Vai ai contenuti
Pierpaolo Fiore
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Pierpaolo Fiore

Vive da sempre nel comune presilano di Acri (CS).
Laureato in Economia Aziendale presso l’Università della Calabria, lavora nell’amministrazione dell’OMCeO della provincia di Cosenza.
Appassionato di lettura, con particolare predilezione per i generi storico, avventura, giallo, naturalistico.
Da sempre scrivere è stato un suo desiderio, per questo da qualche anno ha iniziato a mettere su carta storie che prendono spunto dal proprio vissuto e dalla realtà che lo circonda.
Ha partecipato, con vittorie, piazzamenti e altri riconoscimenti, a concorsi letterari con dei racconti che hanno avuto la fortuna di essere inseriti nelle relative Antologie. Attualmente fa parte della Giuria dei Lettori del Concorso Letterario "Prepotto". I racconti dello Schioppettino"
Già presente edizione


“Orti dei Dogi”
Narrativa
L'amore che consuma




Era un venerdì di dicembre e a Elena le era toccato il turno pomeridiano che impegnava gli studenti con percorsi formativi extra curriculari, quelli che, in teoria, dovevano servire per un più facile inserimento nel mondo del lavoro. Avrebbe dovuto essere fuori già da un pezzo, ma la pulizia dell’aula appartenente alla classe 4B aveva richiesto più tempo del solito. Quel giorno i ragazzi avevano festeggiato il compleanno di uno di loro con dolci e bibite gassate, in conseguenza di ciò, banchi, sedie e pavimento erano diventati appiccicosi. Lei non se ne doleva, voleva bene a quei ragazzi e loro ne volevano a lei. La chiamavano Elenuccia o più semplicemente Nuccia e le manifestavano il loro affetto continuamente e in tanti modi diversi. In quell’occasione le avevano preparato un vassoietto con pasticcini alle mandorle e delizie al limone che a lei piacevano tanto ma di cui non poteva abusare per i suoi valori glicemici borderline. Lavorava nel mondo dell’istruzione da quasi vent’anni, dopo aver girato varie scuole dell’hinterland, da dodici era di ruolo in quell’istituto bolognese che raggiungeva o in corriera o con il trenino suburbano. Forse perché rimase scottata dalla perdita di una sua cara amica in un incidente stradale, lei, pur avendo la patente, non aveva mai amato guidare. I suoi spostamenti iniziarono ad avvenire con i mezzi pubblici, in bicicletta o a piedi. Era una grande camminatrice, amava fare lunghe passeggiate che la rilassavano e la distraevano dalla dura esistenza che, negli ultimi anni, era costretta a condurre.
Quando chiuse a tripla mandata il portone dell’istituto era buio da almeno un paio d’ore. Il freddo intenso, al quale non si era ancora abituata, le penetrò i vestiti facendole venire la pelle d’oca. Negli ultimi tempi, ogni volta che usciva da scuola per tornare a casa provava sempre la stessa sensazione di forte e profondo disagio. Avrebbe voluto che la giornata lavorativa fosse continuata all’infinito per stare ancora lontano dalle mura domestiche, che, ormai, non rappresentavano più il suo rifugio dopo tante ore passate fuori. Quell’appartamento al terzo piano era diventato un luogo emotivamente ostile che il solo pensiero di doverne varcare l’uscio le faceva sentire il cuore pesante. In quel momento ancora di più dato che mancavano pochi giorni alla sospensione delle lezioni per le vacanze di Natale e questo voleva dire che vi avrebbe passato più tempo. Salì sul treno delle diciannove e undici e, come spesso faceva, non entrò nella carrozza ma si accomodo su uno dei sedili ribaltabili vicino alla porta. Dieci minuti dopo era già arrivata a destinazione. Uscì dalla stazione e recuperò la Graziella che aveva lasciato incatenata nell’apposita rastrelliera. Prima che chiudesse, si fermò a far provviste di frutta, pane e qualcosa da mangiare per cena alla solita piccola bottega sotto i portici che ancora resisteva all’imperterrito avanzare della grande distribuzione. Lì scambiò qualche parola con la coppia di anziani proprietari che, ormai, sembravano essere diventati un tutt’uno con essa, una loro ragione di vita. Caricò le buste nel cestino della bici e ripartì. Fece un’altra breve sosta in farmacia per recuperare le medicine di cui Fausto necessitava. Mentre era in attesa del suo turno, il cellulare inizio a suonare. Il nome comparso sullo schermo la costrinse a rispondere. La voce all’altro capo, concitatamente, le comunicava, come sempre più spesso capitava nell’ultimo periodo, che si trattava di un’emergenza. Chiese di poter saltare la fila. Gli ultimi metri che la dividevano da casa se li fece di corsa. Le gambe allenate mulinavano svelte sui pedali, le nuvolette di fiato condensato facevano capolino dalla bocca mentre il mezzo rosa pallido avanzava veloce lungo la pista ciclabile. Poggiata la bici al muro del sottoscala si apprestò a salire le quattro rampe di gradini che portavano al suo appartamento, di solito procedeva con indolenza e spesso, decidendo di rimandare il rientro, tornava indietro per farsi un giro intorno al condominio. Ma non era quello il momento, c’era un’urgenza. Salendo sentiva rimbombarle nei timpani il calpestio dei tacchi sui gradini combinarsi col battito cardiaco accelerato, la testa l’avvertiva vuota come se non le appartenesse. Il tutto era accompagnato dalla rabbia che montava per quella situazione crudele. Se da una parte sapeva cosa avrebbe dovuto affrontare entrando in casa, da un’altra ogni giorno era diverso dall’altro, in ognuno di essi aleggiava sempre una dose di incertezza su come avrebbe trovato il marito. Arrivata al proprio pianerottolo posò le buste della spesa per cercare il mazzo di chiavi, con la manica del cappotto asciugò il sudore comparso sulla fronte e sulle guance accalorati. Infilò la chiave nella toppa e aprì uno spiraglio di porta, avrebbe voluto che qualcuno con forza la spingesse da dietro costringendola a entrare. Come ogni volta sperò di essere accolta dal silenzio, ma proprio in quel momento, al di là della porta, senti Fausto alle prese con una delle sue solite crisi iperattive, caratterizzate da dei veri e propri deliri agitati e, alcune volte, anche accompagnati da aggressività. Sospirò profondamente ed entrò. Si affrettò