Alessandra Zenarola
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Alessandra Zenarola
Laureata in scienze della formazione. Assistente sociale.
Ha pubblicato i gialli Bassa marea, Il posto più freddo del mondo, Il solito niente e Non sarà l’alba, il diario di viaggi Nuvole sul Mekong e il romanzo L’ora più dolce, menzione d’onore Assosinderesi Awards 2023 e vincitore del primo premio al concorso nazionale ‘Narrativa Indipendente’.
A ottobre 2023 è uscito l’e-book Luci a Saigon (Delos Edizioni) vincitore del secondo premio al concorso nazionale ‘Pluriverso femminile’.
Suoi racconti, finalisti o vincitori di concorsi letterari, sono presenti in antologie collettive.
“Orti dei Dogi”
Romanzi
Sinossi
Vittoria Ferrani, la protagonista, è un’assistente sociale poco più che quarantenne che lavora in un Consultorio Familiare di Udine e si occupa di violenza di genere.
Il marito di Vittoria, Jacopo, sposato tre anni prima, è recluso nel carcere di Treviso per un reato di truffa ed è in attesa del processo. La moglie gli fa visita ogni sabato e i suoi sentimenti verso l’uomo, da lei profondamente amato, oscillano tra la pietà e la rabbia.
Vittoria si affida all’avvocato Aldo Rutelli, amico del marito, che cerca di ottenere gli arresti domiciliari e sviluppa un atteggiamento seduttivo nei suoi confronti.
Una sera Vittoria si lascia andare a un’avventura con un ex fidanzato, ma non prova rimorsi.
Si sente vittima del marito, verso il quale non aveva mai nutrito sospetti.
Attorno a lei gravitano i genitori, la sorella Carlotta, fatua ma affettivamente presente, e la suocera Marcella.
Jacopo ha un figlio di otto anni, Mathias, avuto dalla precedente moglie, che vive in Austria con la madre. Dopo l’arresto i rapporti tra le due famiglie si complicano e Vittoria cerca in tutti i modi, senza riuscirci, di recuperare il rapporto tra Jacopo e il figlio.
L’altra protagonista è Majlinda Ahmeti, una ragazza albanese che Vittoria incrocia nel suo lavoro e che le viene inviata da un’ispettrice di polizia per un supporto.
Majlinda ha una storia terribile alle spalle; nata e vissuta a Scutari, si sposa giovanissima con Afrim Beqiri, un uomo più vecchio di lei e molto violento e a diciassette anni si trasferisce ad Atene con il marito.
In Grecia Majlinda vive nove anni caratterizzati da terrore, minacce, percosse e violenze di ogni genere. Il marito, che lavora in un maneggio, arriva a picchiarla con la frusta che usa per domare i cavalli. Le impedisce qualsiasi contatto con la famiglia d’origine, nel frattempo immigrata in Italia. Nascono tre figli maschi, frutto di altrettanti stupri, unico modo in cui Beqiri possiede la moglie.
Majlinda conduce una vita isolata, aiutata solo dalla vecchia Sofia, una vicina di casa e da Katerina, una ragazza della sua stessa età a cui Majlinda invidia l’esistenza libera e spensierata che lei non ha mai conosciuto.
Il padre di Majlinda, Dajmar, va spesso a trovarla ad Atene e cerca di convincerla a lasciare Afrim, ma Majlinda non ha documenti e sa che non potrebbe scappare senza i bambini. Ormai vive una condizione di sudditanza fisica e psicologica nei confronti del marito, da cui non riesce a evadere.
Beqiri comincia a molestare il figlio maggiore Evangelos, già all’età di due anni, strizzandogli il pene e picchiandolo come fa con la madre.
Un giorno Katerina regala a Majlinda un cellulare e le insegna a usarlo. La ragazza riesce così a mantenere qualche contatto, di nascosto, con il padre.
Una mattina in cui Afrim esce a comprare delle birre, dopo avere malmenato Evangelos, Majlinda capisce che non può più sopportare e che sta rischiando la vita sua e dei bambini.
Chiama un taxi e, con l’aiuto di Katerina che le ha fornito l’indirizzo si rifugia in un albergo ad Atene. Lì viene raggiunta dal fratello Margil, spedito in Grecia dal padre per riportarsi a casa sorella e nipoti.
