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Dante Carraro
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Dante Carraro
Cavaliere al Merito della Repubblica italiana dal 1982.
Accademico per la Poesia della Pontificia Accademia Tibertina
delle Arti e delle Scienze dal 1992.
II° premio “leggere Lagune “ Lagunando 2019
I° premio “Isole della laguna” Lagunando 2022
Già presente edizione
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE "ISOLE DELLA LAGUNA"
“Leggere lagune”
Poesia
Altra Prospettiva





In un giorno mite di primavera scappa
dal volto sempre uguale del paese
e dirigi il tuo passo verso la laguna estesa.
Segui il corso invitante del fiume Sile
e i suoni musicali degli uccelli
fino a raggiungere un luogo solitario
dove i rami fluenti dei salici
impediscono al sole di toccare la terra.
Rimani lì.
Sarà divertente per la tua anima,
la tua anima assetata, come la mia,
che vede altro che il miraggio della vita
invece della sua dolcezza.
Incontrerai gli aironi che scendono
prima della scia dell’acqua
che parlano nel loro volo
dei mondi sognanti in cui vanno
quando tutte le barene sono zuppe
né devasta alcuna secca.
Come sempre i gabbiani con canto e velocità
fendono le cime dei giunchi, il loro strido
affrettato cade, volteggia e sibila dall’aria.
I giunchi oscillano in quà e là
come la brezza ondulano sulle onde increspate
annuiscono così lievi a chiunque si soffermi.
Dall’iride divelta
fuga di voli
e umana inerzia
in lampi di piacere.
Aperto come il cielo
il cuore
a ribollire di meraviglia.
Il giorno passerà
chiaro
e silente.
Così ai miei occhi
s’apre la Laguna, che
in un gorgo di mobile luce. Tace.
Viva, la laguna, tace
Sulla Via del Respiro





Nell’afa dell’estate,
fra tanti,
camminiamo lungo la Via del Respiro
che s’affaccia sulla laguna.
Distrattamente
lanciamo sguardi
a barche che galleggiano
indecise in superficie.
E guardiamo il paese d’altri
appoggiato su sponde sicure,
mentre gabbiani in volo
non si curano di noi.
Tra le plotte lignee
i nostri passi smuovono pensieri e parole,
gettati poi come sassi nell’acqua.
Creando cerchi
che si espandono e fuori controllo
velocemente scompaiono.
Nel contorno tagliente del sole,
andiamo avanti.
Annullandoci, ancora una volta,
in questo incanto
di luce e di blu,
nel profumo di laguna
respiriamo, improvvisamente,
accordi nuovi.
Stupiti allora ci fermiamo
a raccogliere i nostri sentimenti,
come pietre fresche,
appena tolte dall’acqua.
E, nell’abbraccio calmo
della Laguna di Cavallino Treporti,
siamo già a casa.
Sulle opache luci della sera





Lio Piccolo. Questo piccolo borgo
isolato, ombra tra le ombre,
si perde nell’indaco intenso con lo sguardo
appeso alla laguna di cristallo quasi immobile
nel suo respiro misterioso, adagiato
sulle opache luci della sera
che schive declinano in nuovi smarrimenti:
ed ecco, inaspettato, il delicato battito
del tempo che ci inquieta, luce ferita,
luce in salita sui tetti malati, improvvisa
stretta al cuore:
e poi, vicino un suono amico
di marea breve
accompagnare stupito
questa vertigine di vento sui muri ammuffiti
a risvegliare un fremito nuovo,
quell’intima armonia sospesa sul ritmo incerto
di una oscura indifferenza mio strazio
e mio sofferto cruccio, nell’assiduo conversare
che avvolge le intenzioni in una lamentosa litania
che a volte scioglie in canto e lenta discolora
nel tramutarsi senza ritorno delle ultime ore.
“Isole della laguna”
Poesia
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE "ISOLE DELLA LAGUNA"
I - Se, raggiunto





