Vai ai contenuti
Bruno Trangoni
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Bruno Trangoni

A partire dal 2016 Bruno Trangoni scopre nella scrittura una sua nuova passione.
Ha partecipato dal 2019 al 2023 ai concorsi letterari Lagunando ottenendo nel 2019 con il romanzo 'L’isola' (pubblicato da La Toletta edizioni, dicembre 2021), nel 2021 con il romanzo 'L’inseguitore' (di prossima pubblicazione) e nel 2023 con il racconto 'Sylvie', il premio come terzo classificato alla sezione "Gli orti dei Dogi".
Ha partecipato nel 2022 al Premio Internazionale Salvatore Quasimodo con la poesia 'I sinquant’ani de Sior Ciuceti 'ottenendo il premio come primo classificato nella sezione Poesia in vernacolo.
Nel marzo 2024 ha pubblicato il suo ultimo romanzo 'Il faro sulla scogliera' con Set Art edizioni.
Già presente edizione
Bruno Trangoni
“Orti dei Dogi”
Narrativa
Cambio Dio






Ti vedo. Ti sei appena insediato. Hai capito bene: non ti sto immaginando, ti vedo proprio. Hai un cappotto di velluto blu, ti stai togliendo la polvere dalle maniche. Hai capelli lunghi e bianchi. Sei come ti hanno sempre immaginato, ma io ti vedo, quindi è stato giusto immaginarti così. Sei di corporatura robusta, ma forse è quel cappotto che ti rende così. La polvere non ti piace, o forse il tuo è solo un gesto per ostentare qualcosa che evidenzi il tuo arrivo. Certo, essere stato chissà dove per chissà quanto tempo ti ha riempito di polvere, ma te la togli solo ora, forse perché sai che ti sto vedendo, lo fai quindi solamente per chi vede. Chissà quanto tempo resterai, dipende da Te, dalle tue scelte, da che comandi vorrai azionare, su quello strumento che potremmo chiamare consolle, ma a me sembra piuttosto un Hammond. Non c’è molta luce lì dove ti trovi, d’altronde non ne hai bisogno, ti basta la tua di luce, quella che dicono che emani, anche se io non la vedo. Se sei qui significa che sai quali sono gli accordi e soprattutto sai cos’è successo prima. Non so se ti sei parlato con l’Altro, non so come funzioni fra Voi, è già tanto che io possa interagire con ciascuno di Voi e decidere, secondo gli accordi, quando giunge il momento della vostra sostituzione. A dirla tutta, ben sapendo che il momento poteva solo essere quello, ho minacciato più di qualche volta l’Altro di cambiarlo. Ma Lui mi faceva sempre notare che gli accordi erano chiari, che solo quella cosa avrebbe comportato il suo licenziamento. Sì, lo so, mi sto inventando un politeismo personalizzato, o forse lo potremmo chiamare monoteismo di divinità replicanti e intercambiabili. La Chiesa non sarebbe contenta se nominassi in questo modo il nome di Dio invano, anche se non bestemmio. E così scomodiamo i Comandamenti. Non avrai altro Dio all’infuori di me. Se sapessero, Lui e Mosè! Che io ne ho un altro, non solo, che ho deciso io di averlo. Le bestemmie le sento, da molte persone; non mi crea disturbo, forse un giorno bestemmierò anch’io, per il momento no. Una volta involontariamente l’ho fatto, ero convinto che nel Va’ pensiero invece di cantare Arpa d’or si dicesse …. Se pensavo che un coro potesse dirlo, non potevo certo pensare che si trattasse di parole proibite. Ne ero proprio convinto, infatti l’ho ripetuto, per fortuna non mi hanno sentito in tanti. Ma poi, di cosa mi sto preoccupando? Non ci dicono sempre di credere nel Dio che c’è in noi? Io ho seguito alla lettera la cosa e credo talmente tanto nel Dio che c’è in me al punto che gli posso parlare, lo posso vedere, gli do degli ordini e se non rispetta gli accordi lo mando via.
