe in euro?” In Giorgio si era risvegliato l’animo del mercante veneziano.
“In euro attuali non ti so dire - rispose il prof - perché non ricordo le quotazioni dell’argento, però posso ricordarti che la libbra veneziana, aveva due tagli: sottile e grossa, una corrispondeva a 301,230 gr. e la seconda 476,999 gr. Quindi, nella peggiore delle ipotesi, si trattava di più di 30 Kg d’argento.”
“Caz…zarola! E non c’è oggi qualche altro Santo da recuperare?” Esclamò interessato Giorgio.
“Eh, tu sei quasi blasfemo e venale… i nostri eroi erano più devoti – disse sorridendo il prof – sappiamo, ad esempio, che Rustico spese l’intero guadagno per far costruire una chiesa a Torcello, che nel tempo andò distrutta. Recenti scavi parrebbero aver identificato le rovine che confermerebbero non trattarsi di leggenda.”
“Si vede che aveva molti peccati da farsi perdonare!” Fu la testarda valutazione del giovane.
“ Questi sono curiosi dettagli – prosegui l’anziano docente - Ciò che conta è il mito che attorno a quelle ossa nasce e cresce. I Partecipazio fanno fondare la Basilica e grazie al corpo di Marco e l’accresciuto potere di grande porto commerciale, in breve tempo Venezia diverrà il centro principale riconosciuto delle lagune venete, alleata di Bisanzio, ma anche sede di un suo patriarcato esclusivo.”
“Non pensavo che la Basilica fosse così vecchia…. Erano davvero bravi anche prima dell’anno mille.. con tutte quelle colonne e quei mosaici…” Osservò Giorgio che aveva molto senso pratico.
“Piano, piano,… frena – interruppe il prof – quella che vedi ora è la versione finale, quella che si potrebbe dire la terza. Anche se, a causa delle continue riedizioni e costanti lavori di manutenzione, a Venezia, quando i lavori si prolungano troppo, si dice: Xe come la Ciesa de San Marco, intendendo che non è mai finita”
“Sì, sì – esclamò il giovane – lo diceva spesso anche mio zio, rivolto alla ditta restauratrice del negozio, che ci ha fatto penare a lungo. Ma le prime due, perché sono state distrutte?”
“Allora sarò didascalico – prosegui il prof, sfogliando gli appunti sino alla pagina dedicata – ecco qui: Basilica Cattedrale Metropolitana Patriarcale di San Marco Evangelista, perché è così che precisamente si chiama, anche se fin dall’XI° secolo fu soprannominata la “Chiesa d’oro”, per il prezioso tesoro, per i mosaici, per i maestosi elementi progettuali, ecc. Era la chiesa palatina della Repubblica. In effetti, la prima versione, andò a sostituire nell’828 la cappella palatina di San Teodoro, che si trovava nell’attuale piazzetta dei leoncini. La seconda versione, più ampia e prestigiosa, fu completata nell’832, nel luogo attuale. Andò però distrutta dalle fiamme, nella rivolta del 976.”
“Una rivolta? In centro e con le fiamme? Come mai?” Chiese il giovane, davvero sorpreso.
“E’ una vicenda molto intricata e quasi dimenticata, anche se forse tra le più cruente della storia veneziana. Il protagonista è il giovane Pietro Candiano IV, eletto doge, anche se prima aveva congiurato contro il padre, doge Pietro Candiano III, schierandosi col re d’Italia e perciò esiliato. Richiamato dopo la morte improvvisa del genitore, forse su potente pressione del re Berengario, cominciò a spremere i patrizi veneziani, con giuramenti di fedeltà, nuovi tasse sui commerci, arricchimenti personali, ecc. e, in breve, scatenò la rivolta del popolo.”
“I ga fato ben!! – approvò Giorgio che odiava le tasse – maledetti i potenti che succhiano sangue!”
“A volte però le tasse servono – cercò di mitigare il docente – specie per i servizi… Comunque la vendetta fu davvero feroce. Il doge si chiuse nel Palazzo, che allora era diverso dall’attuale. Si trattava di una specie di castello, difficilmente espugnabile. Ecco che i rivoltosi lo incendiano. Le fiamme si alzano e avvolgono la fortezza. Il doge è in trappola e alla fine esce dalla piazzetta dei leoni. I veneziani inferociti vogliono linciarlo, s’inginocchia e chiede pietà. Ma viene trucidato e fatto a pezzi.”
“Son sicuro che questa è la puntata della serie che avrà maggior audience!” Commentò Giorgio che di tv si intendeva.
“Beh, so che la crudeltà piace… però in questo caso si andò davvero oltre, perché poco dopo uscì dal palazzo in fiamme anche la balia, con in braccio il piccolo Pietro, figlio del doge. Anche il bambino fu smembrato senza pietà. La folla può davvero divenire un mostro dalla ferocia inaudita.”