Il fratello e il fidanzato di Katerina riescono a convincere il capitano del traghetto che da Patrasso approda a Bari a caricare Majlinda e i bambini anche se privi di documenti.
Dopo un viaggio rocambolesco in nave e in treno, i cinque, la Vigilia di Natale del 2003, arrivano a Udine e vengono accolti dai genitori di Majlinda.
Nel rapporto costante tra Vittoria e Majlinda, che si sviluppa a partire da febbraio fino al mese di ottobre 2004, emergono tutti i ricordi del passato e la nuova, anche se precaria serenità del presente di Majlinda (il lavoro in un bar, una casa autonoma per sé e i tre figli).
Beqiri, informato da amici albanesi, scopre che la moglie è a Udine e viene a cercarla. Aggredisce lei e bambini fuori da casa, viene fermato dalla polizia ma non viene arrestato.
Majlinda però non ha più paura e sporge denuncia contro di lui.
Nel frattempo Vittoria, sempre in preda a una forte ambivalenza nei confronti del coniuge, aspetta che venga scarcerato.
Il libro si chiude con un colloquio tra Majlinda e Vittoria a sancire la loro alleanza nella lotta contro Beqiri, e con una scena domestica di Vittoria che, rientrata a casa, trova il marito sul divano, lo bacia e si mette a preparare la pizza.
Pelle nuda
1
Prologo
Febbraio 2004
Vado a trovare Jacopo una volta alla settimana.
Ci vado il sabato; salgo sul treno alla stazione di Udine alle undici e mezza e riparto da Treviso a metà pomeriggio. I miei sabati sono tutti uguali. Il panino al volo. Il cesso traballante. I finestrini sporchi. I biglietti online. Treviso è una città gentile. Non la ricambio, la attraverso senza neppure concedermi un’occhiata ai portici, al fiume, alle vetrine dei negozi.
Di solito al ritorno sul vagone siamo in quattro gatti, il sabato pomeriggio mancano i pendolari, gli stranieri che lavorano nelle fabbriche e gli studenti. Durante il viaggio leggo, dormicchio. Mi deprimo.
Quando arrivo a Udine è buio fitto e non me la sento di chiudermi in casa a macerarmi nella malinconia. Così, e ormai è diventata un’abitudine, prendo la macchina che ho parcheggiato dietro alla stazione, guido per un paio di chilometri e mi fermo al bar dei cinesi. Quattro gatti anche al bar, uomini soli che giocano la schedina e qualcuno che compra vaschette di gelato. Ordino sempre lo stesso aperitivo, un Campari soda, e lo stesso signore con il viso da adolescente deposita sul mio tavolo il Campari, un bicchiere d’acqua e lo scontrino.
Ci sono affezionata al bar dei cinesi, forse perché il giorno in cui hanno arrestato Jacopo non ho trovato niente di meglio da fare che rifugiarmi lì. Lo hanno arrestato alle sei di mattina, quando il palazzo dove abitiamo era ancora addormentato. Per discrezione, credo, per non fare casino. Jacopo preparava la borsa con la tuta, una camicia, lo spazzolino da denti e io mi aggiravo per la casa con un maglione infeltrito sopra il pigiama. I poliziotti stavano in piedi vicino alla porta, non so se più imbarazzati o più menefreghisti. Stavo quasi per chiedergli se volevano un caffè. Quando l’ho raccontata a mia sorella Carlotta, la storia del caffè, si è spanciata dal ridere. «Guarda che tu sei proprio scema. Non dico ingenua, ma proprio scema. Ti arrestano l’uomo e tu gli offri il caffè! Mah.»
Non mi ricordo se Jacopo prima di andarsene mi ha abbracciata o meno, ricordo solo che lui e i poliziotti sono usciti da casa nostra che appena albeggiava. Due ore dopo ho telefonato in ufficio, mi sono finta malata e sono tornata a letto. Non mi ricordo se ho mangiato, se mi fatta una doccia. Non ho mai risposto al cellulare e neppure al telefono fisso. Però alle sei del pomeriggio mi sono lavata e sono uscita a camminare, così, senza meta nel gelo sguarnito dei primi giorni di gennaio e nel mio girovagare sono finita al bar dei cinesi. Faceva un gran freddo e la roggia di fronte al bar sprigionava vapore gelato. Avevo bisogno di stordirmi e così mi sono bevuta tre Campari soda, uno dopo l’altro, tamponati solo da un crocchiare di patatine e da un pugnetto di olive gommose. Un tizio seduto al tavolino di fianco al mio non mi staccava gli occhi di dosso. In un’altra occasione sarebbe stato imbarazzante, ma quella sera non me ne importava nulla.
