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Sandro Zucchetta
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Sandro Zucchetta
Medico Veterinario, appassionato di cultura e viaggi.
Scrive dall’età di 17 anni narrativa e poesia in lingua e dialetto.
Ha pubblicato:
Ataiki, La perfezione del liscio, Menorquinas, L’orso del Bosconero, Trilogia del lettone.
Scritti presenti su: Le Alpi Venete, Mimesis e poesia, Limpidi versi, Per fiumi e bonifiche del mondo, La Piazza.
Numerose pubblicazioni professionali in riviste del settore nazionali e internazionali.
“Leggere lagune”
Poesia
IL VOLO
(PER CHI CI CREDE)





Di fior in fiore
solèa volar l’amore.
“Non sai che dolore
quando mi perdi.
E sì ben stai con l’occhi aperti
qualcun c’è sempre che ti frega il tratto.
Ti arrovelli, disperi, dài di matto:
a niente serve.
Ammàina la bandiera
e quando ogni sera viene sera
avrai il tuo momento di malinconia.
E anche quel giorno sarà andato via
sepolto con i precedenti altri...
Pace all’anima tua
e sàlvati dal buio!”
ASFODELO BIANCO





All’alba eri nuda mentre salivi
tra gli asfodeli e gli ulivi
la china glabra, sassosa
del futuro essere sposa
quell’estate all’isola dalmata.

Scendendo hai indossato
petali di asfodelo bianco.

Al porto tutti acclamarono
e in un coro di “ohhh!”
tutti applaudirono.

Il tuo sorriso spezzò
la luce del sole
in taglienti lame
e il riverbero sull’onda
creava figure strane.
UN PO’ DI CONFUSIONE





Timore nelle parole usare:
vita, amore,dolore,
pace, tempo, libertà,
morte, giustizia, felicità,
gioia, bellezza, genitorialità,

Livellarsi, entrare nel grigio,
anche se fra gli applausi.
Quindi, fa’ el to’ mestièr. E tàsi!

Dormi dormi bel bambin
fa la nanna tesoro
fa la nanna fantolin
fa la nanna sora l’ fen.

E’ una suggestione pensare
che le parole siano una libertà
riferita a se stesse?
Allora, è dentro la tua grazia
che c’è la mia angoscia?

Bella tu sei qua al sole,
bianca più della luna.
E le stelle più belle,
non son belle al par di te!

Cosa poteva succedere di notte?
Solo gli dèi potevano saperlo.
Ma non se ne curavano.
Gli dèi erano stati creati
dall’invidia degli uomini.
Che cercavano la normalità
dello stipendio fisso.

Requineterna donaeisdomine
e lux perpetua luce tei
requiesca in pace, amen!
LYRICA PLAVENSE





Il sole
aveva fugato le ultime ombre delle tenebre
e disegnava chiari e netti contorni
delle forme arboree dei giardini
e degli spigolosi e bianchi muri delle case
anche questa era una mattina come
sempre prima piena di speranze
per gli avvenimenti che si sarebbero
succeduti non sempre felici
e non si sapeva mai e mai si sarebbe saputo
a chi doveva capitare se camminando
con un bastone o bevendo un bicchiere d’acqua
magari mentre le ragazze facevano il bagno
nel fiume ancora un po’ torbido
per le piogge primaverili che si erano
riversate abbondanti a monte
nelle settimane precedenti annunciando
comunque l’addio all’inverno
che era stato pure mite e scarso di neve
e aveva consentito l’inizio delle fioriture
almeno un mese prima del solito
regalando momenti di policromatiche speranze
con sentimenti spesso fuori controllo
che inducevano a letture meditative
o al contrario aggressive e così capitava
di non sorridere mai e nemmeno di cantare
magari vecchie o vecchissime canzoni
e invece scoprire il sorriso di chi riceve
un riconoscimento per qualcosa di pensato
detto fatto venduto o regalato a chi apprezza
oppure ha vero bisogno perchè la fortuna
càpita ma anche no e gira come il vento
di questa mattina che viene da est
ma al pomeriggio da ovest e si acquieterà
alla sera regalando poi una notte stellata memorabile
con i sogni di chi dorme nel giusto
eludendo gli affanni e le angosce diurne
fatte di fatti e persone molteplici
di cui ti frega o meno ma sempre nel tumulto
degli orologi che marcano le esistenze
e imperterriti battono le ore e i minuti
financo i secondi che poi a niente servono
quando tutto finisce e agli altri resta per un po’
un ricordo o forse un rimpianto che poi
la legge degli orologi metterà in magazzino
insieme alle cose inutili delle quali non ci si ricorda più
e giustamente la polvere del tempo ne segnerà l’oblìo
fin dalla seconda generazione in altre faccende affacendata.
UNA PARTITA A Tarot