verso la camera da letto, più si avvicinava e più si intensificava l’odore di ospedale, pungente, sgradevole e permeante che sapeva di disperazione e non dava conforto come invece facevano, momentaneamente, i farmaci che lo producevano, e che, soprattutto, di notte le dava una sensazione di oppressione. Lo stereo inondava la stanza con le note di uno dei Notturni di Chopin, la musica classica molto spesso riusciva a calmarlo, ma non in quell’occasione. Lo trovò impegnato nel goffo tentativo di denudarsi mentre Margarita cercava di tranquillizzarlo e di impedirglielo. La ragazza le comunicò che Fausto si era svegliato dal riposo pomeridiano in preda a una delle sue storie insensate, in quell’occasione aveva la convinzione che il letto fosse invaso dalle formiche, che, entrandogli dalla bocca, dal naso e dalle orecchie, avevano preso possesso di tutto il suo corpo. Elena gli si avvicinò e l’abbracciò forte con quel misto di sentimenti che ormai provava: amore, fino a quel momento, mai sopito e forte frustrazione per quella malattia che li aveva colpiti, Fausto direttamente e lei di conseguenza. Quella era una patologia che impattava notevolmente sulle dinamiche familiari. Da quando, venti anni prima, fu fatta la diagnosi dallo specialista, la sua vita cambiò radicalmente. Fu spiazzata, proiettata in un mondo parallelo in cui mai avrebbe, minimamente, pensato di potersi trovare, una situazione da non augurare a nessuno, nemmeno a quell’ipotetico peggior nemico. Ansia, paura, tristezza, isolamento sociale diventarono parte integrante della sua quotidianità.
Gli effetti del sedativo iniziarono a manifestarsi qualche minuto dopo l’iniezione. Elena anche questo aveva dovuto imparare a fare, proprio lei che aveva un’idiosincrasia nei confronti degli aghi. Piano piano il corpo teso di Fausto si rilassò, il volto perse il suo piglio impaurito, le palpebre diventando sempre più pesanti si abbassarono. Il respiro profondo indicava che si era assopito. Elena gli prese la mano e gli sentì il polso, il battito stava ritornando regolare. Si risollevò, prese dal comodino la siringa, la fiala vuota di Valium e il cotone imbevuto di alcol e li andò a buttare nel secchio della spazzatura nel mobile della cucina. Fu assalita da quella sensazione di vuoto che sempre più spesso le faceva visita e che non poteva condividere con nessuno. Nel corso degli anni aveva sottratto molte energie al suo fisico per rimanere forte e stare dietro a Fausto, ora quel carico emotivo e quella continua tensione con cui era costretta a vivere quotidianamente, si erano accumulati in lei facendole sentire, ogni giorno che passava, gli effetti del loro peso. La persona solare che era, piano piano, si spense, ritrovandosi a essere stanca e afflitta. In quei momenti veniva sopraffatta dalla nostalgia dei giorni in cui la sua vita scorreva serena. Com’erano lontani gli anni della spensieratezza giovanile passati insieme all’amata famiglia, del folle innamoramento nei confronti di Fausto e di quel dolce maggio nel quale, raggiante di felicità, sull’altare gli disse sì. Periodi della vita che aveva vissuto intensamente e che furono costellati da tanti attimi di pura gioia. Ma la situazione che stava ora vivendo dimostrava che non si sa mai né cosa ti può attendere dietro l’angolo né se si è preparati e pronti ad affrontare momenti di buio assoluto. Si chiedeva come fosse stato possibile passare da una famiglia numerosa a essere sola in un luogo che aveva dovuto farsi piacere per forza. La morte dei genitori, avvenuta a breve distanza l’una dall’altra, aveva rappresentato uno spartiacque nei rapporti con i suoi fratelli. La loro mancanza ridusse le occasioni in cui si potevano incontrare e, nonostante si sentissero telefonicamente, l’iniziale attaccamento andò scemando. Il tempo e le distanze li avevano allontanati. Ognuno di loro viveva la vita che si era creato, dando priorità, come era normale, alla propria famiglia e al proprio lavoro. Elena distolse la mente da quei pensieri che riguardavano il passato, non poteva affrontare anche essi, le forze le servivano per vivere al meglio quel doloroso presente.
La comunicazione della diagnosi della malattia di Fausto fu la seconda volta in cui la sua vita subì un forte scossone, portandola su un binario che conduceva in luoghi sconosciuti e dolorosi. La prima fu quando, per seguire il neo sposo, venne sradicata dalla sua terra, costretta a trasferirsi, suo malgrado, al Nord, prima a Padova, poi a Ferrara e, infine, a Bologna. Dal vivere in una famiglia numerosa e chiassosa si ritrovò a stare la maggior parte del tempo da sola in compagnia del suo silenzio. Il lavoro portava Fausto a girovagare per la vasta area veneta che gli era stata assegnata e capitava che, quanto era troppo lontano da casa, si fermasse a dormire in qualche albergo. Era un agente di commercio di un’azienda che trattava prodotti chimici, i cui dirigenti gli avevano assicurato che, dopo qualche anno, sarebbe stato trasferito in Calabria. In virtù di ciò, all’inizio, il malessere di Elena, dovuto alla lontananza dalla terra di origine e dagli affetti che vi aveva lasciato fu meno cupo. La speranza in un prossimo ritorno era tenuta accesa da questa promessa. Il giorno della partenza fu bagnato dalle lacrime sue e di quelle dei suoi genitori, che dal principio non avevano mai approvato la loro storia. I suoi non vedevano di buon occhio Fausto, non solo per la differenza d’età di ben undici anni, ma perché era noto in paese per la sua fama di donnaiolo e per i suoi improvvisi scatti d’ira. A nulla valsero le loro esortazioni a pensarci bene prima di sposarlo per non pentirsene, amaramente, dopo. Ma lei non volle sentire ragione, era così innamorata che non riusciva a vedere in lui nessuna negatività, per lei era un uomo senza difetti. Con lei era sempre stato premuroso e amorevole, fin dal primo fatale incontro avvenuto alla festa di matrimonio di amici comuni. Per entrambi fu amore a prima vista, il cosiddetto colpo di fulmine. Con lui contravvenne a ogni regola familiare fino a quel momento impostale. Tutte le raccomandazioni fattele furono trasgredite. Con Fausto divenne donna.
