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Cristina Maria Lora
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Cristina Maria Lora

Di origini Venete, è nata nel 1969 a Valdagno (Vicenza), dove vive e lavora presso il proprio comune di residenza; un lavoro che la appassiona per lo stretto contatto umano.
Laureata in economia aziendale a Ca’ Foscari, ama leggere, ascoltare musica, correre all’alba nei boschi che popolano i colli e i monti abbracciati alla sua città.
PRIMO CLASSIFICATO
"Orti dei Dogi" -Racconti-
La bambina con le ruote
“Orti dei Dogi”
Narrativa
FEMIA








«Portami a ballare!»
‘Femia, io non so ballare!»
Come? Mi hai insegnato tu a ballare! E non chiamarmi ‘Femia, il mio nome è Eufemia!»
Che ti accade?»
A me? Tu piuttosto, stai bene? Ti chiedo di portarmi a ballare e mi domandi che cos’ho! Ho voglia di ballare. È sabato oggi o no?»
«Sì!»
«Ecco! Stasera andiamo a ballare, Gianni.»
Gianni! Mi aveva chiamato Gianni!
Ero basito, fermo con i piedi allineati a ricomporre lo sbandamento delle mie gambe nel vuoto che correva tra me e il sofà sul quale era seduta nonna, che imperterrita continuava a premere i tasti sul telecomando in uno zapping casuale quanto le sue parole.
Ero rientrato la notte prima dagli Stati Uniti dopo uno stage di addestramento cinofilo con i miei Golden Retriever e nonna non capiva più chi io fossi e neppure io riuscivo a collocare le sue affermazioni sconclusionate dentro una spiegazione plausibile.
Prima di partire, avevo percepito in lei un certo disagio, ma non pensavo a un vertiginoso declino della sua mente. Giustificavo il suo essere, talvolta, spaesata con il mio periodo di assenza che sarebbe seguito di lì a breve. Non lo aveva mai palesato, ma il rimanere a casa soltanto con mio fratello Pietro non la entusiasmava.
Pur vivendo di buon grado assieme a entrambi, il legame che la stringeva a me non aveva la stessa intensità nei confronti di Pietro. Schivo fin da piccolo, aveva relegato la sua vita a uno stile che poco si scostava dalla sopravvivenza; manteneva il distacco da ogni forma di entusiasmo così come da Eufemia e, non di rado, anche da me. Lavorava, al mattino, presso il forno del paese e il resto della sua
giornata era un divenire di ordinaria attesa che separava il rumore in uscita del marcatempo da quello in ingresso del giorno successivo.
Avevamo perso i nostri genitori all’antivigilia del suo decimo compleanno. Io avevo quattro anni.
Nonna Eufemia abitava lontana da noi; l’avevamo vista forse una volta o due e, invero, non era nemmeno nostra nonna, bensì una prozia di mia madre; l’unica parente in grado di farsi carico di noi.
Ci venne a prendere prontamente alla notizia della morte di mamma e papà in un incidente stradale. La sua sagoma scese lesta dalla jeep, comparendo tra la polvere sollevata dalla frenata sull’asfalto; dopo una presentazione sbrigativa, con la stessa rapidità ci portò nella sua casa. Nitido è il ricordo del mio sguardo riluttante, fermo sul suo aspetto ingiustamente anziano, pronunciato da rughe sottili che si confondevano nel volto tagliato da ciocche di capelli bianchi. Nonostante la bellezza dei suoi occhi cerulei e il suo simpatico appellarsi ‘Femia, anziché Eufemia, il nostro primo incontro non entusiasmò nessuno di noi tre. Lei non aveva figli e non era avvezza ad accudire due ragazzini che non sapeva nemmeno da che parte iniziare a badare, e Pietro e io, abituati al mare, non eravamo pronti ad accettare di crescere in un paese di montagna, ai piedi delle Piccole Dolomiti, accanto a una persona devota alla solitudine.
La baita era circondata da faggi accesi in un verde vivace, che moriva tra i ricordi che affollavano l'intonaco spalmato sulle pareti assieme al dolore di Eufemia per un uomo che non c’era più, suo marito Gianni. Ritratti antichi di lei e Gianni, muniti di piccozze e zaini, si mescolavano a foto di cani, a trofei e a stampe che, solo con il tempo, ricondussi al suo amore per gli animali.
Immobili in ingresso, Pietro e io non riuscivamo a separarci dal nostro scarno bagaglio, stretti l’un l’altro nella mano libera dalla sacca. Una luce lesinata filtrava dai balconi semiaperti appoggiandosi sulle gote di Pietro a sottolineare un percepibile pianto. Mi aggregai al suo dolore. Liberai le lacrime tra le fossette disegnate sulle mie guance, cordoglio di un futuro che, né io né lui, avevamo scelto:
orfani e sradicati dalle nostre origini. Feci per asciugarmi gli occhi e il gocciolio del naso con la manica della maglia, quando qualcosa di umido anticipò il mio gesto. Sobbalzai! Un cane mi stava leccando la faccia. Pietro era già schizzato fuori casa assieme al suo fardello, terrorizzato da quella bestia che a me parve invece simpatica. Fu dall’incontro con Big, il bernese di nonna ‘Femia, che Pietro e io ricevemmo il battesimo di quella nuova vita che ci avrebbe condotti all’età adulta: lui, accentuando il distacco per il mondo che gli aveva strappato i genitori, io riavvicinandomi a esso nell’alito di quel cane che riuscì, nonostante tutto, a portarmi il calore che se ne era andato con mamma e papà.
«Pietro!»
«Che c’è Alberto?»
‘Femia è peggiorata! Mi ha chiesto di portarla a ballare e mi ha chiamato Gianni. Perché non me lo hai detto mentre ero via?»
Non volevo allarmarti» tagliò corto Pietro, cercando di nascondermi che aveva già avviato le pratiche con le assistenti sociali del comune per l’inserimento di nonna in una casa di riposo.
Mancavano soltanto il calcolo della retta e qualche firma.
Ripudiai istintivamente la fredda razionalità di mio fratello nei confronti di quella donna che, sebbene inizialmente avessi annoverato a un mondo che nulla aveva a che spartire con il nostro, nel tempo, era riuscita a costruire attorno a noi l’unica famiglia in grado di non dimenticare chi noi fossimo.
Aveva reso possibile il ricordo delle nostre radici ancora attecchite a una terra che era appartenuta alla nostra infanzia e per la quale sentivamo, nonostante il brutale sradicamento, ancora un forte legame.
Quella prozia, sbucata a bordo di una jeep in mezzo alla polvere, aveva abiurato la sua solitudine, accollandosi la preziosa eredità di renderci uomini che un destino prematuro aveva strappato ai nostri genitori.