La sera prima avevo guardato un film che non mi era piaciuto. C’era un tizio di nome Sam che per disgrazia era affogato inghiottito dalle sabbie mobili. Ho sempre avuto il terrore delle sabbie mobili; nei telefilm di Tarzan capitava spesso di vedere qualcuno che ci finiva dentro, a volte si salvava, dico il qualcuno, in particolare se era un buono o anche Tarzan stesso. Però in alcune occasioni si vedeva la scena di qualcun altro che non si salvava, capitava sempre ai cattivi. Ma che si trattasse di buoni o cattivi, a me faceva impressione comunque. Ho sentito dire che il pericolo sabbie mobili non esiste nella realtà, che basta non muoversi, non agitarsi e non si sprofonda, ci si ferma a un certo punto. Forse anche tutte quelle storie che si sono sentite su Mont Saint-Michel non sono vere. Ho sentito dire che ci sono una marea di cartelli che avvisano del pericolo. Quelli forse un giorno li vedrò e forse mi si rafforzerà la paura delle sabbie mobili. Se li vedrò, non sarà esattamente come vedo Te ora. Ripeto: non t’immagino, ma ti vedo in un certo qual modo.
Le sabbie mobili sono comparse con frequenza in una certa filmografia, creando nello spettatore una sorta di inquietudine, vero o meno che fosse il pericolo. Il Sam di quel film aveva un modo tutto particolare di fischiettare. Non ricordo altro, se non la cosa più importante. C’era un altro tizio che, sentendo Sam che chiamava disperatamente aiuto, non andò a soccorrerlo, lasciandolo affogare nel fango. Questi era stato più volte esortato da una donna, forse la moglie o la sorella di Sam, ma lui non mosse un dito. Non ricordo assolutamente che tipo di rapporto ci fosse fra i due uomini, ricordo però che da quel momento la moglie o sorella di Sam faceva di tutto per esasperare il senso di colpa dell’altro. Fischiettava come lui, scriveva il suo nome sul pavimento, faceva sicuramente altre cose che non ricordo. Ricordo solo che lo aveva attirato verso quella zona in cui era sprofondato Sam; il tizio ci finì dentro e affogò anche lui. Era giusto che dovesse morire, allo stesso modo in cui aveva lasciato morire Sam, però a me aveva fatto lo stesso una gran pena. Quella scena mi aveva impressionato non poco, il tizio chiedeva aiuto quando ormai solo la sua testa affiorava da quella distesa paludosa di acqua e fango e quando venne inghiottita anche la testa si scorgeva il movimento di superficie dell’acqua che reagiva al tentativo di parlare dell’uomo. Per me si è trattata di una scena molto impressionante.
Dopo quel film sono rimasto ancora a guardare qualcosa, un’altra specie di film brutto. Di quello ricordo solo il nome di un cane, Rafik, ma stavo già dormendo, assieme a una sensazione di malessere. Forse il giorno prima avevo preso freddo in spiaggia o anche no, ma qualcosa era comunque successo. Può anche essere che mi abbia procurato malessere la visione di quelle scene per me molto impressionanti.
Mi sono svegliato alle due di notte in preda alla nausea, una sveglia che a uno a uno ha fatto balzare dal letto tutti i membri della mia famiglia. Stavo male, ma ero sicuro, sicuro che non sarebbe successo, gli accordi col mio Dio erano chiari e semplici. Lui da sempre decideva tutto di me e per me, forse Lui è quello che ho avuto fin dalla nascita. È vero che dagli albori della mia venuta al mondo ho vomitato altre volte, ma ancora non mi era venuto il terrore, quel terrore che mi ha indotto a prendere quegli accordi drastici. Lui davanti al suo Hammond decideva tutto di me e per me, non poteva essere altrimenti per un Essere dotato di onnipotenza. Gli avevo chiesto appunto solo una cosa, di non vomitare mai più, mai, per il resto della mia vita. Solo così sarebbe stato veramente quel Dio all’infuori del quale non ne avrei avuti altri. A Lui non era venuto in mente, Lui si sentiva sicuro pensando al Primo Comandamento, ma non aveva fatto i conti con me e con la mia decisione di prendermi la libertà di disporre di cambiarlo se avesse disatteso alla mia unica richiesta. Ci aveva provato, altre volte. Forse gli piaceva l’idea di farmi vomitare, o forse gli piaceva non attenersi a una regola imposta da un mortale. Però tutte quelle volte in cui ci aveva provato non avevano trovato seguito di fronte alla mia minaccia “cambio Dio!”. Si era tirato indietro perché non voleva essere cambiato ed è quindi probabile che questa volta l’abbia fatto proprio perché voleva essere cambiato. Questa volta non si tirò indietro.