Per Elena il primo effetto di questo amore, fu il dover affrontare, agli inizi degli anni ottanta, l’impatto con la quella nuova realtà geografica. Per lei fu traumatico. Nulla era accomunabile alla sua terra di origine e niente gliela ricordava. Le persone, rispetto a come era abituata, erano più fredde e distaccate, e molte delle quali dimostravano un senso sviluppato di avversione nei confronti dei meridionali. Il territorio era piatto senza soluzione di continuità, distese pianeggianti infinite ovunque si volgesse lo sguardo. Rare erano le occasioni in cui le condizioni meteorologiche permettevano di distinguere le alture dei Colli Euganei. La cosa che la faceva veramente stare male era il clima, abituata all’aria secca e al cielo terso si ritrova immersa nell’intesa umidità dell’estremità orientale della pianura Padana, dove la nebbia la faceva da padrona per buona parte della cattiva stagione e il caldo afoso ne prendeva il posto nel periodo estivo. Il primo anno fu terribile, da ottobre a dicembre il sole fece capolino fra le nuvole in pochissime occasioni, ciò non agevolava il tono del suo umore. Era costantemente collegata telefonicamente con la sua famiglia, non vi era giorno che non chiamasse. Era un modo per sentirsi ancora in mezzo a loro, ma capiva benissimo che ciò era solo un surrogato della presenza fisica.
Il marito, i cui legami con la propria famiglia di origine erano sempre stati blandi, non riusciva a capire quella sua malinconia, e questo era motivo di continui litigi fra di loro. Per farla distogliere dal suo pensiero fisso le propose, più volte, di avviare, formalmente, quell’attività di piccola sartoria che aveva iniziato a svolgere a casa, ma che lei continuava a rifiutare perché farlo avrebbe significato legarsi ancora di più a quella terra da cui, invece, voleva allontanarsi al più presto. Quando, tre anni dopo, il marito le comunicò che sarebbe stato trasferito il suo cuore ebbe un sussulto di gioia, che subito svanì non appena questi aggiunse che la nuova zona da coprire avrebbe avuto come base la città estense. Tranne il dover affrontare un altro faticoso periodo di ambientamento, per lei non sarebbe cambiato nulla, sola era e sola sarebbe continuata a essere, umidità lasciava e ancora di più ne avrebbe trovata, non poteva essere diversamente essendo il territorio di quella provincia quasi per metà sotto il livello mare.
Invece da quello stesso anno molti cambiamenti la toccarono sia direttamente sia indirettamente. I suoi fratelli iniziarono, per motivi per lo più lavorativi, a disperdersi in luoghi diversi d’Italia e del mondo. Questo voleva dire che nel ritornare al paese d’origine, durante le vacanze estive o le festività, non trovando l’intera famiglia al completo ad attenderla non provava più la gioia di un tempo. Trascorreva quei periodi, prevalentemente, in compagnia degli anziani genitori con i quali era testimone dell’andirivieni dei fratelli dettato dagli impegni di ciascuno. Nel periodo estivo la piccola proprietà di campagna, alle porte del paese, rappresentava il suo riparo e il luogo dove ricaricarsi. Il pergolato di uva fragola davanti la vecchia casa rurale era il suo posto preferito, alla frescura dei verdi tralci si dedicava alla lettura o a qualche lavoro di rammento, di uncinetto o di ricamo. Aiutava anche i genitori, che, nonostante l’età e gli acciacchi correlati, ancora impegnavano il loro tempo curando la vigna, l’orto e il pollaio. Dicevano che quello era un modo per sentirsi vivi e, anche, di interrompere, almeno momentaneamente, il loro rimuginare sulla lontananza dei figli. Elena si riempiva gli occhi con quelle linee d’orizzonte variegate, fatte di aree pianeggianti a cui seguivano dolci declivi ma anche profondi e pericolosi burroni, che nulla avevano a che fare con la monotonia orografica del luogo verso cui doveva, suo malgrado, tornare. I polmoni si saziavano con i profumi della sua terra, che variavano a seconda del periodo. In quel momento sapevano di frutta matura e del fieno appena tagliato. Ma potevano essere quelli delicati dei fiori delle acacie e dei tigli, inebrianti se provenienti dalla gialla fioritura delle ginestre, penetranti se prodotti dalle infiorescenze degli estesi castagneti. Ogni stagione dell’anno era contraddistinta da un particolare odore, persino il freddo inverno emanava quello terroso del sottobosco, pungente del fumo della legna bruciata nei caminetti, fresco e cristallino nella neve appena caduta. Elena avrebbe voluto chiudere in un contenitore quei profumi, la luce che tratteggiava le sommità dei crinali, la magia delle albe e dei tramonti, il canto degli uccelli e dei grilli, per poterseli portare con sé, sarebbe stata disposta a scambiarli con parte del vestiario pur di fargli spazio nelle valigie.