Eufemia si fece amare giorno dopo giorno sempre di più e io iniziai ad adorarla e a seguirla con la stessa ammirazione con cui un allievo segue il maestro. Mi trasmise l’amore per la montagna, i boschi e i cani che le apparteneva e che sentivo di dover portare avanti come una tradizione di famiglia, al punto tale che decisi di diventare addestratore cinofilo, come lo era stata lei in gioventù.
E ora, mio fratello era ostinato a condannare a un ospizio di città quella stessa donna, prozia o nonna che fosse, che mai smise di accogliere le nostre vite come fossero frutto del suo utero.
Sorretto da quel ricordo, ritornai da Eufemia annichilito tra i miei cani che avevano iniziato a seguirmi come due guardie del corpo; come se avessero percepito il bisogno di protezione che in quegli attimi cercavo per me e per lei. La sentivo indifesa mentre i miei occhi le si rannicchiavano accanto, sulla poltrona a cullare il suo sopore.
Il ticchettio delle zampe sul parquet e lo scodinzolio dei cani sui suoi polpacci la destarono:
«Bella, Lord siete tornati! Alberto, com’è andata in America?»
La ritrovata lucidità della sua mente imbarazzò la confusione della mia.
«Nonna, come stai?»
«Meglio ora che siete a casa. Lord, prendi gli snack.»
Lord si avvicinò alla vecchia credenza e, con la zampa appoggiata al pomello, aprì l’anta e strinse tra gli incisivi due ossa. Ne porse uno a Bella accucciata ai piedi di nonna.
Il sorriso di Eufemia profumò la stanza.
«Bravo!» Nonna gli accarezzò il capo senza che lui distogliesse lo sguardo dal suo premio.
La scena palesò nella mia mente l’immagine di Meg, la moglie di Robert (il mio coach), in quella stanza negli Stati Uniti dove viveva assieme ai cani addestrati dal marito per supplire a ciò che l’Alzheimer le aveva tolto.
Uscii di scatto, folgorato da una soluzione così lucida che non avrebbe potuto non essere la più appropriata per Eufemia.
«Pietro, i cani! I cani sono ciò che serve a nonna, non una casa di riposo.»
Pietro sollevò un occhio e un sopracciglio dal giornale che stava leggendo e mi ammonì severo:
«Alberto, non hai capito. Nonna ha l’Alzheimer! Sei rientrato stanotte dopo un’assenza di due mesi e pretendi di decidere la sua sorte. Non hai parlato con i medici, io sì. Fatti da parte e lascia che chi se ne intende prosegua con la decisione presa, starà meglio in una struttura in grado di seguirla, anziché seduta su una vecchia poltrona quanto lei. Potrai andare a trovarla quando vorrai.»
Mi sentii sbriciolato sulla sedia che resse la caduta delle mie gambe, mentre il gelo che mi investì attraverso le parole di Pietro salì come un brivido a paralizzare le mie labbra, improvvisamente ero incapace di ribattere il suo fare categorico.
Sembrava non esserci verso di convincerlo, sempre più sicuro di liberarsi di lei.
D’un tratto, la rabbia soppiantò la mia inerzia.
«Io non ci sto! Seguimi, Pietro!»
Entrai nella stanza di nonna sicuro di dimostrare a mio fratello ciò che le parole avevano fallito, ma il sofà vuoto fu una sentenza a mio sfavore: erano rimasti soltanto i cani intenti a rosicchiare il loro osso. Nonna, mentre parlavo con Pietro, era sicuramente lucida e aveva colto al volo nel nostro dialogo la sua condanna e la sua fuga.
Le ricerche dei soccorritori proseguivano già da una notte e un giorno e solo Dio sapeva che cosa fosse accaduto a Eufemia. Calò nuovamente il buio e il passare del tempo metteva in discussione la sua vita sempre più. Ero deciso a muovermi da solo. Dovevo trovarla. Aprii il cancello: i cani attraversarono il prato e si infilarono nel bosco scomparendo tra il nero che sbarrava la mia vista.
Cercai di seguire le loro tracce, ma le foglie secche avevano depennato ogni passaggio.
Camminavo a fatica tra rovi, alberi e rimorsi per aver parlato con Pietro ignorando che lei avrebbe capito. Non c’era luce, nemmeno la luna voleva darmi una mano in quel suo quarto calante. Correvo e piangevo. Ero un uomo, ma il dolore non era zona franca né per i miei anni, né per la mia mascolinità.
Nel silenzio che teneva ferma la montagna e le fronde, udii un cane abbaiare: i balzi di Bella si snodavano oltre un filo spinato incapaci di raggiungermi. Intravidi le pietre sconosciute di un rudere.
«Bella, dov’è Lord?»
Bella non smetteva di abbaiare, stavo perdendo mia nonna e forse anche Lord. Il fiato della corsa avvampava la paura per ciò che temevo. Mi infilai in uno slargo tra i reticolati di quella proprietà ermetica. Raggiunsi Bella che, lesta, sgattaiolò nel pertugio di una vecchia porta. Afferrai una spranga e allargai il passaggio. Strisciai. Non vedevo nulla. Confidai nella benevolenza delle macerie traballanti sotto ai piedi. Scorsi a ridosso di un muro il vivo di due occhi che si aggrappavano ai miei, sorvegliati da quell'unico apostrofo di luna che separava i buchi sul tetto.
«Lord, che succede?»
Dipanai i rovi raggomitolati nel rudere. L’ansimo del mio cane proteggeva un respiro rifugiato tra il suo pelo; sotto ai polpastrelli percepii il rugoso tepore di un essere umano. Lord si scrollò e in un gemito la voce uscì allo scoperto:
«Gianni, sei venuto a prendermi? Non voglio finire nel ricovero tra i vecchi, portami a casa. Tienimi con te.»
Gli occhi del buio erano quelli arrotolati tra le lacrime di nonna. Odoravano di muschio e di paura.
Mi mancavano le gambe, nel mio istinto trovai la forza di prenderla in braccio.
«Che è accaduto a Eufemia, Alberto?»
Andrea, l’anziano medico di famiglia, passò a salutare nonna, come ogni lunedì, nonostante fosse in pensione; gli raccontai della notte precedente e del rudere dove mi aveva condotto Bella.
Andrea si illuminò:
«Eufemia abitava lì dove, assieme a Gianni e a suo padre, allevava e addestrava i cani. Le persone malate di Alzheimer ripetono ciò che nel passato è stata la loro quotidianità. Sicuramente si sarà recata con Bella e Lord in quei luoghi. Di tua nonna i cani conoscono l’odore e ricordavano dove cercarla.»