Incredulo vomitai anche l’anima, la testa verso il basso a vedere quello che il mio stomaco non aveva trattenuto, la mente verso l’alto a immaginare la scena di Lui che se ne andava. Forse anche Lui smise di credere a ciò che venne detto a Mosè o semplicemente aveva voglia di tornare o andare lì da dove sei venuto Tu, caro nuovo Dio. E ora che ci sei sai benissimo quali sono le regole che, come ho già detto, sono le stesse anche per Te.
Quando avrai finito di spolverarti le maniche di quel cappotto di velluto blu, inizierai a lavorare. Con Te crescerò, e crescendo forse mi sparirà questo terrore di vomitare e forse sarò anche stufo di far decidere a un altro tutto quello che devo fare. Forse Tu non sarai sostituito, te ne andrai senza che io me ne accorga.
Quando capirai che non avrò più bisogno di te.
Una speciale storia di vita maremmana






La maremma toscana
Appunto, la Maremma. L’abbiamo sicuramente incontrata a scuola in età elementare tutti noi della generazione anni ’60, quando studiavamo la morfologia del territorio italiano, per lo più in terza, in quarta si studiava l’Europa, in quinta il mondo. Poi si ripeteva tutto alle medie, ma questo è un altro discorso. Ora non so come studino la geografia le generazioni di adesso e se usino ancora le carte geografiche giganti. Ma anche questo è un altro discorso.
Un trattato di geografia sulle più importanti pianure italiane esula ampiamente dagli obiettivi di queste righe. Qui funziona bene il ricordo di una enorme carta geografica (enorme per dei bambini di otto anni, ovviamente) appesa a una parete dell’aula raffigurante lo Stivale con le sue macchie marroni, gialle, verdi e azzurre. Il tentativo di visualizzare per intero questa carta appesa a una parete riporta le immagini verdi della Pianura padana, del Tavoliere delle puglie e della Maremma toscana. Se si vuole approfondire, sia su google, sia su un’enciclopedia vintage (mai da abbandonare tuttavia), si scopre che la Maremma non è solo toscana, è anche laziale. E si scopre che la Maremma non è solo toscana, è anche laziale. E si scopre che ci sono tre distinzioni per altrettante maremme. E quella che interessa a noi è a sua volta suddivisa in quattro parti. E di queste, restringendo ancora, all’interno della zona che va sotto il nome di Maremma grossetana, consideriamo la parte del fiume Albegna, che riguarda i comuni di Orbetello, Magliano in Toscana e Manciano; che si estende tra i promontori dei Monti dell’Uccellina e di Ansedonia, senza escludere il promontorio dell’Argentario.
Ecco, la nostra storia maremmana va collocata proprio qui, in una località che si chiama Doganella, a pochi passi da Magliano, ma appartenente al Comune di Orbetello.
Tramonti
Un tramonto, anzi il tramonto. Lo stesso tramonto di ieri, con gli stessi meravigliosi colori di ieri. E anche di domani. Qui il tramonto è sempre uguale, sempre bello. Anche l’albero con la gobba è sempre al suo posto, compreso il suo compare più fortunato, quello dritto.