Le giornate calabresi Fausto le preferiva passare dormendo fino a tardi e con gli amici d’infanzia giocando a carte al bar o a bocce nei campetti della villa vecchia. Molte volte tornava a casa alticcio visto che in palio per chi vinceva c’erano bevute di vino o birra. Quanto ciò accadeva era quasi inevitabile che attaccasse briga per piccole sciocchezze. Man mano che passava il tempo, la differenza d’età cominciava a farsi sentire. Avevano due diversi modi di ragionare che, andando oltre le proprie personali indoli, erano radicati proprio nel divario generazionale, che, sempre più spesso, creava delle incomprensioni tra di loro. Se all’inizio non sembrava essere un problema in quanto entrambi attratti dall’altrui personalità e passioni, già dopo qualche anno iniziarono ad aprirsi delle crepe nella loro relazione. Uno dei principali problemi era legato alle priorità che si davano nella vita. Fausto svolgeva il suo lavoro da diversi anni e, grazie alla sua ambizione, aveva fatto carriera sia a livello gerarchico sia a livello economico, per questo il suo desiderio più grande era quello di avere una famiglia numerosa, ma in questo trovava il freno di Elena che non si sentiva pronta, non tanto per essere ancora giovane, ma, soprattutto, perché temeva il dover crescere i figli da sola in un luogo che sentiva estraneo. Non avrebbe potuto avere né l’aiuto dei genitori e neanche quello del marito essendo, questo, sempre in giro. Altri dissidi scaturirono dalle diverse esperienze di vita e dagli opposti interessi. Fausto aveva sempre vissuto in modo molto intenso grazie ai viaggi di lavoro e all’aver conosciuto persone influenti non solo del suo campo, cose che a Elena le procuravano un forte senso d’inferiorità e d’insicurezza. Per lei il vivere quotidiano continuava a essere quello che aveva vissuto nel suo paesino e, per questo, percependo di non poter competere con la conoscenza del mondo accumulata dal marito si sentiva inadatta al ruolo di moglie di quell’uomo vissuto. Mentre lui, quando c’era, preferiva trascorrere i giorni liberi o le serate con i colleghi o con coloro con cui intratteneva rapporti d’affari in qualche locale del luogo o di altri centri vicini, lei amava vivere in modo tranquillo, magari leggendo un libro o guardando un film. Questi divergenti interessi portarono a forti incomprensioni tra di loro, che per Elena, per la vita da casalinga che svolgeva, si trasformarono in momenti di grande solitudine anche in presenza del marito. Questa sua incapacità di adattamento era vissuta come una sconfitta personale. I giorni diventarono sempre più pesanti da vivere e la tristezza si impossessò di lei facendola cadere in una profonda depressione. Fausto non riusciva a comprendere appieno la gravità delle sue condizioni. Continuava a ripeterle che il tempo avrebbe risolto tutto. Ma quel male non si sconfigge restando inermi e facendo passare le giornate, è, invece, necessario reagire altrimenti è proprio il trascorrere del tempo che ne peggiora la situazione, schiacciandoti e soffocandoti. Come sembrava lontano quel giorno nel quale sull’altare, raggiante di felicità, aveva pronunciato il fatidico sì. Su quello stesso altare Fausto aveva promesso di amarla, ma col tempo vennero fuori il suo egoismo, l’estrema ambizione e, anche, l’incapacità di dimostrare affetto. La speranza ormai non costituiva più quell’appiglio a cui si era aggrappata, la distanza che si era venuta a creare tra di loro non poteva essere più colmata.
Nonostante tutto, Elena non riusciva a non continuare a provare sentimenti benevoli nei suoi confronti, che rappresentava il suo primo e unico grande amore. Anche se ci soffriva, alla fine, riusciva a perdonargli tutto, la costante assenza legata agli impegni di lavoro nel quale si prodigava con anima e corpo, l’incapacità di non comprendere le sue esigenze e, persino, qualche scappatella, da lui mai ammessa, ma di cui era sicura per aver trovato degli inconfutabili indizi. Nei momenti di sconforto il suo rifugio lo trovava nella scatola che conservava nell’armadio e che conteneva parte del loro passato. Si ripassava tra le mani le foto nelle quali erano immortalati momenti di felicità e spensieratezza, qualche regalo da lui ricevuto e le lettere d’amore che le scriveva e che a lei piaceva rileggere per rivivere quello che era stato. Ora tutto era svanito, le capitava di trovare difficile riconoscere nella persona con cui viveva le fattezze del suo amato. Dove erano andati a finire il suo bel viso da attore americano, il fisico asciutto, i lunghi e curati capelli, gli occhi espressivi e il sorriso accattivante? Fausto era diventato la brutta copia di sé stesso. Emaciato, volto inespressivo, capelli rasati per una migliore gestione, incapace di discorrere in modo corretto, movimenti rallentati dovuti alla patologia e, anche, per gli effetti collaterali dei farmaci, impossibilitato a compiere i più elementari gesti quotidiani per provvedere a sé stesso. Aveva subito una regressione, oltre che fisica, anche mentale che l’aveva portato a uno stadio di sviluppo infantile.