Scena per scena:
solo gli uccelli sanno la verità
e non la dicono?
Al silenzio seguono gli schiamazzi
che scoppiano improvvisi,
imbutati da tutti.
Ci sono i falsi pazzi,
ci sono i derisi,
i gareggianti di rutti.
Gli uccelli sorvolano.
“Batti la carta...”
“Rispondi con un tre!”
Ma era questa la regola
accordata?
Eravamo amici,
fino a tre minuti fa!
Non che m’è scappata
la furia dei felici:
chi perde non dà!
Gli uccelli, in alto, girano.
Rettangoli di cartone cerato,
e pure finemente pittato
in qualche sopraffina tipografia,
girano di mano in mano
dal più vicino al più lontano
senza che si portino via
quella silenziosa malinconia
del giocatore incallito.
Gli uccelli,
con giri sempre più alti e ampi,
si stanno allontanando.
E’ bello vincere,
sentirsi i migliori,
anche se in qualche momento
l’invidia si veste di consenso,
e i pugni battuti sonori
con un cuore falso contento
tradiscono del giocatore il censo
che vide tempi migliori.
Gli uccelli sono andati via,
e la verità
mai nessuno la saprà!
“Orti dei Dogi”
Narrativa
La Ninpha della Laguna





Venezia sarebbe stata ancora lontana nel tempo e nello spazio quando iniziò ad esserci la Nympha della Laguna.Tuttavia aleggiava già allora un’atmosfera densa delle storie e vicende che avrebbero abitato quei luoghi per un tratto non indifferente di storia.
Quali sono gli itinerari delle migrazioni che si portano dietro racconti e leggende, echi di lingue sconosciute, abitudini ancestrali? Ma tutto ciò, lecito chiederselo sull’argine che costeggia la Valle Dogà, trascende dal successivo narrare.

Può succedere di scoprire con altri occhi cose che abbiamo tutti i giorni sotto il naso.

A volte le sensazioni si fanno più forti della realtà e ciò che releghiamo nel sogno o nell’immaginazione può assumere parvenza di vero.

Quel giorno un sussurro pervenne dalla superficie appena increspata dell’acqua che sbrulliccicava sotto il sole del primo pomeriggio. L’aria era tiepida e profumava di monti i cui profili disegnavano l’orizzonte.

Un sussurro che non aveva parvenza di voce, forse una musica, o meglio una sintonia di suoni affascinanti. Qualcosa di non definito ma decisamente incisivo, forse nel timbro o nella modulazione.
Qualcosa che però arrivava direttamente dentro, senza passare per gli organi uditivi.

Era difficile, guardando la liquida superficie, capire quella sensazione: un po’ sorpresa, un po’ timore, un po’ curiosità.
E come lì sotto quella estesa e unica al mondo superficie acquea potesse esistere un mistero vivente.

Una entità sconosciuta e impensabile, luce intellettuale, corpo trasparente di medusa e di femminea umana apparenza, sembrava.
Nata da chi non si sa. E nemmeno quando.

Generata da un desiderio o un capriccio dell’empìreo? Per il passato erano state create ninfe di mare e di fiume. Ma per questo ambito acqueo che non era mare né fiume eppure con essi comunicava e traeva vita?

Gli dèi di chissà quale cielo la vollero lì e concordarono un nome: Limnothálassa (in greco, Laguna)
Ci fu una grande discussione se dovesse avere o meno le ali. Poi stabilirono che nell’acqua sarebbero servite poco o niente.

L’acqua della laguna, infatti, era il suo liquido amniotico, nel quale la sua luce intellettuale era stata e sarebbe stata per sempre: non sarebbe mai nata. Il suo destino, infatti, era essere senza nascere mai!

Gli spiriti non hanno bisogno né di cibarsi, né di dormire, né hanno bisogno di avere o dare amore, né temono la solitudine e nemmeno il mutare delle stagioni.

Il vento teso di bora.
L’allegria del garbìn.
L’oppressione dello scirocco.
Il gelo della tramontana.