Sì, d’accordo, in altre parti del mondo i tramonti saranno di sicuro più belli; quando ci andrò lo potrò dire. Per il momento posso descrivere i tramonti che si vedono qui dal quincho. Bisogna spiegare. Il quincho è uno spazio all’aperto con tettoia, contornato da una staccionata per tre lati, tranne quello ovviamente dedicato all’accesso, quello che in teatro si chiama quarta parete. Quincho è una parola argentina, perché qui adesso arriva gente da tutto il mondo. Quindi anche da quei luoghi dei tramonti, forse, più belli. Come detto, quando sarà, se sarà, lo vedremo.
Al di là dei pali che cingono il quincho ci sono piante, al di qua due lunghi tavoli con molte sedie appoggiate su di essi. Anche all’interno ci sono dei pali, servono per sostenere la tettoia, ma servono anche per affiggere le tavolette di legno. Su queste si legge “in quella casa dove la gallina canta e il gallo tace, non c’è pace”, oppure “le donne si lamentano, gli uomini muoiono.” Ce ne sono altre di queste scritte, non le ricordo tutte.
Il quincho è un luogo di accoglienza e di aggregazione conviviale per tutti gli ospiti. Solo alcuni preferiscono starsene per conto proprio, ma sono proprio pochi. I più passano lunghe serate a chiacchierare nel luogo in cui si vedono ogni giorno gli splendidi tramonti. Fino a qualche anno fa, due volte al giorno, si vedeva anche passare un gregge di pecore, seguite da lui. Lui è Alvido, il pecoraio, anzi il capo pecoraio come si legge ancora in quelle tavolette. Dicevo fino a qualche anno fa, sì, perché in una storia lunga quasi 70 anni, Alvido decise che fosse giunto il momento di chiudere con questa attività.
Dopo un paio di decenni di frequentazione quasi regolare dell’agriturismo La Doganella, la cui gestone risente della competenza quasi esclusiva dell’inseparabile moglie Oriana, ho deciso che fosse giunto il momento di conoscere questa storia lunga quasi 70 anni. Qui, nel quincho, in uno spazio temporale più o meno di due ore, dal tramonto fino al buio, tra biscotti dolci e salati, ascoltando il rilassante frinire dei grilli, in mezzo a tanti ricordi non sempre esposti in ordine cronologico, non di rado aggiustati dalle precisazioni di Oriana, Alvido racconta la sua vita di capo pecoraio.

Una pecora al mese
Alvido nasce a Stia, provincia di Arezzo, il 12 dicembre 1940. Come dice lui, nato nel profondo nord e finito nel profondo sud della Toscana. La data di nascita è sempre importante, ma lo è anche quella d’inizio attività, quella da cui partono quei quasi sette decenni.
È il 24 giugno 1954 l’anno in cui Alvido arriva al podere. Comincia a parare le pecore facendo il garzone con i nonni. Parare significa molte cose: significa preparare, ornare, frapporre un ostacolo (ciò che fanno per esempio gli estremi difensori in una squadra di calcio), ma significa anche spingere in avanti, condurre, quindi pascolare. Da queste parti può capitare di udire il mantenimento di terminologie non più in uso in altre zone d’Italia.
I nonni di Alvido gli davano al mese una pecora e 15.000 lire. Lui abitava ancora coi suoi, aveva una sorella nata nel ‘52 e un fratello più grande, del ’33, che se ne andò presto a Roma. Anche la sorella migrò, anche lei a Roma, nel giugno del ’68. Ancora date, ancora non dimenticate.
Dopo tre anni, forse meno, era riuscito a ottenere 100 ovini di sua proprietà. Li teneva assieme a quelli del nonno. Cominciò a capire qualcosa di più sulle potenzialità di utilizzo di questi animali, cosa che avrebbe poi sviluppato in un futuro neanche troppo lontano. Per aumentare il gregge comprese presto la funzionalità di scambi tra maschi e femmine. Comprese anche i vantaggi della collaborazione entrando in società con i suoi tre zii, con i quali condivideva il totale possesso di 700 esemplari. Gli utili del fatturato venivano divisi per sette, una parte a lui, due per ciascuno degli zii, che erano i maggiori azionisti. Con questo sistema, non in uso presso altre aziende agricole (se l’erano inventato loro), riuscì a comprarsi la terra.
