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Bruno Pasetto
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Bruno Pasetto
Laurea in Architettura presso lo IUAV di Venezia, professore presso il liceo artistico, scrittore e poeta di romanzi e raccolte, studioso di sociologia e filosofia, di arte pittorica e scultorea, appassionato di letteratura e di fotografia.
Autore già presente nelle edizioni:
MENZIONE D'ONORE
SEZIONE ROMANZI
“Leggere lagune”
Poesia
SOMA E MULO

PETITE MORT

DOPO LA LUCE UNA CANDELA
voce di una giovane donna
Ai suoi imperdonabili sedici anni che hanno costituito nel mio albergo d’ego la perdita più patita e irrecuperabile di tutta la vita.
Fino alla sua dipartita celebrata da estraneo in chiesa e con il disperato recupero durante le esequie della nostra giovanissima passione.


SOMA E MULO





presto dovrò affidarmi, sobrio di pensiero,
alla mestizia delle ultime notti
e prepararmi alla definitiva,
io afflitto dall’ultimo travaglio,
ebbro di speculazione introspettiva
e pazzo in lotta contro il buonsenso,
dimentico dell’ametista, viola di quarzo
abile a sedare ogni cervello in fumo,
mio tormento antico che nessun’altra anima
né corpo ha mai sepolto, sventura
che ieri all’addio della mia Ida
la memoria è tornata a ferirmi,
ritorno al luogo che ogni volta brucia,
insopportabile soma e io mulo,
batardise di un Apollinaire moderno,
onta all’entasi della mia colonna d’ego,
malattia d’insania, pubblica vergogna,
feluca del consorzio umano meno ambito,
sordità del Cansiglio dove esule l’avevo maledetta …
giunto il tempo di resettare il mio tutto contorto
l’intimismo in chiesa non è una celebrazione,
piuttosto un paesaggio in decadenza
dove palesare della estraneità metafisica
stando dietro al crocchio di un vedovo anonimo,
io pudico, discreto, straniero, tanto protetto
da sentire l’abbandono abbrunato a lutto
aprirsi all’effluvio del musco toscano
… di sera lei traversava scalza la riva
fiancheggiando una cortina di stiance inaridite
che stormivano al tramontano,
ritrovo e sfarzo di mille sigari bruni d’erezione,
Ai suoi imperdonabili sedici anni che hanno costituito nel mio albergo d’ego la
perdita più patita e irrecuperabile di tutta la vita. Fino alla sua dipartita celebrata
da estraneo in chiesa e con il disperato recupero durante le esequie della nostra
giovanissima passione.
con i cilindri non più satinati al sole,
da me riaccesi per tenere a bada gli insetti impuri,
tremolio di taverna aperta al morellino
sotto garze di typha a incerottare il fiasco,
stura di ebbrezza sopra la granella intrigante
il suo nudo, indicibile disegno sul mio cavalletto
da struggere i migliori peli di martora rossa,
ospite la luna, leonata da ruggiti profondi
che echeggiavano all’effervescente spuma in fiore


La poesia si ispira all’omonimo balletto del coreografo Jiì Kyliàn, in sintonia con l’ultimo brano della prima parte su musica dell’Adagio n. 23, k 488 di Mozart.
I due giovanissimi danzano con delicatezza sospesa nell’aria fino al richiamo di un atto d’amore.
Per ultimo la étoile giace al suolo con le ginocchia piegate sorreggendo il torace dell’amato che agita le braccia a imitare un battito d’ali.
Le mani di lei bendano quegli occhi maschili mentre si abbandona in estasi portando la testa all’indietro, mimando la piccola morte dopo l’apoteosi di un intimo orgasmo.
PETITE MORT





albergavamo sulla riva destra di Montmartre
elemosinando la colazione e il profumo di un fiore
per i quindici anni che tu rifiutavi
e invece io li adoravo,
tanto estasiato vagolavo in quota al cielo
costretti di giorno nell’efebeo delle prove,
coppia di un plastico volo,
creature al bruire di ali invisibili
messe in moto dal battito dei cuori,
amore odio per la danza che non stava al gioco
perfetti, eravamo perfetti, disgiuntamente uniti
a menare le ore in esercizi di acribia,
follia di passi educati e di respiri
che urtavano pareti anecoiche
lasciando fosse l’istinto musicale a perpetuarli
fino alla unione dell’ultima figura,
immobili a mimare l’eros piegato ad arco,
tue le mani a bendarmi gli occhi
sulla piccola morte, breve perdita di coscienza,
dono di un piacere che concedevi solo a te stessa