Le prime vere avvisaglie che ci fosse un qualcosa che non andasse si cominciarono ad avere dopo il trasferimento a Ferrara. Iniziò ad avere problemi di coordinamento, con i muscoli che si contraevano spontaneamente e con la comparsa di tic facciali. Nervosismo, irrequietezza, insonnia e, soprattutto, attacchi di rabbia eccessiva per un nonnulla. Collera che all’inizio scaricava nei confronti della moglie, che con calma serafica vi sorvolava, pensando che fosse legato a un momentaneo periodo di stress. D’altronde come pensare ad altro visto che l’irascibilità era sempre stata una delle sue caratteristiche distintive. Un campanello d’allarme prese a suonarle in testa quando Fausto iniziò a manifestare questo suo malessere verso terze persone, attaccando con queste grane anche per futili motivi. Come quando dovettero sospendere una riunione di condominio perché prese a litigare, animatamente, con l’inquilino loro dirimpettaio per questioni che riguardavano il corretto conferimento dei rifiuti. Da quel momento, episodi simili iniziarono a ripetersi sempre più frequentemente. Faceva questioni al supermercato per la fila, si scontrava con altri automobilisti per manovre ritenute non corrette, battibeccava con i colleghi di lavoro e i superiori per inezie. Era soggetto a repentini cambiamenti di umore, vi erano momenti nei quali sembrava essere fuori controllo, incapace di gestire le proprie emozioni. I rapporti tra lui e gli altri stavano deteriorandosi rapidamente e anche a casa l’atmosfera era sempre più carica di tensione. Un giorno, mentre cenavano, una banale discussione sfociò in un violento litigio. Fausto si alzò di scatto e gettò il proprio piatto contro la parete imbrattandola con il minestrone che conteneva. Elena rimase allibita, spaventatosi prima per la sua incolumità e poi per quella di Fausto che subito raggiunse in camera da letto dove si era ritirato. Lo trovò coricato supino con le lacrime che gli rigavano il viso. Piangeva singhiozzando come un bambino. Vi si avvicinò e se lo strinse fra le braccia. Si rese conto che quello che stava accadendo al marito non era semplicemente il risultato di tensioni temporanee, ma rappresentava qualcosa di profondamente serio. Comprese che la situazione era andata oltre per poter tornare normale senza un aiuto esterno da parte di un professionista.
Elena fece una fatica enorme a portarlo dal medico. Fausto non voleva riconoscere che vi fosse qualcosa che non andasse. Furono giorni a cui discussioni accese seguivano momenti di sostegno e suppliche, sapeva che ignorare quella situazione non avrebbe fatto che peggiorare le cose. Dopo tante insistenze riuscì a trascinarlo dal medico di famiglia, il quale si accorse subito che il problema poteva non essere legato prettamente alla sfera emotiva ma che potesse avere una causa organica. Si rese conto che dietro quei sintomi e quel comportamento poteva nascondersi qualcosa di più complesso, pertanto suggerì di indagare ulteriormente. Nonostante le perduranti resistenze, Fausto, alla fine, accettò di ricoverarsi nel policlinico dell’Università di Bologna come gli era stato consigliato. Dopo un’infinita serie di visite ed esami diagnostici i sanitari erano concordi nel dare il terribile responso. Si trattava di una malattia neurodegenerativa che colpiva il sistema nervoso, causando cambiamenti comportamentali, perdita di coordinazione e disfunzioni cognitive. Non esisteva ancora una cura specifica, se non per attenuare alcuni sintomi, e la progressione della malattia era inesorabile. Era una patologia che avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile per chi ne era colpiti, uno strazio per chi gli stava vicino e una sfida aperta per medici e ricercatori che ancora ne studiavano le origini e i meccanismi di evoluzione. La notizia non venne data direttamente all’interessato ma a Elena. Quel giorno di settembre sarebbe rimasto impresso per sempre nella sua mente. Appena il primario di neurologia iniziò a parlare, una nera tenebra si impossessò della sua anima. A un certo punto le parole divennero come un fastidioso ronzio nelle orecchie e il cuore le si riempì di dolore. Fece in tempo a raggiungere il bagno della sala riunioni in cui si trovavano per eliminare ciò che non riusciva più a trattenere nello stomaco. Anche se era consapevole che vi fosse qualcosa di serio, non era preparata a una notizia così sconvolgente.
Rimase chiusa in bagno per diverso tempo, le mani salde sul lavabo e gli occhi inchiodati nello specchio che fissavano il volto di una persona che era appena andata in frantumi. Non fu facile riprendere il controllo delle sue emozioni, le dure parole del sanitario continuavano a risuonare nella sua mente. Dopo aver sciacquato il viso, come se ciò potesse cancellare i segni della batosta appena ricevuta insieme a quelli del pianto, s’incamminò assorta verso la stanza di degenza di Fausto. Si fermò immobile davanti la porta prima di entrare. Non poteva farsi vedere stravolta. Cercò la forza per affrontare quella situazione che le sembrava frutto di un brutto sogno. Entrando trovò Fausto assopito. Avvicinò la sedia del tavolino al capezzale del letto e vi si sedette. Scrutò attentamente il viso del marito. Solo in quel momento si accorse quanto fosse sciupato, sembrando più vecchio della sua reale età. Le rivenne da piangere, dovette fare uno sforzo enorme per trattenere le lacrime che, invece, erano in procinto di uscire copiose. Avrebbe avuto voglia di gridare a squarciagola contro quel destino crudele che si era abbattuto su di loro. Aveva la consapevolezza che bisognava essere molto forti per affrontare quella sfida che si presentava titanica, ma non era sicura che lei lo sarebbe stata. Quando Fausto si risvegliò, il suo sguardo prostrato le impedì di mostrarsi onesta nei suoi confronti. Lo vide fragile e vulnerabile e ciò non le permise di essere sincera come, invece, aveva deciso in precedenza, rimandando la comunicazione della triste verità a quando sarebbero tornati fra le mura domestiche. In quel momento non se la sentiva di dirgli che quella sua patologia l’avrebbe portato a perdere la capacità di pensiero e il senso dell’orientamento, avere deficit di memoria, irrequietezza generale, movimenti involontari e mancanza di coordinamento. E ancora, che le funzionalità psicomotorie sarebbero diventate sempre più ridotte fino a coinvolgere anche la masticazione, la deglutizione e il linguaggio. Per non parlare degli aspetti neuropsichiatrici quali stati d’ansia, depressione, aggressività e comportamenti ossessivo-compulsivi. Gli prese la mano cercando di mascherare la preoccupazione e il peso della verità che gli appesantivano la coscienza.