In società rimase tre anni. Quando ne ebbe circa 20, Alvido se ne andò per conto suo. Aveva le sue pecore e poteva disporre di due ettari di terra nella società. Di volta in volta poté acquisire altre porzioni, anche se spesso il proprietario non era facile a vendere, poiché cercava di ottenere il massimo profitto mettendo in competizione tra loro gli acquirenti.

Le scimmie
Dopo la separazione dagli zii, il futuro capo pecoraio comprò 50 esemplari, il primo affare che fece da solo, era il 1959. All’epoca la resa maggiore delle pecore era la lana. Adesso non è più così, a suo dire tosare le pecore è come tagliare i capelli a una persona.
Quando vide queste 50 praticamente prive di lana, il nonno di Alvido disse che parevano scimmie. Però quando le vide pronte per partorire ebbe a dire che “queste scimmie hanno però delle belle pocce”. Certo, un altro sistema per ottenere utili da questi animali era la produzione del latte.
Lo vendeva prendendo 90 lire al litro. Il prezzo però è degli anni ’70. Sì, s’è detto che il racconto non sempre rispetta un ordine cronologico. Ma anche negli anni precedenti la tendenza era sempre quella, cioè che il latte di pecora costava il doppio di quello di mucca. Nel periodo estivo la produzione era più onerosa per via dell’erba più secca. Quando c’è l’erba fresca la pecora può arrivare a produrre due litri di latte al giorno, con l’erba secca non supera il litro e mezzo.
Alvido cercava di far fare alle pecore tre parti in due anni, in tre diversi periodi. Cercava di farle partorire a gruppi, per una mungitura globale, solo così produttiva. La gravidanza delle pecore dura cinque mesi. Con la mungitura, sempre fatta da solo, otteneva 550 quintali di latte all’anno. Le pecore ingravidate, oltre a fornire latte, consegnavano a Alvido gli agnelli che rivendeva quando questi avevano un mese di vita.

Il commercio
Il 24 aprile 1965 Alvido sposò Oriana e comprò casa, quella dove risiede ora; poté acquistare solo la metà perché anche in questo caso il proprietario non volle vendere tutto a lui. L’altra metà fu assegnata a uno degli zii, ma poiché questo si spostò a Firenze, il proprietario fu costretto per una volta a rinunciare alla sua strategia e cedette ad Alvido anche l’altra metà. Oriana ricorda che pochi giorni dopo il matrimonio, esattamente il 3 maggio, giorno del suo compleanno, le furono messe in mano delle forbici, per tagliare la lana delle pecore, cosa che non aveva mai fatto prima. Per sua fortuna il marito si rese presto conto che la mungitura e il taglio della lana non erano i metodi per realizzare il massimo dei profitti. Con gli incroci giusti il capo pecoraio otteneva un certo livello di resa. Dapprima lo fece con gli esemplari che aveva in casa. Cercava sempre di conseguire l’F1, di qualità migliore, ma poteva capitare di generare l’F2, a rischio di equilibrio. In questo caso, se andava bene, la madre diventava molto produttiva, in caso contrario lasciava morire di fame l’agnello. Con l’F1 la sicurezza della produttività era garantita.
Il pecoraio acquistò poi altri montoni di altre razze, diverse dalla Franceschiello che aveva in casa, una volta arrivato al punto dell’equilibrio incostante. Teneva sempre una riserva di un paio di centi, il resto era oggetto di sempre più continui scambi commerciali.