Se, raggiunto l’ultimo sentiero
dove la siepe ferma il mio cammino
(di là interminati spazi)
in fretta mi portassero laggiù
in quella piccola isola,
(recinta da muri dissestati)
fra tamerici un poco timide,
un morto desolato non sarei.
Quei muri si tengono per mano
e scuotono i ciuffi d’erba nelle brecce,
così, fra sole e ombrìa,
goccia un pò di festa
sulle rughe grigiastre e sulle muffe.
E poi, quelle ossa abbandonate
in quell’isola solitaria e chiusa
(ma non dischiusa, sembra, a quell’ignoto
che temi e che respingi)
si sentono, si cercano tra loro
(stranieri i volti, lontani i gesti ormai !)
e, appena fuori dal giaciglio,
levano insieme li umili biancori,
quasi toccano un rivolo di luce
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che la brezza sospinge
o il volto del meriggio
ancora assorto dietro quelle tamerici,
mentre il vento si leva
e straccia i veli delle cose intorno:
poi con tre spanne di rovi e foglie
si nascondono quiete.
E la terra è grassa, vigorosa,
e quasi profumata,
non pesa, né si sbornia d’acquerugiola
e sempre dona un’erba inebriata di polline e di sole
che intenerisce questa solitudine.
Certo, non ci sono croci, né lumini:
ma c’è la salicornia, il limonium, l’aster.
Pur se la stagione è tutta calura e afa,
o tutta vento e pioggia e nebbia,
e l’ora frana dentro il vuoto muta,
tra le fessure di quell’ultima dimora
sbirciano i morti la loro primavera;
sulla laguna e sino ai monti lontani
alita il sereno
e le nuvole si sperdono
in un frullo di gabbiani.
II - Io so che un giorno



Io so che un giorno conoscerei quel vento
che soffia giù dai monti della Carnia
che si placa ai ghebi, in conche d’ombra,
pullulanti paesi d’animali.
Nel grande flusso di quei suoni,
o negli indugi,
udrei forse un respiro,
a volte un urlo,
uno schianto di spazi.
Con me saranno altri morti
dimenticati.
Ma tornerebbe la quiete a poco a poco
per la letizia dei vicini aironi
e del solare sventolio
che rincorre un’isola tutta cumuli e fosse
in cerca di un rifugio fra la macchia.
E vedrei le tamerici,
delicate sorelle del mio giaciglio,
scavalcare la cinta
e giungere quaggiù
per frusciarmi una fiaba
di aromi e cinguettii.
E finalmente il carbonasso scoprirei:
disparve dietro il cumulo biancastro,
trascinando sinuoso nel groviglio
di rovi e ragnatele
un inutile mio filosofare.
III - Oh, potessi





Oh, potessi ignorare quell’ Isola
che un dì sorprese il mio sguardo
beato fra le braccia della laguna maggiolina,
e farmene cuscino di frescura,
fremito d’ali dopo la nottata,
quando il passo della luce
odi dentro i giunchi i nascondigli di foglia,
e ti stordisce l’ansia dei pistilli
o la rovente follia dei calabroni;
quasi tocchi il segreto dei confini
che fermano la corsa
davanti al mistero eterno.
Ed ecco: sei stelo anche tu,
il filo d’erba nella trama dell’arbusto
che in penombra stormisce,
come l’insetto nel suo viaggio incerto,
come il frammento d’altri mondi
che ardendo naufraga lassù.
E sei luce, ti riassorbe la luce
e nel suo palpito che impercettibile declina
il tuo pensiero si turba,
s’incrina l’esile ordito delle vene
e conosci del battito il lento logorìo.
Eppure credere non vuoi
in questa inesorabile certezza.
Come il colchico a sera,
stringi i petali intorno alla tua pena:
quasi dimentichi la temuta ombra.
IV - Appena il giorno





Appena il giorno fruga nei ghebi
e spinge il vento della luce
dentro i botri e su rugiade di siepi,
mentre un gabbiano sveglia l’eco d’ altri nidi,
una barca - quella del Popi -
mi conduce
verso i racconti degli anziani:
all’ isola “Ossario” di Sant’ Ariano,
o delle Anime perse.
Stà di là della Palude della Rosa.
Là nessun verde sazierà la vista
e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Bugno di pace
dove stilla il miele delle ore più rare
e la fame del sogno ritrova il suo piccolo
paniere: reliquie di genti
tutti raccolti in questo cenacolo disadorno,
per un cammino insieme
dopo la solitudine
verso la nostra Emmaus più vera.
Percossa da richiami ed echi
sempre povera dimora per un crescere divino
profuma di salicornia e di fiorella;
quì crescono infiorescenze, scoppi di stomi,
stami, rizomi, ragni che oscillano nei fili di brina
cadono dai muri,
e cenere d’ossa esce col vento marino;
intorno s’ode il battito del tempo ( o della vita )
che va, che va.
Turbano i matti desideri, l’accapigliarsi in fantasie,
banderuole impazzite sul Venturo Nulla ;
anche l’attesa di un impossibile Infinito,
pienezza e pace ai nostri giorni così presto smarriti
nel dolente abbandono d’ ogni creduto orizzonte.
V - Ma io non sento