La fuga di nonna rese Pietro ancor più determinato, ma io lo fui più di lui e con l’aiuto di Andrea cercai di comprendere il nuovo mondo a cui la vita di Eufemia era destinata ad appartenere. Andrea si offrì di assisterla durante il giorno; Robert mi aiutò ad addestrare Bella e Lord a essere i suoi cani di servizio.
«Gianni, portami a ballare.»
Mi sussurrò, meravigliosa nel suo abito di strasse identico a quello che la ritraeva nella foto assieme a nonno; poi, ammirò la donna canuta che vedeva nello specchio di fronte a lei e che la fissava dall’azzurro dei suoi occhi. Il loro sorriso era reciproco. Tentò di dirle qualcosa, ma ogni volta che stava per parlare si fermava perché anche l’altra stava per muovere le labbra ed entrambe tacevano di nuovo, fino a quando il suo sguardo si posò su Lord e, udendo il silenzio della donna nello specchio, iniziò a parlarle, chiamandola “mamma”.
«Prendi la spazzola, Eufemia; - le dissi, accarezzandole la mano ancora morbida e guidandola verso l’unico oggetto appoggiato sulla mensola - Pettina i tuoi capelli».
Le setole scivolarono nella chioma briosa. Si pettinava e sorrideva. La sua mansueta obbedienza consolava le mie lacrime.
Le porsi l’acqua di colonia e lei si profumò il collo.
Le passai il rossetto e lei si disegnò le labbra.
Colmi di tenerezza, i miei gesti assecondarono la donna che usciva dallo specchio con le braccia tese verso Gianni per essere condotte al ballo.
Feci partire la musica dall’antico grammofono posto sul fondo della stanza, la strinsi a me e iniziammo a ballare.
La sentivo donna nella fragilità che la narrava bambina tra i piedi mossi dalla danza.
Il decorso della malattia non privò Eufemia della sua tranquillità che, a volte, era eccessiva.
Soffrivo nel vederla spenta. Fu così che arrivò Byron, il cucciolo che mi ero intestardito di addestrare assieme a lei, ripensando a quanto dettomi da Andrea sui malati di Alzheimer e sul loro rivivere la quotidianità del passato.
Il legame tra i due scattò istintivamente, ma nonna non riusciva a istruire Byron; mancava qualcosa per agganciarla al suo vissuto, qualcosa che non sapevo cogliere.
Avevo bisogno di riordinare la mente in quella sera di febbraio quando mi diressi verso l’alpe, alla proprietà dove nonna si era rifugiata e che scoprii essere sua.
Osservai quello slargo nel bosco, coperto d’erba e di stelle: quale spazio migliore per l’addestramento!
Di lì a pochi mesi il mio progetto decollò e portai nonna con me al campo anche se non potevo ignorare che sarebbe rimasta nel suo mondo disorientato.
Entrai con la mia jeep estasiato per ciò che sentivo appartenere al sangue mio e di Eufemia che, taciturna, sedeva accanto a me. Il suo sguardo diveniva via via sempre più vivace. La aiutai a scendere.
Si sdraiò sul prato e accarezzò l’erba e chiuse gli occhi circondata dai cani e dalla primavera.
Stava respirando un passato che viveva al presente.
Rassicurai la sua memoria, aiutandola a stringere uno snack tra le dita:
«‘Femia, fallo annusare a Byron».
Nonna ubbidì e sollevò il suo braccio quel tanto che bastò per portarsi sopra al muso del cucciolo:
«Digli di sedere».
Lei lo fece e il piccolo, scodinzolando rasoterra, ubbidì.
«Dagli il premio, ’Femia.»
Nonna lo stava addestrando, quel prato le ricordava come.
Una volta ancora in quel recinto coricai le mie lacrime tra i fiori selvatici.
Ritornai al campo ogni giorno con gli snack, i cani e nonna ‘Femia che immancabilmente addestrava il suo Byron, rivolgendosi a me, con voce intrisa di felicità e di ricordi:
«Grazie papà per questo bellissimo regalo».
Non mi riconosceva, non più, ma il profondo senso della sua vita colmava il vuoto della mia come la forza dell’aria di montagna riempie le gole aperte tra le rocce, come una carezza appoggiata sul dolore.


LA BAMBINA CON LE RUOTE








-Mamma, guarda! Una bambina con le ruote!-
Mi sentii morire travolta da quelle parole che sbucarono dal tunnel dello scivolo assieme alle gambe del bambinetto che le anticiparono.
E se in quell’istante mi ‘sentii’ soltanto ‘morire’, ora forse sta accadendo realmente: ho trent’anni, sono in un letto d’ospedale con il cranio ricucito, un braccio e un polso ingessati, vittima di un volante stretto da mani ubriache.
Le mie gambe? Quelle si sono scordate di me dal giorno in cui hanno ceduto il posto alle ruote, falciate da una chat incurante del mio diritto di precedenza sulle strisce pedonali: avevo undici anni, i pattini nello zaino, il body sulla pelle e le nazionali nella mente.
Qualcuno nasce con la ‘camicia’, io sono nata con le ‘ruote’.
Ho iniziato a camminare con una gamba e a stare in equilibrio sui cuscinetti con l’altra, così afferma mamma che mi portava con sé agli allenamenti di pattinaggio mentre ancora il pannolino
dava forma ai miei calzoncini.
Confidando nella mia tranquillità, mi sedeva ai bordi della pista in compagnia di bambole e pupazzi; ma quando partiva la musica, i miei occhi relegavano in un cantuccio i giochi per far largo alle piroette che essa evocava. Pian piano, le mie braccia la seguivano fluttuando a tempo. Mamma mi raccontò più volte di quel pomeriggio di maggio quando, rincorrendo l’ascesa del Bolero di Ravel, mi ritrovai nel giro di qualche nota a piedi nudi sulla pista sballonzolante nei volteggi,
incurante dell’impaccio dei miei due anni. L’intera squadra si bloccò per non travolgermi, mia madre zittì la musica per fermarmi, ma il mio udito aveva fatto scorta di melodia e io non smettevo di danzare. Soltanto nell’apoteosi degli applausi misi a tacere le mie gambe per dare strada alle mie lusinghe, ancora oggi serbo la soddisfazione di allora con la stessa gelosia di un segreto.
Poi, finalmente, arrivò il giorno del mio compleanno: tre anni!
Li desideravo fin dal compimento dei due. Trascorsi la notte di trapasso con l’orecchio puntato sui movimenti di mamma, vegliando su di essi, finché lo sbuffare della moka sul fuoco annunciò che il caffè era pronto. Sgattaiolai fuori dalle lenzuola e infilai la trepidazione dei miei occhi nella fessura della porta socchiusa. Mamma era seduta di spalle e, con i gomiti poggiati sul tavolo, stringeva tra le mani la tazza a mezza via, pronta a riporla sulla tovaglia qualora fossi arrivata io.