“Ha ragione.. mi ricordo sa, quanto ne avevamo discusso in classe su quel brano dei promessi sposi.. quello del pane – commentò il giovane – e che dibattito con Angelini, che diceva che era sempre colpa della polizia, che è violenta e scatena la violenza”
“Comunque l’incendio si propagò – il prof ritornò sul tema – e distrusse circa 300 abitazioni oltre alla chiesa di San Marco, di San Teodoro e di Santa Maria Zobenigo. Però, come spesso accade nella storia, dal disastro nacque in positivo il nucleo architettonico della moderna Basilica, con la piazzetta dei leoni e il Palazzo Ducale, a formare quella Piazza San Marco che è un miracolo estetico.”
“Scusi prof…. Ma il Santo… anca iu xe ‘ndà rosto?”
“Più rispetto, ragazzo, per i resti del nostro patrono – lo rimproverò bonariamente – e ti racconterò dei dettagli che ti faranno cambiare idea sui poteri dei santi. Dunque, il doge Domenico Contarini nel 1063 cominciò la ricostruzione della chiesa, più o meno come la precedente e molto simile alla Basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli, poi distrutta dagli Ottomani. Di nuovo ci fu un incendio, stavolta per incidente e i lavori finirono solo nel 1094. Purtroppo, durante i lavori di restauro, si scoprì che la teca con la preziosa reliquia era scomparsa.”
“Accidenti! E allora?”
“Con la disperazione della popolazione veneziana che interpretò come nefasto l’evento, vennero organizzate novene, preghiere, processioni e invocazioni a Dio, per poter ritrovare le ossa del Santo. Poi….. – qui ci stava davvero bene una pausa ad effetto – il 25 giugno 1098, accadde il miracolo, rimasto negli annali di Venezia, anche se raccontato in modo diverso”
“Cioè?”
“Sembra che al momento culminante della celebrazione, da una colonna della Basilica comparve un braccio, a indicare il luogo tanto cercato; altri raccontarono che comparve il Santo in persona..”
“Eh, dai prof, ci risiamo col fantasy!”
“Beh, allora senti un po’ cosa racconta nelle memorie Casanova, che ricordo essere stato uno dei tuoi autori preferiti, quando abbiamo letto della sua fuga dai piombi…. Che fuga da figo! Commentasti. Bene, lui dice che sulla colonna contenente i sacri reperti, apparve l’immagine del leone alato, simbolo proprio di S.Marco.”
“Sì, ma Giacomo era abituato a raccontare balle… specie alle donne.” Non si arrese Giorgio.
“Comunque sia, subito dopo l’apparizione, si forò la colonna e miracolosamente le reliquie riapparvero, diffondendo in tutta la basilica un profumo dolcissimo. Ricordati che, per secoli, San Marco venne festeggiato con la stessa dedizione il 25 aprile, giorno della morte e il 25 giugno, giorno del suo ritrovamento.”
“Va bene, ci credo, però ho una curiosità da sempre, qualcuno ha mai visto queste ossa?”
“Caro amico, a questo punto potremmo cominciare un’altra serie, come dici tu – aggiunse il prof un po’ incerto sul da farsi – hai ancora qualche minuto?”
“Non vorrà mica lasciarmi in sospeso sul più bello? Come in televisione, quando fanno la pubblicità poco prima della fine del film.” Lamentò il giovane preoccupato.
“Hai ragione e allora ecco la nuova questione. Qualcuno ha visto i resti del Santo, anzi dei santi”
“Cioè, cosa significa?” Chiese Giorgio davvero sorpreso.
“Quando nel 1811, venne decisa un’ispezione della sepoltura, per spostare le reliquie sotto l’altare maggiore, onde evitare il rischio di inondazione con le alte maree, l’ispettore, il conte Manin, trovò i resti di due persone: uno completo anche con la testa, il secondo solo con delle ossa.” Il prof attese e apprezzò il silenzio di riflessione.
“Ma allora l’altro chi era?”
“Ottima domanda, e molto suggestiva è la risposta che alcuni studiosi proposero. Ti ricordi di Alessandro Magno?”
“Come no, ho appena rivisto il film Alexander con Brad Pitt”
“Apprezzo molto la tua cultura storica – proseguì il prof – allora saprai anche che quando morì nel 323 a.C., per volere dei suoi generali fu sepolto ad Alessandria, città che aveva fondato, in un gigantesco mausoleo diviso in due parti: una grande piattaforma chiamata Sema (tomba) di circa 800 x 600 metri, al cui interno vi era un’altra struttura Soma (corpo) che conteneva i resti del condottiero.”
“Si tratta di leggenda o di verità?” Chiese il giovane che cominciava ad apprezzarne la differenza.
“Di questo sepolcro narrano tutti gli storici romani, perché fu venerato fino al 390 dell’era volgare. Tutti i grandi vi andarono in pellegrinaggio: Cesare, l’imperatore Augusto, ecc.. Svetonio racconta perfino che Caligola s’impadronì dell’armatura dell’eroe. Settimio Severo fece sigillare la tomba per evitare ulteriori oltraggi.”
“Ma c’è ancora? Mi piacerebbe visitarla…. Ho visto che ci sono crociere che sostano anche ad Alessandria.” S’interessò Giorgio.