Al rientro a casa, Elena, con grande sforzo, si impose di non crollare con quel macigno che portava dentro, non doveva e non poteva succedere. Fausto, anche se ancora non lo sapeva, aveva tanto bisogno di lei, doveva essere la roccia su cui lui poteva aggrapparsi. Era fondamentale che lei resistesse, doveva essere doppiamente forte, per lui e per sé stessa, visto che non aveva nessuno che potesse sostenerla. In un primo momento, tranne un po’ di debolezza muscolare, gli altri sintomi sembravano essere attenuati. Elena riuscì a trattenere la sua voglia di tornare a lavorare solo per qualche giorno. Per questo motivo, era arrivato il momento di svelargli quella triste e brutta realtà, la sua coscienza non le permetteva di continuare a nascondergliela, anche perché per svolgere il suo lavoro era necessario passare tanto tempo alla guida dell’auto, che nella sua nuova condizione non era più raccomandabile. Una sera, dopo aver cenato, Elena si sedette al suo fianco sul divano e, con la voce scossa dalla commozione, iniziò a parlare. Fausto la seguiva incredulo, forse, cercando di dare un significato diverso alla durezza di quelle parole. Elena vide paura e sconforto riflessi nei suoi occhi, ma non poteva fare altrimenti, l’inganno era già durato troppo. Una mazzata sembrava aver colpito Fausto, che rimase immobile e incapace di proferire parola. Era sempre stato un uomo forte ma il quel momento tutto sembrava crollare intorno a lui. Elena sapeva che necessitava di tempo affinché quella rivelazione venisse metabolizzata, e sperava, fortemente, che, alla fine, potesse trovare la forza di reagire e lottare. Nel momento in cui lo tirò a sé abbracciandolo, Fausto si sciolse in un pianto inconsolabile e coinvolgente. Avevano la consapevolezza che la loro vita sarebbe cambiata dovendo vivere all’interno dei nuovi limiti impostigli dalla malattia. Quella notte non la passarono a letto, ma rimasero sul divano in un silenzio irreale e fastidioso, interrotto, di tanto in tanto, dai singhiozzi che Fausto cercava, vanamente, di soffocare.
Le condizioni di Fausto peggiorarono drasticamente nel momento in cui i vertici dell’azienda in cui lavorava non gli andarono incontro come, invece si sarebbe aspettato, negandogli il trasferimento in ufficio a fare lavori di amministrazione. Era un modo per sbarazzarsi di lui e dei suoi problemi di salute. Ci rimase così male che fu travolto da un intenso avvilimento che non fece altro che acuire le altre manifestazioni della malattia che divennero frequenti e intensi. Era entrato in un circolo vizioso che in breve tempo portò le sue condizioni fisiche a peggiorare parallelamente a quelle mentali, facendogli perdere l’autonomia. Mancanza di forze, capogiri e forti mal di testa erano all’ordine del giorno. L’ansia costante e una drastica perdita di peso ebbero un impatto negativo sul sistema immunitario, rendendolo più sensibile alle malattie infettive. In conseguenza di tutto ciò, la sua vita sociale si azzerò di colpo. I medici di Bologna che l’avevano in cura consigliarono a Elena che sarebbe stato opportuno avvicinare il paziente alla loro struttura per iniziare un percorso terapeutico e psicologico nell’intendo di rallentare la progressione della malattia e cercare di aumentare il benessere del paziente. Elena dovette affrontare un altro radicale cambiamento. Affidandosi a un’agenzia immobiliare, affittò un piccolo appartamento alle porte della città dove si trasferirono. Le sue giornate erano pesanti e monotone, giravano intorno allo stato di salute di Fausto. A scandirle vi erano i controlli cui doveva essere sottoposto continuamente e i vari percorsi terapeutici che gli erano stati prescritti. Visita neurologica o fisiatrica o psichiatrica, fisioterapia o logopedia o psicoterapia era ciò che si poteva leggere nei vari giorni dei diversi mesi sul calendario appeso alla parete della cucina. La sua dedizione verso il marito era inesauribile, alimentata dall’amore, dalla fede e dall’auspicio che un giorno, grazie ai risultati degli studi in materia, potesse esserci una cura che avrebbe dato una svolta positiva alla battaglia contro quella che i medici chiamavano sindrome rara, come se questo potesse essere una consolazione. Elena, da grande credente qual era, pregava tanto e alla fine delle sue preghiere chiedeva sempre un miracolo per Fausto. Ma con il passare dei mesi, visto che le condizioni peggioravano nonostante tutti i farmaci venissero somministrati e nessuna seduta di terapia venisse saltata, l’atteggiamento positivo, fino ad allora da lei tenuto, iniziò a scricchiolare. Anche perché i soldi che avevano messo da parte negli anni precedenti stavano per finire e le loro entrate in quel momento erano rappresentate dalla misera pensione d’invalidità di Fausto e da quelli di qualche occasionale riparazione che lei riusciva a fare. Elena si sentiva sopraffatta dalla necessità di prendersi cura a tempo pieno del marito e dal crescente bisogno finanziario che gravava su di loro. Capì che era arrivato il momento in cui doveva trovarsi un lavoro e chiedere aiuto a qualcuno per il tempo che si assentava da casa. Le venne incontro la comunità parrocchiale che, fino a quando le condizioni di Fausto lo permisero, frequentava assiduamente e alla quale era tanto legata. Le indicarono una serie di avvisi pubblici di alcune amministrazioni comunali che riguardavano posti di operai, custodi, centralinisti, sorveglianti. Vi rispose non perché sperasse in un esito positivo, ma per una forma di riconoscenza nei confronti di coloro che glieli avevano proposti e, anche, perché non aveva nulla da perdere. Con grande sorpresa, un po’ di tempo dopo, ricevette una lettera raccomandata dal Comune di Bologna, con la quale veniva invitata a sostenere un colloquio per un’eventuale assunzione come bidella in uno degli asili cittadini. Da lì iniziò il suo percorso lavorativo e grazie al punteggio accumulato per quell’incarico riuscì a ottenere la nomina di ruolo da parte del Provveditorato, garantendosi, così, una maggiore stabilità e sicurezza. Con Fausto veniva aiutata a turno da Margarita e Rosio, due sorelle peruviane che erano state adottate da una famiglia bolognese. Elena le definiva i suoi angeli custodi per il grande e amorevole impegno che mettevano nell’assistere il marito. Avevano portato soccorso e conforto in un momento di grande bisogno e forte avvilimento. Di loro si fidava ciecamente, lasciava Fausto tranquillamente perché sapeva che era ben accudito. Le ragazze divennero una parte preziosa della loro vita, passavano del tempo con Elena quando questa tornava a casa, condividendo dei bei momenti di convivialità e di apertura reciproca, che portò alla creazione di un forte legame. Venivano trattate come gente di casa, come le figlie che non aveva mai avuto.