Non aspettava altro:
-Buon compleanno, amore mio! - la sua schiena mi stava parlando.
Ho sempre creduto che i suoi occhi fossero dotati di un campo visivo a 360 gradi, come quelli delle api.
Le corsi incontro, la abbracciai, curiosa di scoprire ciò che nascondeva sotto al tavolo.
Profumava di ruote la sacca bicolore etichettata da un biglietto bianco interrotto soltanto dal nero di segni incomprensibili e che, ne ero certa, indicavano il mio nome. Strappai il nastro che stringeva i manici, accompagnai con lo sguardo la corsa della zip lungo la felicità, aprii la borsa, sfilai i pattini e li calzai nel candore dei lacci che stringevano lo stivaletto alle mie caviglie; balzai in piedi, incurante di quelle ruote che mi fecero scivolare puntualmente all’indietro. Rimediai una
gran botta sul sedere e la breve cicatrice sulla nocca dell’indice sinistro ancora mi parla di quel compleanno. Ignorai il dolore, onorata per il sangue che indugiava tra le pieghe dei polpastrelli, battesimo del mio esordio sulle ruote; mi alzai da terra, nascosi il dito in bocca per stipare l’emorragia, al riparo da potenziali sgridate. Avverto ancora il sapore ferruginoso di quel liquido rossastro che per mia gioia non aveva segnato il bianco dei pattini.
Gli allenamenti ufficiali presero il via con l’ingresso all’asilo: a tre anni scatta l’avanzamento all’età dei ‘grandi’, si inizia la scuola e si acquisisce il diritto allo sport.
L’aula era festosa in quel trepidare di piccoli banchi verdognoli, su uno dei quali scorsi il mio nome che, grazie a mamma, durante l’estate avevo imparato a scrivere. Adoravo la maestra Susanna, le sue guance rosate erano separate da un grande sorriso che sorreggeva un paio di occhiali anteposti all’azzurro dei suoi occhi. I suoi boccoli biondi cadevano generosi attorno all’ovale del volto, disegnando dolcezza.
Maestra e arredamento a parte, detestavo gli obblighi imposti a comando: “Bambini, in fila per due, andiamo a fare la pipì! Bambini in fila per due, andiamo a mangiare! Bambini in fila per due, andiamo a fare il riposino”. Quella, vita non si confaceva alla mia libertà: quei bagni allineati, privi di porta e con vista sulla fila in attesa; quell’odore di pastina in brodo che mamma mi propinava solamente quando ero ammalata; quelle brandine dalla forgia militare sulle quali, a occhi chiusi, fingevo un sonno che non avevo. Accettai le previste imposizioni solamente perché ero consapevole che mamma doveva lavorare e quello era l’unico luogo che mi consentiva di entrare ufficialmente in una squadra di pattinaggio.
Mamma e io vivevamo da sole: di mio padre non portavo nemmeno il cognome; mia madre era figlia unica e i miei nonni non li ho mai conosciuti, abbino ai loro nomi un volto soltanto attraverso la fotografia che li ritrae felici nel giorno del loro matrimonio e che mamma custodisce sul comodino, accanto al suo letto. In mezzo a quel deserto di legami familiari, l’asilo delle canossiane di Santa Croce era la soluzione ideale per entrambe: per lei che mi sapeva al sicuro e per me che
potevo ‘tesserarmi’ al mio sport preferito.
La rampa si snodava dalle aule al piano sottostante, sfociando sulla pista da pattinaggio con lo stesso slancio con cui le mie gambe si rincorrevano, incespicando nei saltelli della sacca aggrappata alle spalle e in discesa sui talloni. Dal suo interno, il borbottio robusto dei pattini solleticava i miei sogni. Erano dei pattini di seconda mano, contrassegnati in maniera indelebile dal nome dei piedi che li avevano calzati prima dei miei. Sapevo che mia madre li aveva acquistati a fatica, vivevamo del suo stipendio che doveva bastare per fare la spesa e per pagare affitto e bollette. Aveva fatto mettere a nuovo le ruote e il tampone del freno da Sergio, il suo meccanico di fiducia, e io ero sicura che quei pattini fossero appartenuti a una campionessa.
Ero minuscola e la taglia del mio body lo sottolineava nelle grinze che non riuscivo a riempire nemmeno infilandoci sotto una maglia per imbrogliare l’assenza delle forme. Le mie gambe divennero il riassunto della forza che apparteneva alla mia stringente felicità, fino a quando, d’un tratto, il mondo perse i toni della gioia per mano di uno sconosciuto che, distratto da una chat e dall’alta velocità, si prodigò per dividere il mio corpo in due: una parte continuò a dar retta al mio
cervello, l’altra iniziò a far orecchie da mercante ai suoi impulsi dopo essere stata ‘arrotata’ lungo la strada che mi conduceva all’allenamento, assieme ai sogni che portavo dentro la sacca.
Rammentai di avere undici anni riaprendo gli occhi, dopo aver perso la contezza del tempo e la lucidità. Confusa, mi ritrovai circondata da bip che non riconoscevo, con una cannula che si inerpicava lungo le vene delle braccia e la testa che implorava alle mie gambe di sollevarsi, ma la loro replica era un ostinato diniego. I piedi erano sordi alle mie richieste: tentai di muovere le dita
dall’alluce al mignolo, ma ogni falange rimase salda all’infermità che le apparteneva. Imperativa, mi rivolsi alle ginocchia, comandando loro di darmi una mano nel sollevarmi, ma anch’esse rimasero indifferenti. Volevo afferrare il trapezio che penzolava sopra di me come la forca sul patibolo; perpendicolare sopra alla mia testa, mi parlava della mia condanna e io tentavo di agguantarlo, ma non ci riuscivo. In mezzo a quei minuti impanicati, non mi rendevo conto di quanto
fosse accaduto da quando lo stridio incisivo della frenata sull’asfalto mi rese ciò che ero. Per un attimo mi illusi che i miei arti fossero in preda all’anestesia. Carichi d'ansia, i miei polpastrelli iniziarono a esplorare la pelle, impigliandosi tra i capelli, chiedendosi a che cosa sarebbe servita un'anestesia, non incontrando nella loro corsa punti di sutura né cerotti. E, invero, quel verdetto emesso per voce di parole incontrovertibili, fu spietato e inappellabile: ero paralizzata!
Il mio sguardo si defilò dall’immobilità che scivolava sul mio corpo, mentre la flebo gocciolava nelle vene e lo sconforto sulle mie guance.