Per rientrare a casa ho chiamato un taxi; ero troppo sbronza e la temperatura troppo bassa per farmela a piedi.
Ho pagato il tassista, sono salita in ascensore fino al terzo piano.
L’appartamento era assurdo e vuoto, il letto sfatto, la gatta affamata.
Jacopo mi mancava già terribilmente.
Non sapevo perché lo avevano arrestato.
Avrebbe potuto dirmelo soltanto lui, e invece non mi aveva detto niente.
2
Siamo appena rientrate dalla visita domiciliare a casa della famiglia Ling.
E adesso siamo qua, nei sotterranei del Distretto Sanitario, una specie di cantina dove i sindacati appendono notizie infauste e il personale attacca fotografie e numeri di telefono per vendere divani o regalare cuccioli di cane. Prelevo il caffè dalla macchinetta ed esco all’aperto, in fondo allo scivolo per le auto, a fumare una sigaretta.
Con me c’è Enrica, l’assistente sanitaria del Consultorio familiare. Io e lei collaboriamo da sempre, ci intendiamo parecchio. Enrica mi piace, è una cinquantenne con la pelle chiara e gli occhi nocciola, non stressa le persone e anzi riesce a calmarle e possiede un meraviglioso senso dell’umorismo.
«Il signor Ling è un uomo da sogno» dice, soffiando sul suo latte macchiato.
«Davvero. Vende abiti di merda e pesta la moglie» dico io.
I Ling abitano sulla statale che da Udine porta a Grado, al primo piano di un capannone dove sono allineati una decina di negozi asiatici. Il signor Ling è un tipo grassoccio e dall’aria benevola, che non gli serve a mitigare il fatto che picchia la moglie. Lei è molto più giovane di lui, bellina e con le gambe storte. Hanno tre figli, una femmina di quattro anni, il maschietto, Shaoran, che di anni ne ha due, e una piccinina di poche settimane.
Shaoran l’ha trovato un camionista, vagava da solo alle due di notte sulla statale. L’avevano lasciato da solo in casa, e il bambino di notte era andato a cercarli.
I genitori sono stati denunciati per abbandono di minore, ma è chiaro come l’aurora che non hanno la più pallida idea di che cosa significa.
Durante la visita domiciliare erano tutti serafici: il signor Ling con le mani sui fianchi, Shaoran e la sorella più grande a girellare intorno al padre, la neonata appesa al seno della mamma. I bambini ridevano, Shaoran lanciava carezze alla sorella piccola. Che Ling picchi la moglie lo abbiamo saputo dalla cognata, che ci ha seguite fino all’ingresso del magazzino.
Altrimenti ce ne saremmo andate, Enrica e io, quasi di buon umore.
Ho finito caffè e sigaretta e butto mozzicone e bicchierino nel cesto di plastica. Enrica mi chiede come sto e se dormo abbastanza. Con lei non posso mentire, ha l’occhio clinico e non serve un’esperienza solida come la sua per capire che le mie occhiaie sono il frutto di notti tormentate.
«Come vuoi che stia, Enrica? Mi si è ribaltata l’esistenza.»
«Mm. A me è successo col divorzio. Ti sembra di non farcela e invece tiri fuori un’energia pazzesca e dopo un po’ cominci a non soffrire più.»
«Non so neppure quanto soffro. Se, soffro, o se sono solo incazzata.»
Enrica sa tutto di me e di Jacopo. Ad altri colleghi non ho raccontato nulla, lo hanno saputo dai giornali, dal passaparola, qualcuno mi ha chiesto se ho bisogno di aiuto. Quattro giorni dopo l’arresto di Jacopo, quando finalmente sono tornata a lavorare, una delle ostetriche mi ha regalato una gerbera viola. Gli altri mi guardavano come fossi un animale raro, da proteggere. Io non parlo, e se parlassi non saprei cosa dire.
(continua)
Nella presente antologia è stata riportata solo la presentazione del romanzo.
Per l’Opera completa contattare l’Autore.