Preticore è il profumo calmante provocato dalla pioggia che cade sulla terra asciutta.
Una giovane mamma ne avverte l’effetto, facendone riflessione personale sulla dipartita del suo bambino deceduto nel sonno.
Una diversa morte bianca aveva sfiorato anche lei a causa della precedente dipendenza tossica.
Inevitabile un pensiero alla relazione tra i due fatti, con la perdita del figlio che avverte punitiva e in cui si annida infido un pernicioso senso di colpa.
Quell’odore nell’aria è una risposta da decifrare, che parte da un passato di affetti e da un’erba che invece è stata maligna.
Ma che adesso potrebbe essere un profumo provvidenziale per sanare la propria anima devastata.
DOPO LA LUCE UNA CANDELA





voce di una giovane donna
al preticore dei campi ancora in letargo
sapevo che la gramigna spuntava,
e con l’erba matta sentivo praticare
lo strofinio sui paioli di rame
dopo le cotture d’inverno,
eppure tutta la polenta rimestata,
che per me la nonna declamava essere vitale,
non era bastata a crescere il bambino
la parte migliore è andata perduta,
quella che prendeva forma e parola
e il mio corpo adorava,
che lo spazio ovunque si apriva
e il tempo, ah il tempo
respirava lievità di primavera,
ma era un precario soffio di vita
estorto al più gioioso dei disegni
una morte bianca è cosa rara
e mi dicono del nulla a che vedere
con il mio vissuto al fumo di coca verde,
al buio assieme a chi mi attese tornare
con calma e amore parlando in inglese,
bad trip mi disse è solo un viaggio istruttivo
e io non capivo se quel compagno
scherzasse e se fino alla fine l’avrei avuto vicino
da chiedermi, fossi stata da sola
al gelo con le foglie indigeste nel corpo
avrei mai potuto uscire dal tunnel mentale?
sarei oggi, dopo aver veduto la luce vera,
a colare come una candela che piano piano si spegne?
Occhi e mani sono la memoria di una notte
che me li ero bevuti e recuperati alla vita,
ma ora so, con un altro senso posso ancora sperare.
“Orti dei Dogi”
Romanzi

QUATTRO MAESTRI E UN GIOVANE POETA
fascinazione veneziana del XX secolo



- MENZIONE D'ONORE -
Il libro rende omaggio a quattro figure del più convincente panorama artistico di tutto l’arco del ventesimo secolo.
Ricordo e assemblo con un rimando che le vede procedere su strade innovative e convergenti.
In vita i quattro maestri s’incontrano, dialogano, collaborano, hanno ammirazione e rispetto l’uno per l’altro.
Emergono con il normale vissuto, avendo in comune oltre a fascino e genio, la loro leggendaria patria di elezione.
Nella Venezia ospitale, un giovane poeta cammina a fianco di questi giganti.
Ha giusto l’età per essere un loro figlio adottivo.



QUATTRO MAESTRI E UN GIOVANE POETA
fascinazione veneziana del XX secolo

i maestri

Carlo Scarpa architetto
Emilio Vedova pittore
Luigi Nono musicista
Arturo Martini scultore