Ma io non sento, non ascolto più;
la sera tocca l’orlo delle mura,
muove stanca sulla riva
incontro all’ ultimo sussurro.
Sull’ arco del portale
il Santo intimorito ha chiuso il libro
delle Anime
e si stringe al suo Gesù.
Rustico Aedo,
dubbioso indugio:
saranno le voci di dentro
a sciogliere quel peso:
vicine - ma dove?
nessuno vede, nessuno mai saprà -
stanno loro, le Anime.
Ebbero i giorni le notti il pane il vino
e per esse fu gioia, dolore,
e fu l’attesa, come sempre:
seme dello stesse seme
ora viventi nelle braccia della luce,
presenza d’amore a chi cammina ancora.
Santi protettori
tiratemi su dal fondo, allora: Lazzaro
nuovo io mi svegli e beva,
beva il viatico sublime,
sorridendo all’ineluttabile finale
di nostra Vita. -
“Orti dei Dogi”
Narrativa
PAROLE DENTRO


all’amico… questa prosa
anche se ha gli occhi morti
e non più il corpo



… Questo ripensarti vivo nelle date ha il sapore provvisorio che consuma antiche attese e benigni sguardi nell’alba ineguale quando muta l’ora, e ferisce defraudando l’esile ombra che ti vela nel ritratto.
Ritorna l’amico dal riso temperato talvolta a mia immagine o ancora nel dilemma “a chi del resto somigliare” dacché nessuno più ci chiama, né geni ispiratori d’eventi favolosi vengono a propormi dei segnali …
Disperdevi le nuvole a scarse lune destando antichi rimorsi quanto ci è rimasto privo di clamori: quiete ombre, voci oltre la parola anni in un istante, ma ancora soffrivi di qua della barriera che sa di travagli e non nel separarci proprio lì nel battere ai vetri della Canonica che fu nostra per un breve trovarci, dì pure prepararci.

Si spegneva una luna innocente sulla Val D’Aosta, che non toglie la polvere dai libri anzi consumava il cuore tra le alture o filtrava disincanti, trame di parole celavi ridendo del giovane capostazione che vinceva l’oscuro sortilegio dentro sguardi da uomo.
Non aprire la porta, resta dunque di là (nell’altro mondo) perché la nostalgia è un rozzo passatempo.
Goditi l’eterno, io sopravviverò ai tuoi giorni solenni, parla con Dio, fa le camminate ma non tornare dove avevi il nido: è un paese di matti. Stanne fuori. Avevi finto coniugando l’adesso col verbo all’infinito.
Inciampavi un poco sulla terraferma con i serpi sottili dei laccetti, dicevi che non bisogna più mentire: che la parola appesantisce l’andatura.
Il giovane ferroviere che ero rincorreva col vento di foschia arie di nomi che fanno comunella con l’enfant de choeur attorno ai vagoni passeggeri. Non pareva necessario l’alter ego così il figurarmi più amabile.
Ripetevo gesti che tu dicevi ad arte sortiti da fantasmi pigliatutto: voltando pagina, decifrando i graffiti di una lontanissima memoria. Rassegnati dunque: il giudizio finale si celebra ogni giorno.
La scrivania tarlata aveva un secco odore, faceva le prove del tempo la stella dell’isolamento che brucia tranquillo sulla graticola e diviene un’astrazione; il solo problema è il rapporto con Dio, dal passo breve, celato, che ci tenta nella terra promessa lungamente perduta in quell’ abbazia senza riconoscerla.

Non ci sono più tracce per noi nell’ora che pare già trascorsa, facciamo delle pause di stagione fedeli a noi stessi, anzi all’idea che le parole s’insinuino tra noi e il tempo porti via naturalmente altre parole dentro le parole.

Dicevi che spartirsi ciò che resta come si conviene a vecchi amici è un’eredità da calabrone dentro la calura che tanto ci stimammo da prediligerci col cuore e meno con la mente che così conviene vivendo a distanza il diario con le date fuori posto buttando i ricordi nel caffè di mezza sera.

Non ci opprimeva il silenzio né tamburi d’autunno né la mano accostata all’orecchio cresceva il vento col fuoco del tramonto (a Lio Piccolo) divorava orizzonti provvisori di cuore, ma non certo il nostro.
Poi volò verso le isole della laguna un pensiero che non bastò a voltarci, strisce di stagnola ci invitarono dal fondo degli orti, crepe da cui spiare l’aldisotto sepolto con giochi di campane e bisbigli da tempo immaginati.