Smisi di contare l’accumularsi dei giorni e il passare delle ore in quel letto di ospedale, dentro a quella stanza asettica che mi teneva prigioniera delle macchine e delle mie gambe. Le braccia erano l’unica leva per il mio corpo: ero viva a metà, una ‘ragazza con le ruote’, come sincere uscirono, qualche tempo dopo, le parole dalla bocca dello scivolo.
Ruote! Le detestavo tutte: quelle che avevano ammutolito le mie gambe, quelle sulle quali
avrei dovuto sedere per il resto della mia vita, quelle che non avrei mai più potuto calzare per salire sui miei podi. Ero figlia di un destino che aveva interrotto la narrazione alla brutta copia.
In un giorno di tardo inverno, fui dimessa dall’ospedale. Ai bordi della strada la neve stava cedendo il suo spessore alla corpulenza del sole che si palesò come unica luce attorno a me, assieme al sorriso che tracciava una sottile parentesi nel dolore scritto sul volto di mia madre, mentre le sue braccia davano voce alla sedia a rotelle.
Varcammo la soglia di casa: ad accogliermi c’era una vita che non volevo vivere.
Il mondo si appiattiva nell’oppressione della stanza, drizzando le ombre lungo la lentezza del giorno, sibilando solitudine nello stordimento della notte.
Fissavo i miei piedi. In un andirivieni di tepore, i pattini avevano ceduto il posto all’imbottitura delle pantofole; sulle mie gambe una morbida coperta gemeva tra il ruvido dei miei giorni.
Il mio passato tappezzava i muri della camera mentre su di essi vedevo scollarsi, lento, il mio domani.
Lo specchio restituiva spietato l'unica parte di me che ancora respirava, a essa si accodava quella che non mi voleva più. Nei miei occhi liquidi, il volto sbiadiva, interrotto solamente dal tremolio delle labbra strette come mani in preghiera. Tutto il resto era pelle che cedeva forma alle ossa e ai muscoli cancellati. Quell’immagine riflessa mi fissava, spietata come un plotone d’esecuzione, inquisitoria nei confronti della mia voglia di rimanere ai bordi della felicità, istigando
il mio ‘no’.
La primavera era ancora acerba il pomeriggio in cui mia madre si recò dal dentista, sicura che me la sarei cavata anche senza di lei. Stimai il tempo che sarebbe rimasta fuori casa, presi la rincorsa lungo il corridoio, lasciai andare i freni e mi lanciai giù per le scale che conducevano in cantina ruzzolando come pietra nella scarpata, rimbalzando di gradino in gradino.
Volevo farla finita, ma ancora una volta la vita non me lo concesse.
Ero nuovamente bloccata sul letto di una clinica, con entrambe le braccia fratturate e gli occhi appesi al soffitto sul quale palleggiavano come biglie in un flipper.
Essere salvata non era ciò che volevo; desideravo non soffrire più, ma nessuno mi dava ascolto.
Fui dimessa e ritornai ad appartenere a un destino portato avanti su una sedia a rotelle, sotto la stretta sorveglianza di Skate, il cane imposto da mia madre e dal nome paradossale. Tutti, compreso il quadrupede con la coda, diffidavano della mia voglia di vivere.
Settembre si fece alto e io ripresi ad andare a scuola, a uscire al parco vicino a casa con Skate e ad accompagnare mamma agli allenamenti di pattinaggio, come quando ero bambina;
domandandomi che senso avesse quella tortura ai bordi di una pista e della vita, come inerte spettatore; chiedendomi in continuazione il perché di un cane con quel nome, capitato proprio a me che mai avevo desiderato un cane.
-Mamma, guarda! Due bambine con le ruote!-
Mi girai di scatto, con gli occhi strabuzzati sull’ingresso del parco.
-Oddio no, ti prego! - esclamai increspando le palpebre.
Una ragazzina paraplegica accompagnata da un’anziana si stava avvicinando a me. La fissavo con sguardo meticcio tra sfida, odio e insolente comprensione. La donna, gioiosa per la potenziale compagnia, parcheggiò le ruote di quella ‘mezza’ vita accanto alle mie. Stetti in silenzio tenendo Skate ben saldo dal lato opposto rispetto a quello occupato dall’intrusa. Di tanto in tanto, frugavo i suoi occhi con il mio sguardo, mentre lei continuava a parlare, senza cedimento né inflessione del suo entusiasmo.
-Ciao, io sono Giulia, tu come ti chiami?
Dovevo proprio rispondere? Contai fino a dieci, poi ebbi pietà per le smorfie che si muovevano sul viso della donna alla ricerca di una tregua dalla logorrea della nipote.
-Ciao, io sono Adele - mi feci forza, per quanto dovessi mendicare pure quella tra gli stracci della mia vita.
Giulia irruppe nel silenzio che accompagnava le mie uscite.
Divagando sulla sua esistenza, la sua irritante emorragia di parole mi catapultò nel mondo dei 'roller born’, come li chiamava lei: i nati con le ruote.
Mi infastidiva la sua disinvoltura nel muoversi dentro una vita menomata, che deprimeva me quanto entusiasmava lei in un quotidiano che essa aveva costruito attorno alla sua paresi e che la rendeva normalmente felice.
Giulia era madre. Con occhi umidi e voce morbida mi parlava di quel bambino immaginario che fino a pochi mesi prima custodiva nel suo grembo e che ora stringeva delicatamente a sè per non svegliarlo mentre esso dormiva ninnato dalle sue braccia; aveva da poco bevuto il biberon e ora riposava sereno, a mezzo metro da me; era tanto invisibile ai miei occhi, quanto tangibile a suoi da renderlo così reale che, sorpresa, mi colsi ad ascoltarne il respiro.
Giulia era generosa. Si riteneva fortunata per le tre maestre che ruotavano attorno alle sue giornate di scuola e che in caso di bisogno cedeva volentieri in ‘prestito' ai compagni, che in venti dovevano accontentarsi di un’unica insegnante.
Giulia era felice. Era paga per le sue trecce bionde appoggiate sulle spalle e chiuse da nastri colorati, in tinta con le scarpe; per i suoi occhi azzurri e intensi quanto il suo sorriso; per le sue braccia minute e tornite dalla forza che alle gambe mancava. Era radiosa per le ballerine gialle che splendevano sul cupo del poggiapiedi della carrozzina.
Giulia non smetteva di parlare, né di saturare l’aria con la sua positività.
In quel frastuono di emozioni capii: Giulia viveva, cosa che io dovevo ancora imparare a fare.
In quel momento convenni: era lei ‘la bambina con le ruote’, l’unica con la dignità per farle girare.