Nonostante il loro grande aiuto, Elena viveva le giornate intensamente, il tempo non le bastava mai. Fra l’impegno lavorativo e le incombenze casalinghe non aveva un attimo da dedicare a sé stessa e alle cose che amava fare. Le passeggiate rilassanti, i film al cinema, le lunghe letture erano solo un ricordo. Dedicava anima e corpo a Fausto, cercando di alleviargli un po’ le pene a cui era costretto da quella vita grama. Ma con il passare del tempo quella situazione, che l’aveva intrappolata come una mosca in una ragnatela, la stava consumando nel fisico e nel morale. Si coricava ogni sera e si svegliava ogni mattina con il peso delle responsabilità che la sovrastavano. La sua vita, ormai, era imperniata in un ciclo continuo di doveri e sacrifici. Il suo amore per Fausto la stava portando a un progressivo ma inesorabile spegnimento.
Ritornando in camera da letto si soffermò a guardare i portaritratti posti sopra il comò. Quelle fotografie avevano catturato momenti del passato in cui lei e Fausto mostravano la loro felicità e spensieratezza attraverso abbracci, baci, sorrisi e pose giocose. La sua mano si posò su quella preferita, scattata durante una giornata al mare. Mentre fissava quell’immagine di corpi abbronzati, volti accarezzati dal sole e capelli mossi dal vento, i ricordi affioravano nitidi nella sua mente riuscendo ancora a sentire la pelle accaldata, l’odore della salsedine e il suono delle onde che finivano il loro moto sul bagnasciuga. Un senso di profonda malinconia si impossessò di lei. Prima di poggiare la cornice accarezzò con un dito il viso del marito. Si girò verso il letto, Fausto, immerso nel suo consueto sonno mai pienamente tranquillo, emise un lieve gemito, come se avesse sentito quella carezza. Era difficile accettare che tutto fosse, irrimediabilmente, cambiato, che la persona amata lentamente scivolasse verso il baratro. Il marito, praticamente, non era più con lei ormai da tempo, avevano preso strade diverse come un fiume che divide il suo percorso in due rami che scorrono in direzioni contrapposte. La strada che Fausto, suo malgrado, imboccò portava in una dimensione di progressiva distorsione temporale e di sofferenza fisica. Si sdraiò accanto a lui fantasticando, come sempre faceva, che almeno un po’ dell’uomo di una volta potesse riaffiorare anche solo per un istante. Sperava sempre che, una volta riaperti gli occhi, davanti a lei comparisse il suo vecchio Fausto, l’uomo che aveva sposata e a cui aveva giurato amore nella buona e nella cattiva sorte. Ma ogni volta era come ritrovarsi di fronte a un estraneo al quale era sicura di non aver mai promesso niente. Struggimento, frustrazione, disperazione, tristezza, compassione, dispiacere, impotenza era ciò che lei provava di fronte alle condizioni del marito. Ma aveva la consapevolezza che tutti coloro che avevano un caso simile in famiglia erano sopraffatti da questi stessi sentimenti.
Quella sarebbe stata una lunga notte insonne, una delle tante, ormai stavano diventando una costante. In quei momenti rifletteva sul senso della vita, sulla sua imprevedibilità ed estrema fragilità, sull’essere dipendenti dagli altri quando la mente e il corpo, inesorabilmente, regrediscono. Ormai Fausto doveva essere supportato in tutto e per tutto, il suo declino fisico e cognitivo, aggravato da disturbi comportamentali, rendevano pressoché continua la presenza di qualcuno al suo fianco. Coloro che vi si approcciavano trovavano, particolarmente, problematico interagire con lui. La comunicazione non doveva mai essere aggressiva ma contraddistinta da gentilezza, calma, tono di voce pacato, frasi corte, parole semplici, accompagnando il discorso con la gestualità per facilitare la comprensione. Elena sapeva benissimo delle notevoli ricadute psicologiche e materiali su chi assiste queste persone, avendone subito il terribile impatto su sé stessa. Ansia, irritabilità, fatica, malessere generale, compromissione dei rapporti sociali e riduzione della qualità della vita. Lei, tranne le ore passate al lavoro o il tempo dedicato alla spesa o altre incombenze esterne, ormai si era ritirata fra le mura domestiche. Era come un bruco intrappolato nel suo bozzolo, ma senza la prospettiva di potersene liberare divenendo, finalmente, farfalla. A nulla valsero le raccomandazioni di medico e di conoscenti che le dicevano di ritagliarsi spazi per sé stessa, concedendosi momenti da dedicare a ciò che le piaceva, meglio se insieme ad altre persone come metodo per ricaricare le energie fisiche e mentali proprio per evitare di essere soggetta a fenomeni di esaurimento psichico. Ma Elena considerava tale scelta come una forma di egoismo, che l’avrebbe fatta sentire in colpa per aver trascurato il proprio ruolo. Riusciva ad affidare Fausto ad altri solo il tempo in cui lei era impegnata per qualcosa che considerava non superflua come, invece, poteva essere un suo personale diletto. Ma, come tutte le cose, anche questa sua perseveranza prevedeva un limite e lei l’aveva superato da un bel po’. Elena, nonostante avesse dedicato ogni fibra del suo essere nel prendersi cura di Fausto, era prigioniera di un senso di dovere che aveva eroso tutte le sue energie e le aveva tolto la libertà.