C’era il sapore del remoto, la sagra della giuggiola, che diresti delle tradizioni.

Anche la tua voce è ricucita perché nulla ci resta oltre il tempo che conosci: le ore, il battere del cuore, l’insonnia notturna che scompiglia progetti al lumicino.

Parole come regole o regali spruzzaglie di poesie conservano l’ardore del barocco. Se gli aggettivi servono a disperderci questo ti chiedo intanto che decidi le beffe sottili, ed ugualmente di non moltiplicare anche i suoni dandogli un senso, altre trappole.
Non tornano, ristagnano le frasi offrono soste, segnalando la distanza fra i nomi, le dissimiglianze. Non esistono tregue, va da sé il ponte di chi cerca, raccolti sulla bocca, gli odori.

Alle rive di sale vado più di rado, cogliendo tamerici, rossori di tramonti. Transiti con lingua vegliarda talvolta, abiti tra la mente e lo svegliarmi, col miracolo di averti nella memoria. Il tuo nome adesso è Vento, germoglia dentro l’etere si salva per l’eterno giunge simultaneo, si rovescia o indaga, io credo, fabulando.
Ho strappato le pagine, rubo tempo ai calendari; l’anima geme in impalpabili cunicoli: cerca geografie misteriose di scomparsi (morti).
Le parole possibili pensate su quel limite estremo che segnala i cicloni ai naviganti, con spazi per le forme, depositi di idee, sonore come macchie. Ciò che ritorna è quello che si perde nella memoria della conoscenza, mio caro che travasi corse gemellari e velieri dentro la fotografia. Non altro che voce senza paragoni, buccia e foglie - albero e acqua, all’inverso del cielo trattenuta.
Per questo riaverci provvisorio tra le pagine reattive e impazienti come un diaframma, con vento regolabile, ecco mi giocherei le chiacchierate dette a voce sui miei approfondimenti sulla laguna.

Con le palme posate sopra gli occhi non guarderemo né indietro né in avanti, sosteremo tra immagini ipotetiche.

Ora sei più ricordo che immagine dentro una foto mal incorniciata con gorgoglìi seccati sulle labbra per non averli usati con nessuno.

Le diseur de bons mots (il buon parlatore) adesso s’accompagna a certezze più piccole e anche si lamenta ma aspetta un poco, dividimi dal morso della sera ora che più brucia il tempo di dirsi che esiste il dolore e s’allarga come piaga.

Prendimi la parte di me che è già tua, nella coscienza dell’appena perfettibile nella presenza del tuo silenzio. Spiami, serve a cercare più notizie sul poco che conosco: proprio così, la tenerezza in cocci tiene ben nascosti i suoi segreti.

Facevi pensare a non so quale notte ed era l’innocenza del vedere. Sei qui adesso con la mano pronta, doni parole fuori corso, ti guardo ogni tanto, asciugo il vetro della foto che ti racconta in un’estate di aironi e di gabbiani (a Torcello) a perdifiato.

Amico, se vieni qualche sera vivo col passo della morte prendimi prima il cuore poi seccami la mente finché con astuzie luciferine non sarò capovolto contro il cielo. Busserei alla tua porta, sapendo che ci siamo meritati, il tuo segreto forse esploderebbe come falco dentro la palude.
La corrente porta noi alla deriva. Il cuore che s’ingorga di malanni fra la gente da cui prendemmo avvio reclama nomi e crediti a perdere. Con parole tendenziose ti parlo della linea del fuoco, le variazioni inconfessabili, come sai.

Lavorano svelte le parole per ridisegnare il nuovo pensiero che serve per toccarci con la mano, la mia viva e breve.
Discendo dalla razza dei gabbiani da dove c’era un’eco e mi sorprendo che erompa da me lo strido che rimanda al dio dell’acqua, all’ amico col fuoco della felicità perduta; ecco di nuovo la notte luminosa riaccende la lanterna in fondo alla laguna. Rimango estraneo, maldestro dentro qualcosa che chiama in lontananza. Sopra la testa volano concordi gli uccelli, l’oscurità da intima che era come in attesa d’altro di diverso apre lo spazio senza peso a ciò che la morte ti doveva.

Non sono vecchio: ho su chi posare lo sguardo indietro, un testardo perseguire l’intoccabile e sapere verso che mondo differente.
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