Perseverai nel mio silenzio e lei nel suo raccontare, mentre la tensione si allentava assieme alla presa della mia mano sul guinzaglio di Skate che, deciso, si alzò e, scodinzolando, si posizionò tra le due carrozzine. Lo lasciai avvicinare a lei che, con la mano libera dal sonno del suo bimbo, iniziò ad accarezzarlo.
-Come si chiama?-
-Skate - risposi, concedendole un sottile sorriso.
I nostri occhi si levarono a inseguire il vapore di una risata.
In quel momento, arrivò mamma; ingombrante ero lo stupore nei suoi occhi presi in contropiede dal mio ridere riesumato da un’apatia che da tempo dilagava sul mio viso.
-Vieni con noi, Giulia? Mia madre allena una squadra di pattinaggio, andiamo ad assistere all’allenamento?-
Il fiato di Giulia sbottò in un fragoroso “Siiiii!”, mentre gli occhi nocciola di sua nonna mi raggiunsero umettati di gioia.
La meraviglia si inerpicò sulla paresi della nostra estasi.
Giulia e io diventammo amiche e il nostro, al parco, un appuntamento che la resistenza dell’autunno all’inverno rese quotidiano, fino al giorno in cui la pioggia ci separò. Passarono le settimane e delle impronte della sua carrozzina sull’erba si erano dileguati i solchi. Mi mancava il suo irrompere nella vita degli altri, forte quanto le sue braccia sulle ruote. Chiesi qua e là se qualcuno sapesse dove abitava, ma quella bambina sembrava svanita così come era arrivata, all’improvviso. Soffrivo, privata nuovamente di un pezzo di vita che mai avrei immaginato davvero importante.
La primavera prese il suo posto nel ciclo delle stagioni e i miei occhi sul consueto angolo nel parco, spalancati sulla bocca dello scivolo da dove il solito bambinetto non smetteva di portar fuori le sue gambe vivaci quanto lui. D’un tratto, Skate si rizzò festoso muovendo sottotono la coda nell’aria.
Mi girai di scatto, pronta a gioire per l’arrivo di Giulia. Il passo abbandonato di una donna si trascinava verso di noi. Le sorrisi di un sorriso a metà, l’altra metà apparteneva al punto interrogativo sulla sorte della nipote.
-Ciao Adele, come stai? - Odilla era venuta al parco apposta per me.
Le risposi frettolosamente chiedendo della mia amica.
La sua voce si fece liquida assieme ai suoi occhi. Concessi al loro dolore di restarmi accanto, impreparata al peggio.
-Giulia sta bene.-
Il suo prendere respiro fece largo al mio balbettare apprensione per la vita della bambina, che avvertivo cambiata.
-Due giorni fa è stata dimessa dall’ospedale. Mi ha chiesto di venire a cercarti, vuole sapere come stai.-
-Che le è successo?!-
I palmi delle mani di Odilla si rifugiarono sulle ginocchia, sotto il calco delle vene; le sue labbra tremarono rapide, i suoi occhi si volsero verso di esse, bagnando le parole di dolore:
-Le hanno amputato le gambe.-
Il singhiozzo si fece pianto e il vuoto delle sue braccia si riempì nella stretta delle mie. Poi, il silenzio si appoggiò sui nostri zigomi.
-‘Giulia’ è soltanto il suono del suo nome, lei si chiama Julia. Mia figlia perse il bimbo che portava in grembo in seguito all’esplosione di Chernobyl, suo marito lavorava in Bielorussia all’epoca. Anna non riuscì più ad avere figli, decise così di diventare una volontaria dell'orfanotrofio della città. Alcuni anni più tardi arrivò una bambina che era rimasta senza entrambi i genitori. Non camminava, ma la sua voglia di vivere compensava quella parte di corpo che non le apparteneva; non aveva bisogno delle gambe per essere felice. Anna si innamorò di lei e la piccola si legò così profondamente a mia figlia che mio genero ne chiese l’adozione. Julia aveva tre anni quando rientrarono in Italia. Nessun medico dette speranze
alle sue gambe, l’evolvere del loro stato ne preannunciava l’amputazione. - Odilla silenziosa inghiottì a stento il ricordo del passato - E’ ancora debole per uscire. Ti porto i suoi saluti. Posso andare da lei?-
-Non aspetta altro!-
Il sorriso riempì le rughe che segnavano le labbra della donna che, senza nemmeno chiedermelo, iniziò a spingere la mia carrozzina per affrettare l’arrivo alla loro casa.
La villa mi tolse il fiato da lontano, era circondata da un giardino così ampio che io mi chiesi che cosa ci venisse a fare Giulia al parco. Poi, zittii quella domanda sciocca e mi reputai fortunata per averla incontrata laddove io cercavo solitudine e lei compagnia.
Entrammo nell’atrio accompagnate da una condivisa emozione; dentro al benessere di quelle mura partiva un dedalo di malinconia che raggiungeva i lampadari appesi al soffitto, il mogano che rivestiva il pavimento, i Modigliani inerti sulle pareti dal tono avorio.
Da una stanza filtrò la voce di Giulia, fioca come la luce che ne delimitava l’uscio. Per la prima volta le sue parole mi raggiunsero piatte:
-Nonna, sei tu?
Odilla non rispose e con il capo mi fece cenno di andare da lei. Le mie braccia, impazienti, si affrettarono a far girare le ruote. Mi fermai sotto lo stipite della porta, trattenendo il respiro e lo sgomento per quella parte di Giulia che non c’era più. Lei alzò lo sguardo, frantumando con il suo sorriso ogni mio timore:
- Adi! Adi!!!-
Tremavano quelle tre lettere dentro la gioia della sua voce mentre, a mani ferme, stringeva zigomi e occhi per accertarsi di essere sveglia. Le due sedie a rotelle si fecero da parte, le nostre braccia si annodarono in uno slancio. Alcune lacrime scandirono minuti di silenzio per cedere, quindi, le ore ai racconti. La sua ritrovata logorrea ridette forma alle nostre speranze.
La osservavo, intenerita da quel busto appoggiato sulle ruote; da quel sorriso che sembrava fregarsene di aver perso definitivamente ciò che mai gli era appartenuto e decisi di chiederglielo:
-Come fai, Giulia?
-A fare cosa?-
-A essere felice.-
Giulia fece scivolare i suoi pensieri laddove terminava il suo corpo:
Quando ero più piccola mi intristiva non poter correre come gli altri bambini, dover sempre avere qualcuno che mi desse una mano per andare in bagno, per lavarmi, per fare tutto ciò che richiede l’uso delle gambe. I miei genitori si sono rivolti a parecchi medici, ma non è mai stato possibile fare nulla. Ero sempre più depressa, ho trascorso dei mesi nell’apatia, soprattutto quando ho iniziato a frequentare la scuola: tutti quei bambini che correvano nel cortile durante la ricreazione mi fecero comprendere che non avrei mai potuto essere parte dei loro giochi. Un giorno venne nella nostra scuola un ragazzo focomelico, Lorenzo. Lui era una specie di mago.