“Mi spiace, arrivi tardi. Nel 391, l’imperatore Teodosio emanò il famoso Editto che bandiva ogni religione pagana. Da allora cominciò la progressiva distruzione fisica del mausoleo.”
“E cosa centra con San Marco?”
“Ecco come s’incrociano i loro destini. Nel IV° secolo, sconfitto il paganesimo, si sostituì il culto pagano di Alessandro con quello di San Marco. I pellegrinaggi si indirizzavano in una chiesetta, costruita all’altezza della porta orientale di Alessandria medievale, chiamata Porta Cairo o Porta di Rosetta. Gli archeologi la identificano come crocevia dell’antica Alessandria e si ritiene che quelle mura siano i resti del recinto della tomba di Alessandro. In più sappiamo che quella chiesetta divenne meta di pellegrinaggio di mercanti veneziani, che vi rendevano grazie per il buon esito del viaggio.”
“Ma questo non spiega perché i due corpi arrivano a Venezia.” Notò Giorgio.
“Non ti ho detto ancora che i resti di Alessandro non furono mai ritrovati. Forse perché nascosti bene? Certo è un po’ strano per la venerazione di cui godeva. L’ipotesi che alcuni hanno fatto è che Bon e Rustico, trovandosi davanti a due corpi, nel dubbio abbiano portato via entrambi.”
“Mi sembra un po’ tirata per i capelli – commentò il giovane – magari da qualcuno che vuol fare bella figura, perché se fosse vera sarebbe davvero una bomba.”
“Non è così campata in aria. C’è un ricercatore inglese, Andrew Michael Chugg, che ha scritto ben due libri – aggiunse il prof, sempre spulciando dal prezioso blocco di appunti – sì, ecco: The lost tomb of Alexander the Great (2004) e The Quest for the Tomb of Alexander the Great (2007). In entrambi, propone ragionevoli indicazioni di verosimiglianza con la sua ipotesi che il corpo intero sia quello di Alessandro. Per esempio ha scoperto un frammento lapideo proveniente dal sepolcro, con i simboli della famiglia dei Tolomei. In fondo a me l’idea non dispiace. Che a proteggere la città, oltre al più giovane dei santi Evangelisti, ci sia stato anche il più giovane e forse più grande condottiero della storia, mi pare coerente con le inimitabili, gloriose vicende della Serenissima.” Concluse il prof, che era un convinto tifoso della città.
“E c’è inoltre un’altra curiosa coincidenza – aggiunse – c’è un altro Alessandro, un grande papa condottiero, Alessandro III°, anche a lui fu dedicata una città, Alessandria, il 3 maggio 1168. Sostenitore della Lega Lombarda, aveva scomunicato l’imperatore. Abile diplomatico, concluse nel 1177 la pace di Venezia con Federico Barbarossa, ponendo fine alla diatriba secolare tra papato e impero. In quell’occasione, durante la festa della “Sensa”, concesse al doge Sebastiano Ziani e ai suoi successori, di sposare il mare, con il lancio dell’anello in laguna, confermando così il predominio su di esso della città. Si può dire che con lui si chiude il cerchio della formazione politica di Venezia”
“Caspita che incroci di destini… - commentò il giovane – mi ha quasi convinto che.. “
“E non si potrebbe controllare le ossa con le tecniche moderne… per capire?” Chiese Giorgio, che oltre al senso pratico, aveva anche frequente consuetudine col genere poliziesco.
“Certo, si potrebbe, volendo. Uno dei problemi è che il ricercatore Chugg già aveva chiesto nel 2005 all’autorità ecclesiastica, di poter effettuare un’indagine scientifica sul corpo di San Marco. Non ha ancora ottenuto risposta. Lui sostiene che basterebbe anche solo una TAC, perché il corpo eventuale di Alessandro sarebbe facilmente riconoscibile dalle tracce delle molte ferite che aveva subito in battaglia.”
“Papi, Papiii…” Si sentì la voce allegra e felice della bimba che correva ad abbracciare il padre.
“L’acqua era un po’ fredda…. Ma sono stata brava sai… ho fatto anche il bagno… chiedi alla mamma.” Aggiunse, stringendosi forte alle gambe del papà.
“Ecco prof, questa è Sara… e questa è mia moglie, Clara.” disse Giorgio presentando la bella signora che li raggiunse. Poi rivolto alla bimba, chiese: “Sai chi è questo signore? Lui è stato il mio professore quando andavo a scuola…”
“Il tuo maestro? – domandò la bimba – e… era bravo?”
“Bravo sì – rispose il padre – anzi, il migliore.”
“Sei troppo generoso.” Si schernì il docente.
“Grazie prof, è stato davvero un piacere ascoltarla di nuovo…. Ho imparato un sacco di cose nuove… e secondo me… dovrebbe scrivere un racconto.”
“Ci penserò.”
Si salutarono affettuosamente e mentre osservava la famigliola allontanarsi, il vecchio prof pensò che forse il suo lavoro non era stato tempo sprecato.
S.V. Ottobre 2023