Si alzò dal letto avvicinandosi alla finestra, ebbe la sensazione di non riconoscersi nel volto che il vetro rifletteva. Fuori un’altra sera intrisa di umidità era calata sulla città. Gli occhi le si riempirono dei tanti puntini colorati e intermittenti delle decorazioni natalizie che rompevano la monotonia dell’opaca luce dei lampioni di una sera brumosa e senza luna. Provò un senso di fastidio. Proprio lei che aveva sempre amato quel periodo per quell’atmosfera magica e di pace che si creava. Ma negli ultimi anni, appunto perché non poteva godere di quel clima di festa, aveva iniziato a detestare il mese di dicembre. Aveva smesso di preparava i dolci che facevano parte della tradizione della sua famiglia, non allestiva più né albero né presepe, passava le vigilie cenando con quello che capitava e andando a dormire presto. Aprì la finestra respirando a pieni polmoni quell’aria pesante che aveva sempre odiato. Sporgendosi in avanti notò nel cortile un gruppo di ragazzini che facevano esplodere dei petardi. Quell’immagine la riportò indietro nel tempo a quando, anch’essa fanciulla, con i suoi genitori e i fratelli decoravano l’albero di Natale, quando, la notte del ventiquattro, posizionavano il bambinello nella mangiatoia, quando il padre leggeva le loro letterine prima del cenone, quando andavano tutt’insieme a fare gli auguri ai parenti. Quei frangenti erano momenti di forte unione familiare ai quali nessuno voleva sottrarsi e che avevano lasciato la nostalgia per quella gioia e quella condivisione. Aveva perso tanto nel corso degli anni. Si voltò di spalle alla finestra rimasta aperta, le sembrava che la nebbia che era fuori avesse riempito anche l’interno della stanza e la sua testa, avvolgendo in un abbraccio gelido i pensieri. Restò qualche istante immobile, bloccata da quel sentimento di tristezza da cui era stata sopraffatta. Si sentiva stanca, come se il peso degli anni passati a tribolare avessero schiacciato il suo spirito. In quel momento sentì una profonda e incolmabile solitudine. Era stata intrappolata in un mondo irrazionale. Le sue orecchie non distinguevano più nessun rumore, l’unico suono che percepivano era il respiro di Fausto, una specie di fastidioso sibilo che aveva imparato a sopportare. Quella sera no, le dava ai nervi. Prese un cuscino poggiato su una sedia, lo strinse con forza tra le mani, come se, così facendo, la tensione e la frustrazione che si erano accumulate dentro di lei venissero attenuate. La fodera si bagnò con le lacrime che scorrevano abbondanti lungo le guance. La sensazione di sconforto soffocò ogni pensiero positivo. Si avvicinò a Fausto, gli mise la mano sulla testa, percepì un suo leggero movimento, sentì sul palmo il suo calore. Ciò, pur facendole abbozzare un sorriso, non le permise di liberarsi dai pensieri distruttivi che le avevano invaso la testa. Gli poggiò il cuscino sul volto facendo pressione. Sentì Fausto muovere le braccia, ma le sue malsane condizioni non gli permisero di opporre resistenza. Stette in quella posizione per qualche minuto, quando sollevò il cuscino il rantolo da lui emesso non si avvertiva più. Prese un tubetto di medicine del marito facendosene cadere una manciata nelle mani. Raggiunse il suo lato del letto e vi si accomodò. Dal comodino afferrò la tazza con i cuori rossi e blu, quella pieni di cioccolatini che Fausto gli aveva regalato a un San Valentino di tantissimi anni prima, ricordava ancora il suo sorriso timido e le parole d’amore del bigliettino di accompagnamento. Nonostante la presenza di una crepa che partendo dal centro di un lato e, formando le fattezze di una saetta, finiva con una piccola scheggiatura sul bordo, era la sua preferita. Forse proprio perché quella tazza era la sintesi degli anni dolorosi del suo matrimonio, quella crepa era come la ferita che dal centro del petto le si irradiava verso la testa. Si buttò in bocca le compresse che aveva nella mano e le mandò giù con una sorsata d’acqua. Segnandosi con la croce si sdraiò di fianco al marito prendendogli la mano ancora calda. Rimase immobile con gli occhi fissi al soffitto in attesa del trapasso che sperava essere indolore.
Così li trovarono il giorno dopo Margarita e Rosio, che, allarmate dalle non risposte alle loro telefonate, si catapultarono nell’appartamento. Entrarono con il cuore in gola e preparate al peggio, anche se speravano, ancora, in un miracolo, ma che la rigidità dei corpi senza più vita fece subito scartare. Uno di fianco all’altra e mano nella mano, come se non si volessero separare nemmeno nell’aldilà. Se per le sorelle era un momento tragico e doloroso, allo stesso tempo era di pace per Elena e Fausto. I loro volti erano, finalmente, liberi da tutte le tensioni che ne avevano tormentato l’ultima parte delle loro vite. Lui si era liberato dalla prigione in cui la malattia l’aveva, lentamente, rinchiuso. Lei si affrancò dal continuare ad assistere, impotente, allo strazio che Fausto subiva quotidianamente, che lo aveva trasformato nel ricordo dell’uomo che era stato, nell’ombra di sé stesso. Elena, pur avendo assistito a tutto il suo declino, aveva sempre lottato, affrontando la situazione con amore e compassione per rendergli la vita il più confortevole possibile, non si era mai insinuata in lei l’idea di porre fine a quell’agonia. Ma quella sera la sua mente subì un oscuramento, una tenebra profonda e annientatrice, simile a un abisso senza fine, si sostituì alla ragione spingendola a compiere quell’atto come forma di estrema pietà per lui e, forse, egoistica redenzione per sé stessa. Alla stregua di un flipper troppo sollecitato, il raziocinio, forse consumato dal troppo amore, fece tilt segnando il game over per i giocatori in campo.
Torna ai contenuti