-Un mentalista - sovvenne nonna Odilla.
-Ah sì! Ecco, un mentalista!-
-Un mentalista?-
-Sì Adele, proprio così. - proseguì Giulia con la coscienza di un’adulta nelle fattezze di una bambina - Lo invitò la nostra maestra per intrattenere noi ragazzi, ma soprattutto per farci comprendere una cosa molto importante: a inseguire i nostri sogni, a raggiungere i nostri obiettivi, nonostante le difficoltà. Gli raccontai che io avrei voluto camminare, correre e giocare con gli altri. Sapevo che era impossibile, ma gli chiesi se lui poteva fare una magia per me. Mi guardò serio, mi
disse di chiudere gli occhi e di pensarmi nel cortile della scuola, in mezzo ai miei compagni, anziché da sola in un angolo a guardare. Provai a farlo assieme a lui, assieme agli altri bambini. Mi ritrovai parte di un cerchio formato da tutti gli scolari: inventammo un gioco, una specie di pallavolo dove a muoversi erano soltanto le braccia nei passaggi della palla da un compagno a un altro. Stavo giocando anch’io, ero finalmente una di loro. Paraplegica ero e tale rimasi, ma ho imparato a ottenere ciò che desidero! Chiudendo gli occhi non vedo più ciò che sono, ma immagino ciò che vorrei essere e trovo il modo per diventarlo.-
Le parole di Giulia imbeccarono le mie lacrime. Dal giorno in cui persi le gambe, e ormai era passato un bel po’ di tempo, non avevo fatto altro che odiare quei parassiti attaccati come zavorra al mio busto e ai miei sogni. Volevo pattinare e non lo potevo fare!
Giulia e io diventammo inseparabili; grazie a lei, la mia vita iniziò a riprendere interezza dentro un corpo dimezzato, iniziai ad amarla, a sentirla straordinaria per avermi portato l’amicizia di una ragazzina che mi stava insegnando a coltivare felicità.
Nei pomeriggi a bordo pista con lei e con Skate, il desiderio di volare sulla musica accomunava entrambe e la stretta dei pattini ai piedi mi mancava da morire.
Quel pomeriggio, colpita da un sole ormai estivo, chiusi gli occhi, ne assaporai la forza e cercai la mano della mia amica:
-Giulia, ti piacerebbe pattinare?-
-Oh, sì - il dilagare delle sue parole, per una volta, fu scalzato da un tacito stupore.
-Vieni, Skate.- Giulia, afferra la pettorina.
-Andiamo già a casa?-
-No! - sorrisi, trasudando eccitazione.
Riaprii gli occhi. Dovevo provarci. Ora!
La musica risuonava stentorea nell’atrio adiacente alla pista; con l’aiuto del mio cane, Giulia e io accennammo alcuni movimenti ellittici, seguendo la melodia e i cerchi disegnati sul pavimento.
Un’iniziale goffaggine lasciò il posto alla concentrazione che rese via via grazioso il nostro volteggiare sulle ruote.
Giulia era felice e io entusiasta; la gioia si scioglieva sui nostri occhi, muovendosi sinuosa tra gli ostacoli che si frapponevano alla nostra autostima.
D’un tratto il mio sguardo si portò oltre la vetrata che immetteva nel cortile, scorsi la curiosità di un uomo che ci stava osservando; poi, si avvicinò a mamma.
La cena era pronta. Il sapore del formaggio Asiago sulla pizza, tra pomodoro e origano, appagava le mie papille gustative. Avevo fame e non rammentavo quasi più il gradevole boccato di malga che deliziava le soste durante le nostre escursioni estive in montagna.
-Skate.-
-Adi, sei stanca? Oggi ti ho vista piroettare con Giulia.
-Non sono stanca. Sono felice. - risposi, dando sfogo all’emozione che si muoveva tra le mie palpebre.
-Ti andrebbe di tornare a pattinare in una squadra?-
-Magari potessi - risposi lasciando cadere gli occhi sulle gambe.
Arnolfo, il signore che parlava con me a fine allenamento, è un dirigente del CONI. Segue anche squadre di ragazzi disabili e alcune di esse partecipano alle paralimpiadi. E’ rimasto stupito dai vostri ‘volteggi’ con le carrozzine. Diciamo che gli avete dato una ‘buona idea’ e, se tu e Giulia ci darete una mano, vorremmo mettere in piedi un nuovo sport, una sorta di pattinaggio per ragazzi paraplegici.
Stavo per svenire dalla gioia, ma trattenni il mio mancamento per abbracciare mamma.
Concessi una pausa alla mia golosità per quella mezza pizza rimasta sul piatto, dimenticai le gambe che non avevo e, spronando le mie ruote, a colpi di braccia irruppi in casa di Giulia. Non potevo aspettare il giorno seguente per prospettare la novità anche a lei che, con Skate, formava il resto della squadra!
L'urrà! di Giulia si liberò della cinghia che la teneva stretta alla carrozzina; con le braccia agganciò le mie spalle e in un balzo atterrò sulle mie gambe. Mia madre sobbalzò per il timore che scivolassimo a terra, ma Gabriele la fermò, conosceva la forza della figlia:
-Lasciale fare, nulla di peggio di quanto hanno già vissuto potrà accadere loro.-
Dentro a quella verità, il futuro mio e della mia ‘compagna di ruote’ ritornò ad appartenere alla vita che più volte avevo tentato di eliminare. Era un macigno il peso della mia paresi, ma, accanto a lei, ritrovai la forza di scuotere i miei sogni: nelle acrobazie, che Giulia sapeva fare con la brevità del suo corpo; nel sorriso inesorabile, che univa le sue guance al cuore; nei pantaloni chiusi sotto al busto e la disillusione dei suoi occhi aggrappati alle ballerine fiammanti nel negozio di scarpe, mentre portava conforto alle sue lacrime, sussurrando: “In fondo, che sono delle ballerine rosse?”.
E io raccoglievo il dolore di quelle parole, nitide come una frustata sulla schiena.
La musica sfondò il silenzio. Giulia, Skate e io riempivamo il centro della pista in apertura dei campionati regionali di pattinaggio. Quegli stessi campionati che mi avevano vista sul podio prima che su una sedia a rotelle. Non eravamo in gara, ma per la prima volta due bambine con le ruote e un essere vivente che di ‘gambe’ ne aveva ben quattro esordirono con il pattinaggio per disabili.
Skate muoveva per noi i passi, le nostre braccia dipingevano la coreografia tra i nastri che, come frange sioux, davano armonia ai movimenti.