L’architetto

Il redivivo si accoccola sopra l’impiantito per avvicinarsi alle foglie di ninfea, simbiosi galleggiante di pensiero e natura. Dal cielo un volo pindarico ha ricondotto la sua anima alla sacra ospitalità del padiglione dei Brion. Finalmente può riassaporare l’avvenenza del luogo con il linguaggio del silenzio e il piano della contemplazione.
Carlo Scarpa sorride a un ricordo della sua parentesi terrena.
Era una giornata del tardo autunno. In quel ritiro di meditazione l’improvviso stimolo al ventre lo aveva indotto a un desiderio inattuabile. In quel momento sarebbe stata congeniale una provvida tazza in legno di canfora tirato a cera, decorata con la fredda eleganza di un maki rosso. Avrebbe avuto l’attributo di un conforto, restituita al primo piacere del mattino assieme al profumo della corteccia di cedro e all’aria fresca di bruma. Andò con la mente alle antiche latrine giapponesi ubicate all’ombra di prati rigogliosi. Fungevano da luogo stimato a procurare una ideale confidenza tra corpo e spirito. In particolare i poeti, nell’esercizio liberatorio di corpo, cercavano l’estro per vergare i loro preziosi haiku.
L’architetto si trovava ad altezza di cane. Con lo sguardo mobile poteva bearsi di una inquadratura lenta e ubertosa sul parterre. La silhouette del giardino era delicata nella forma e nella misura tra simbologie evidenti e arcane, reiterato richiamo di vita e morte.
La condizione del posto si rivelava uno shantih di conio induista, pace dell’occhio. Affrancava la vaghezza di un racconto visivo che superava l’intelletto, travolgeva muscoli e sangue. Eccedeva l’esperienza, la cognizione, la sapienza.
Il punto basso di osservazione, per le riprese fisse, l’aveva incuriosito durante la proiezione di un film giapponese. Dentro una trama familiare quel particolare sortiva un effetto insolito. Vestiva d’intimità l’interno conferendo allo spazio ricchezza espressiva, controllo gestuale, pacatezza di dialogo. L’inusuale visione cinematografica l’aveva talmente affascinato da proporgli un divenire sperimentale nell’ambito del suo lavoro. Disse tra sé,

_ si può dunque sognare anche da morti? oppure risorgere nel giardino accanto alla tomba che mi ospita? e con l’investitura di depositario della mia opera compiuta? _

Tornò con la mente alla prateria dei celesti dov’era giunto dopo la parentesi terrena. Yasujiro Ozu l’aveva scorto e si presentò. Quella persona austera, riconoscendolo, si era avvicinata all’architetto dal profilo bizantino e dallo stupore fanciullesco. L’uomo dell’estremo oriente si era rammaricato con il Professore d’essere giunto in Paradiso senza avere omaggiato in vita i suoi pregevoli manufatti. Negli anni si era proposto di esaudire questo desiderio e l’avrebbe fatto, magari in occasione di una Biennale del Cinema a Venezia. Purtroppo era sopraggiunta una malattia incurabile e non aveva potuto mantenere fede all’aspettativa sempre differita.
Carlo Scarpa fiutò l’artista engagé e, edotto circa quella mancanza, la liquidò perdonandola con un amabile sorriso. Ozu fu lieto della cortesia dialettica e affabulatoria dell’architetto che, fedele al suo stile, s’inventò una battuta imprevista quanto incredibile.

“Non si preoccupi, amico mio, ho in programma un viaggio di ritorno nelle mie terre e sarò felice se potrò farlo in sua compagnia. Dio mi ha già promesso il suo benestare.”