Una volta comprò un branco nel parco dell’Alberese, circa 300-350 animali. Queste pecore erano tutte zoppe. Ne portò un po’ alla volta a casa, le rimetteva a posto e poi le rivendeva, dopo averle fatte partorire. Un giorno un conoscente gli chiese come mai avesse venduto tutte le pecore, facendo notare che anche un altro vicino stava combinando la stessa cosa. Le volle vedere, perché conosceva un veterinario che sarebbe potuto intervenire. Seppe che lì vicino c’era un altro allevatore che poteva vendere delle pecore, anche queste tutte zoppe, a pochi soldi, altrimenti sarebbero andate al macello. Ne comprò 80, pagate pochissimo, con calma si mise a medicarle, avevano una malattia che prendeva sotto le zampe, la pedàina, che è una tipica affezione degli ovini provocata da microorganismi patogeni, che si manifesta con caratteristiche lesioni dei tessuti ungueali. Alvido l’ha spiegata con parole sue, comunque il contenuto è simile alla definizione enciclopedica. C’era una specie di tarlo che s’infilava sotto l’unghia, prediligendo le superfici umide, e corrodeva le parti intorno all’unghia fino a farla cadere. La sorella parlò col medico presso il quale lavorava e questo preparò una mistura con tintura di iodio e cortisone. Con questo intervento, dopo 8 giorni metà di queste pecore guarirono. Alvido le portò a una mostra a Grosseto e vinse il primo premio, perché queste pecore erano di una razza pregiata, venivano dal Piemonte. Si contornò di allevatori che gli chiesero di mettersi in società e lui accettò. Il ricordo di quest’episodio porta la firma di Oriana.
Un’altra svolta importante giunse quando andò in provincia di Cuneo, a Murazzano, ad acquistare due montoni; uno, che si chiamava Omaggio, costò 2.200.000 lire, l’altro, Orgosolo, 3-400.000 lire. Tornato a Grosseto gli diedero del matto; il montone Omaggio però ingravidò tutte le pecore; morì presto ma fece nascere 130-140 agnelli, tra cui circa 20 maschi. Furono venduti a 800.000 lire l’uno.
Era la metà degli anni ’80. Erano passati circa 10 anni dalle pecore zoppe. Ora Alvido ne possedeva un migliaio. Poteva capitare che gli scambi commerciali di ovini avvenissero con facilità. Una volta ne comprò circa 130 da un allevatore lì nelle vicinanze. Gliele avrebbe dovute inviare il giorno dopo facendole camminare per la strada. Gli andò incontro per agevolare la transizione. Cominciò a vederle e lì incontrò un amico che gli chiese di chi fossero. Gli rispose che erano sue, che le aveva appena comprate, ma l’amico gli chiese di vendergliele. Cosa che fece immediatamente, guadagnandoci ovviamente.
Le capre abruzzesi
Verso la metà degli anni ’70 ricevette una segnalazione di un possibile acquisto di capre dall’Abruzzo, circa 500, spendendo 10.000.000 di lire. Si recò sul posto, visionò il prodotto e pagò tutto all’istante. Per il trasporto c’era bisogno di tre camion. Tramite conoscenze del proprietario delle capre fu contattato un tizio che si presentò da Alvido su una bici tutta sgangherata. Il trasporto sarebbe costato 180.000 lire, il tizio volle un anticipo di 50.000. Questa cosa levò il sonno ad Alvido. Aveva appena dato la cifra importante di 10 milioni, ma lo disturbava di più questo anticipo di poche decine di migliaia di lire dato a una persona che non gli ispirava affidabilità. L’operazione andò a buon fine, arrivarono puntuali i camion e tutte le capre furono inviate a destinazione. Quando vide e comprese cosa avesse combinato il marito, Oriana fu presa dalla disperazione. Alvido aveva speso quasi tutto in suo possesso per acquistare queste capre nella più totale incertezza di riuscita. Ma ancora una volta la capacità imprenditoriale una processione di macchine. Erano tutti allevatori che si presentarono per acquistare le capre. Le vendette quasi tutte, ne rimasero alcune decine. Il negativo di 10 milioni si convertì in un positivo di 20.
Alvido usa ancora adesso l’espressione di arrivare al fondo del barile senza però mai andare sotto. Un modo per dire che le sue uscite per gli investimenti non andavano mai oltre la sua disponibilità.