Gli occhi sugli spalti erano tutti per noi, umidi, increduli, meravigliati, carichi di applausi incisivi. Nella forza di quel rumore iniziai ad amare follemente la metà di corpo che la frenata di qualche anno prima aveva strappato alla morte; quel pezzo di vita mi apparteneva in tutta la sua interezza ed ero decisa a non cederlo all’apatia, per me stessa, per Giulia, per tutti i bambini come noi.
Gli allenamenti presero il via; inizialmente la squadra era composta da Giulia e io, con il passare del tempo si aggiunsero altri ragazzi, ‘bambini con le ruote’ come noi. Nel giro di una stagione eravamo in dodici, nove femmine e tre maschi; mamma era la nostra allenatrice, Skate la nostra mascotte; quanto al nome, non potevamo che essere i Roller Born.
Arnolfo avviò le pratiche per il riconoscimento della squadra tra gli sport paralimpici. Non fu facile, ma egli sapeva come muoversi e, soprattutto, come districare i garbugli.
Nelle notti insonni di mamma nacquero le coreografie, nei miei sogni una carrozzina aerodinamica, leggera, motorizzata che rendesse agili i movimenti. Chiusi gli occhi, ancora una volta: la vedevo nella forza dei suoi tubolari; la sentivo muovere il mio corpo, come se fosse parte di esso.
Era il primo giorno di primavera, quando mamma e Giulia si fecero immortalare a fianco a me semisepolta nella corona d’alloro che decretava la mia laurea in ingegneria aerospaziale. E ora, dovevo far decollare i miei compagni di squadra e quei ‘bambini con le ruote’ che assieme a Giulia avevo iniziato ad allenare. L’aerodinamicità tipica dei velivoli avrebbe reso più leggeri i volteggi di chi non poteva far leva sulle gambe. Brevettai la mia prima carrozzina ‘light’ a motore dopo pochi mesi da quel ‘ing.’ scritto davanti al mio nome.
- Tocca a noi!-
Correvano i miei venticinque anni sui capelli bianchi di mia madre, interrotti dai colori dei cerchi olimpici che facevano da sfondo alle sue spalle; lei sedeva in panchina in compagnia dei suoi sessant'anni, accanto a me, a Giulia e al resto della squadra. Eravamo cariche come gli ammortizzatori che avevo ideato per molleggiare le carrozzine dei Roller Born. La musica sganciò i freni alle nostre ruote, in posizione al centro della pista che ospitava le paralimpiadi di Roma. Le
mani si schiusero come petali sul brusio di braccia che toglievano il fiato all’aria; i sorrisi scompigliarono il silenzio. Quattro ininterrotti minuti di esibizione amplificarono l’entusiasmo con il quale la nostra squadra indorava la ‘Sinfonia dal Nuovo Mondo’ di Antonin Dvorak. Poi, il suono si fece assente e, in un attimo lo stadio fu invaso da uno sciabordio di gioia.
Alle paralimpiadi erano decollati i ‘bambini con le ruote’.
E ritorno nei miei trent’anni, ancora una volta bloccata su un letto d’ospedale a muovere l’unica cosa che, oltre alle dita delle mani e alla testa, riesco a muovere: tanti punti interrogativi, su di me, su quei “bambini con le ruote” che non potrò aiutare fintanto che rimarrò tra le mura di una clinica. Mi sento semplicemente inutile, nuovamente strappata da un mondo che stava nutrendo la mia forza di andare avanti.
La porta si apre, una donna sorretta dal ritegno di un uomo segue un lettino sul quale spunta il pianto pallido e dimesso di una creatura dagli occhi neri. Sotto il lenzuolo un corpicino si ferma laddove terminano le punte delle mani in discesa lungo i fianchi.
L’infermiera sistema Anita, la mia nuova compagna di stanza, sul letto accanto al mio. Poi, si avvicina all’asta della mia flebo, sostituisce la sacca vuota e accende la TV: sono le cinque del pomeriggio, tocca alla nostra squadra, quella allenata da me e da Giulia, quella con la quale avrei dovuto essere ora alle paralimpiadi di Tokyo.
La musica rabbonisce gli applausi.
La coreografia inizia, chiudo gli occhi e mi penso in panchina accanto a Giulia e a mamma, a incitare i miei ragazzi. I minuti corrono, nella mia mente sfilano i passaggi che nei giorni che avevano preceduto il mio incidente avevo provato e perfezionato assieme a loro durante gli allenamenti.
La musica si ferma sull’ultima nota del ‘Carmina Burana’ di Carl Orff.
Il silenzio stipa lo stadio.
Prima un boato e poi un applauso intorbidiscono l’assenza di rumore.
Riapro gli occhi, i numeri sul tabellone sembrano impazzire, al pari delle lacrime sui miei zigomi.
La TV manda in onda la premiazione, lo speaker passa il microfono a Virgina, la più giovane della nostra squadra:
-Adele, - si sta rivolgendo a me, sono incredula - Adele, ti aspettiamo al prossimo
allenamento, dobbiamo festeggiare. Dobbiamo festeggiare la vita che ci hai insegnato ad afferrare, a stringere, a reinventare quando nulla è più come prima.
La voce di Virginia lascia spazio a una tremula emozione e al rumore di una chiamata telefonica a bordo pista; il mio cellulare squilla. Sul display compare la scritta ‘mamma’. La sapevo a Tokyo, mi chiedo dove sia e rispondo:
-Mamma, dove sei?-
Le mie parole escono dalla TV, invadono la pista tra gli spalti stretti nella commozione; nel mio telefono risuona la sua voce:
-Coach, hai qualcosa da dire a Virgina e alla squadra?-
Sgranocchio un ‘GRAZIE’, inghiottendo lacrime.
-Adi! Chiudi gli occhi come ci ha insegnato Lorenzo e torna presto agli allenamenti.-
Giulia, ancora una volta lei e il suo ‘segno positivo’ davanti a ogni parola!
La TV risuona nella festa delle paralimpiadi di Tokyo e la mia gioia non sta lesinando le parole, né il volume con cui esse si propagano nella stanza, dimenticando di non essere più da sola.
La madre di Anita, perentoria, mi ammonisce:
-Anita ha bisogno di riposare!
L’infermiera mi fa cenno di spegnere.
Dal letto accanto al mio, il fiato della bimba, finora lesinato e schivo, tollerante si ribella al sopore impostole dall’apprensione della madre:
-No! Voglio vedere!
Afferro il suo sguardo, mi defilo dal rimprovero della donna attonita accanto al letto della figlia e passo ad Anita il telecomando, come il testimone di una staffetta.
Anita mi sorride e alza il volume.

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