L’inchino di prammatica non favorì, per desuetudine e impaccio, la gestualità dell’architetto. Invece battezzò tra i due un sodalizio già forte di primo acchito, senza incertezze sulla qualità dei rispettivi spiriti aperti.
Ora, il ritrovarsi dentro una condizione impensabile, permette all’uomo di Bisanzio, così si era autodefinito l‘architetto, di profittare della circostanza. Una pratica che da vivo era stata impossibile. Finalmente poteva godere di una visita liberatoria del proprio ultimo lavoro, il cimitero dei Brion.
E’ la volta degli sguardi ammiccanti, delle carezze ai dettagli, dei mille pensieri sulla scelta dei materiali o sulle produzioni artigianali. Ogni parte dell’opera era stata frutto di lunghe meditazioni e notti insonni. Il disegno era cresciuto con l’intento descrittivo dell’orbe terrestre e con una idea salvifica dell’umanità. Nel sito il visitatore avrebbe potuto confrontarsi con il personale obito. Non era importante fosse laico oppure cristiano, era sufficiente entrasse nel posto da uomo indipendente.
Il giorno declina e l’incredibile stato di sospensione arriva a coinvolgere un’aria di trascendenza. Si fa largo un evento che svelerà l’arcano di questa speciale resurrezione, elargita con la benevolenza del volere ultraterreno.
La discesa di alcune gocce dal cielo è distanziata da brevi intervalli. Le stille tintinnano sulla pedata di quattro strambi gradini a sbalzo. La scaletta di cui fanno parte lega lo spazio lungo il lato comune di due rettangoli, che così formano l’intero spiazzo sagomato a elle. La caduta dall’alto apre al timbro di due sorgenti sonore, di cui una è l’eco della vera. La pioggia si fa sempre più fitta. Si accompagna al levarsi di due note, che si confondono nella caduta d’acqua a riempire l’etere di armonia atonale. Il suono ascende dal niente del silenzio al tutto del sonoro. Ha uno sviluppo dodecafonico. I musicisti sono fantasmi sparsi nel camposanto.
La sinfonia rincorre se stessa, sollecitata a ritrovarsi in tutti gli angoli dell’opera architettonica. La geniale fonia non sorprende l’autore del progetto. Lui la riconosce. Gli è vicina, dono di una speciale amicizia durante l’albergare, e poi l’andare e venire, a Venezia.
Il pathos coinvolge piovasco e musica, una sorta di benedizione. E’ il battesimo dell’hortus conclusus, concepito al tempo dei monasteri medievali, oggi un giardino recintato. Carlo Scarpa ha memoria di fatti e affetti, di creature e cose, di idee e incontri, affrancati dalla fluidità degli intelletti.
Tra il vedere e l’udire si palesa il potere di un richiamo alla vita. Ma in lode a chi, se non all’artista in grado di interpretare in magistrale musicalità il modello di quella rivisitata corte persiana?
Luigi Nono, l’amico musicista, ha scelto due uniche note alte che reiterano le iniziali dell’estinto, il C del do, la S del mi bemolle. Il concerto è impregnato di riscatto, volendo proclamare l’eternità spirituale del lascito d’arte dopo la inevitabile dipartita del suo autore. Ma l’insieme di lettura melodiosa e costruttiva coinvolge tutta l’umanità. E lo fa secondo la dottrina che sollecita ogni viandante a costruire la strada della propria esistenza.
Lo scroscio continua ad abbondare. Patina i fabbricati, mette a nudo le pietre educate con la sacralità delle spoglie che ospitano. Scava un labirinto di canalette sull’erba allusive dell’adorata laguna di entrambi, musicista e architetto, baciati da una straordinaria tensione poietica. Riecheggia il veleggiare di barca tra i rumori della Venezia secolare. L’acqua è quella delle sofferte onde serene. Porta con sé il suono delle campane, gli schiaffi del remo, l’incedere sulle fondamenta, il gergo popolaresco, il carnevale irridente, i botti del Redentore, gli archi tesi verso tutti gli infiniti possibili.
Quando il silenzio torna inviolabile e purificatore, la colonna sonora lascia spazio alla ritrovata conversazione tra i due buoni amici.

_ Ci sono momenti in cui credo di cogliere l’essenza del suono. Infine mi convinco che soltanto grazie alla morte si arriva a quello eterno cui aspiro _
_ Comporre musica, o qualsiasi arte, è già vivere avendo la morte a fianco. Rappresenta il limite delle proprie possibilità _

L’occhio dello spirito e l’occhio del corpo stanno a fianco come l’arte orientale e l’arte greca. Entrambi gli uomini possiedono lo sguardo anticipatore del loro gesto rituale e creativo. Lo fanno sulle vestigia di quanto appreso dai grandiosi esempi dell’antichità.

_ Ho voluto spaccare la musica almeno quanto tu hai spezzato la materia. Volevo vedere la sua anima dentro, plasmarla con il pensiero, redimerla con le mie mani _
_ Ti capisco, solo così nascono modelli impensabili e si ottiene ciò che va oltre la bellezza. Si chiama autenticità … verità _

(continua)
Nella presente antologia è stata riportata solo la presentazione del romanzo.
Per l’Opera completa contattare l’Autore.
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