Tra un biscotto dolce e uno salato, ci tiene a rimarcare l’episodio dell’anticipo di 50.000 lire dato al tizio della bici sgangherata. Lui la definisce una lezione di vita. Ha voluto chiedere al tizio come mai avesse preteso quell’acconto. E questo gli rispose che non voleva correre il rischio di perdere l’acquirente, che avrebbe nel frattempo potuto rivolgersi a un trasportatore che gli avrebbe fatto un prezzo più basso. Non era abituato a questo, evidentemente, ma Alvido comprese il diritto dell’altro a non riporgli fiducia incondizionata.
dell’allevatore venuto dal profondo nord della Toscana ebbe ragione. Al mercato di Grosseto si sparse presto la voce di questa operazione. Oriana si vide arrivare a casa una processione di macchine. Erano tutti allevatori che si presentarono per acquistare le capre. Le vendette quasi tutte, ne rimasero alcune decine. Il negativo di 10 milioni si convertì in un positivo di 20.
Alvido usa ancora adesso l’espressione di arrivare al fondo del barile senza però mai andare sotto. Un modo per dire che le sue uscite per gli investimenti non andavano mai oltre la sua disponibilità.
Tra un biscotto dolce e uno salato, ci tiene a rimarcare l’episodio dell’anticipo di 50.000 lire dato al tizio della bici sgangherata. Lui la definisce una lezione di vita. Ha voluto chiedere al tizio come mai avesse preteso quell’acconto. E questo gli rispose che non voleva correre il rischio di perdere l’acquirente, che avrebbe nel frattempo potuto rivolgersi a un trasportatore che gli avrebbe fatto un prezzo più basso. Non era abituato a questo, evidentemente, ma Alvido comprese il diritto dell’altro a non riporgli fiducia incondizionata.

Verso l’agriturismo
Adesso si può googlare. E incredibilmente, ma ormai neanche tanto, questo verbo difficilmente compatibile con la lingua di Dante, non viene considerato errore. Quindi googlando su Doganella (anche il gerundio regge) salta fuori l’agriturismo di Oriana e Alvido. Quando si parla di pecore è giusto anteporre lui, ma quando si parla di questa realtà di metà anni ’90 l’inversione è d’obbligo. Dopo le prime scelte affidate a Tripadvisor, sulla quarta viene fuori ciò che era Doganella. Viene definita come località del Comune di Orbetello, come detto all’inizio, sede di un vasto abitato etrusco, risalente al VI secolo a.C.  Nelle vicinanze della proprietà di Oriana e Alvido si rinvengono alcuni resti di ciò che era questo vasto abitato. Di qui l’idea, a buon diritto, di denominare così la locazione turistica.
Il quincho è la parte esterna dell’insieme dell’alloggio. La parte interna, dove ci sono le sei camere e l’uso promiscuo della cucina, è un edificio che ha, anche questo, una sua storia.
Era un essiccatoio di tabacco, più sviluppato in altezza rispetto allo stato attuale. Era un rudere. Il proprietario era l’Ente Maremma, che a un certo punto decise di mettere in vendita l’immobile. Furono presentate diverse domande; la spuntò Alvido, grazie al fondamentale intervento di Oriana, che, essendo figlia di un assegnatario di un podere, aveva la precedenza.
All’inizio l’idea era di realizzare degli appartamenti, di cui uno per la figlia. Ma prima bisognava regolarizzare le questioni burocratiche. Fu necessario spendere 30 milioni per trasformare l’essiccatoio in locale dotato di abitabilità, mentre l’immobile costò 1.800.000 lire, con il terreno adiacente. Ancora un investimento, ancora un’importante uscita di denaro, ancora un rischio, senza (ancora anche questo) andare oltre il fondo. Ancora prima, prima di farlo con delle persone, questo nuovo spazio venne utilizzato per sistemarvi gli animali, con modalità diverse ovviamente.
Dopo 4-5 anni capitò una signora svizzera che volle comprare tutto, avrebbe pagato 800 milioni. Si trattava in questo caso di far tracimare il barile dal fondo mai perforato. Ma la proposta non venne presa in considerazione, all’orizzonte c’erano in progetto i tre appartamenti e la casa per la figlia Moira. Quest’idea subì una deviazione parziale. La casa per Moira venne costruita, ma invece di tre appartamenti si fece largo l’idea dell’agriturismo. Si poteva far richiesta di contributi pubblici, ma non era ancora possibile, poiché la zona non era in un primo momento considerata ad alta vocazione turistica. Fortunatamente il primo fu seguito dal secondo momento e con questo venne capovolta la considerazione.
Nel ’95 Alvido ricevette il via libera burocratico e poté finalmente costruire. La regione gli diede 100 milioni a fondo perduto, ricevuti dopo tre anni. Naturalmente per avere l’autorizzazione a gestire un agriturismo bisognava avere dei prodotti. Nella sua azienda Alvido produce ancora formaggio, dal latte di pecora prima e di capra poi, e olio. Quest’ultima non è propriamente una produzione, ma il risultato di un lavoro che consiste nel raccogliere le olive e portarle al frantoio. Per ogni quintale di olive, per la conseguente produzione di dodici chili di olio extravergine, la metà viene assegnata ad Alvido, che poi rivende.
Delle sei stanze ne fece 5 col bagno e una con la predisposizione. Presto anche la sesta stanza venne dotata di bagno.
Era il settimo agriturismo nel comune di Orbetello. E fu un’altra scommessa, che si rivelò dall’esito positivo, anche se all’inizio non c’era nessuna garanzia che avrebbe funzionato. Ma è una storia già vista, come con le pecore zoppe, il montone Omaggio, le capre abruzzesi.
I primi ospiti ad arrivare lì venivano da Lucca, erano in quattro. Furono mandati da un conoscente, che non poteva ospitarli perché nella sua struttura non aveva più posto.
Fu quella la prima volta, fu quello il motorino d’avviamento di una macchina che non si sarebbe più fermata. Così l’attività ingranò, producendo nuovi profitti, sopportando l’invidia dei vicini. Una stupida invidia per aver constatato che ancora una volta chi ha avuto coraggio è stato premiato. Ma non è per tutti.
A metà anni ’90 non c’erano Tripadvisor, Booking.com, c’era poco internet in generale. In meno di 30 anni il sistema mondiale della comunicazione si è stravolto. Adesso si può arrivare all’agriturismo La Doganella cercando nella rete, ma all’epoca lo si scorgeva quasi per caso. L’unico bacino di utenza turistica si trovava ad Albina, o all’Albinia, come dicono loro. Se qualcuno arrivava all’Albinia poteva intercettare l’alloggio di Oriana e Alvido, ma bisognava arrivarci. Si sa, si è detto, all’inizio non era considerata una località ad alta vocazione turistica.
Oriana e Alvido non hanno viaggiato molto, ma molti hanno viaggiato da loro. Nella sala con la cucina e il forno a legna ci sono appese alle pareti diverse foto di ospiti che in quei quasi trent’anni di attività dell’agriturismo hanno voluto lasciare un loro ricordo. Non erano tutti così, si è detto anche questo. Non saranno (si spera) arrivate tipologie di turisti che chiedono cosa si può vedere a Venezia, ma in compenso ne sono arrivati altri che chiedevano di farsi cambiare il materasso e anche uno che se n’è andato senza pagare. Si sa, gli incerti del mestiere.
Più volte Alvido ha voluto ribadire che raccontare tutto adesso è bello, divertente, a volte anche buffo. Però questi decenni di varie attività non sono stati risparmiati da momenti di difficoltà e incertezze.
Oriana e Alvido sono partiti dal niente e pian piano hanno costruito non certo un impero finanziario, ma una realtà fatta di terra, pietre, animali, beni di consumo, persone e ricordi.

Per caso
Come si è già detto, come altre cose che si sono dette e ripetute, all’agriturismo La Doganella ci si poteva capitare per caso.
Anch’io ci sono capitato per caso. Era un giorno di settembre del 1999.
Quella sera ci fu un bel tramonto.

Torna ai contenuti