La ninfa, sott’acqua, e al riparo di tutto ciò, accudiva nella calma penombra del fondo lagunare il giardino delle sue alghe. Alle quali consentiva il viluppo tra i suoi capelli e i suoi pensieri.

A volte si stendeva supina sul fondo e si faceva massaggiare dalla corrente traendone un gran piacere (godimento) (goduria) e senso di pace interiore. A lei era concesso ogni qualvolta l’avesse desiderato.

Quel da lei proveniente sussurro fu come un invito a scendere dall’argine e avanzare nella laguna fino a immergersi.
C’era timore a proseguire ascoltando quella sensazione, timore di non vedere e di non udire.
Eppure il richiamo era irresistibile e fu così che, sott’acqua, si aprì la visione di quello che poteva essere uno scrigno pieno di tesori.

Cos’è la bellezza? Forse la perfezione di un momento di armonia?
Ecco, in quei momenti la bellezza si palesò. E non solo nelle fattezza della Nympha...
Il suo sorriso, comunque fu più di una sensazione fino a chiedersi “Fa che non mi svegli mai da questo mio sogno”.

Non servono le parole: è così bello lo sguardo!

Il pensiero, a volte viene da molto lontano.
“Amati e ama questo momento perché nessuno ti celebrerà. Sarai anche tu uno dei più dei quali, concluso l’arco terreno, non resterà nulla. Nulla.”

Una volta risalito l’argine e rivolto lo sguardo verso la laguna... “Ricordati di me, perché in te ho la possibilità di vivere per sempre.”

Appena sotto la superficie l’acqua era torbida e fredda e fu una liberazione (sollievo) quando, una volta usciti in mare, il colore virò dal giallo-marrone al verde-azzurro.

Tu fortunata e privilegiata a non conoscere mai gli orrori del mondo

El Ziegoèon Birbante, forse lui sapeva tutto. Da sempre mai fatto cattura dei pescatori.

Fa che non mi svegli mai da questo mio sogno.

NINFE: erano benigne verso i mortali, di cui non disdegnavano l’amore.

Le Ninfe, dalla parola greca nymfe “giovane fanciulla”, erano delle fanciulle bellissime, divinità minori, gerarchicamente superiori agli uomini, ma inferiori agli Dei; vivevano in mezzo alla natura ed erano simbolo della forza vitale della natura, nelle sua manifestazioni più piacevoli ed amichevoli verso l’uomo.
Chi sono le ninfe del mare?
Le Nereidi (in greco: Νηρείδες o Νηρηίδες, al singolare Νηρείς) erano delle figure della mitologia greca, ninfe marine, figlie di Nereo e della Oceanina Doride.
Cugina, si fa per dire,  delle nereidi

(L’universo della gastronomia è immenso almeno quanto quello della musica)
La vita (l’esistere) è perfetta grazie alle imperfezioni


PAROLE GENTILI






“Palavras doces” (parole gentili), così aveva scritto a caratteri cubitali, chissà quando, un writer sul primo pilone di cemento del ponte 25 Aprile, sul fiume Tago, a Lisbona.
Quando l’ho letto, stavo passeggiando senza una meta precisa... Era il pomeriggio di una soleggiatissima domenica di primavera, e sulla superficie dell’estuario luccicavano minuscole increspature argentate.
In quel momento la brezza, proveniente dall’Atlantico, rendeva ancora più piacevole il clima.
Era strano che dalla città non pervenissero rumori, ancorché il traffico dei rientri fosse piuttosto sostenuto, come se un tempo sospeso volesse incamerare il momento in un sentire pacato, senza fretta, ansie, preoccupazioni, negatività.
Sulla riva destra dell’ultima propaggine terricola dello sconfinato estuario un anziano pescatore solitario seduto su uno sgangherato seggiolino, i gomiti puntati sulle ginocchia, il mento appoggiato sui pugni chiusi, osservava con le palpebre in fessura il cimino della canna da pesca.
“Olà! Cosa si prende?”
“Niente...”
“Come niente? E perché pesca?”
“Per passare il tempo...”
Questa filosofia sembrava spalmarsi sulla vasta superficie d’acqua, superficie che si estendeva in un orizzonte liquido senza apparenti confini di appartenenza: dove finiva il fiume e iniziava il mare? Voleva questa essere una lezione? Sì perché la fluidità dell’incertezza, il dubbio e la relatività forse già da un bel po’ non caratterizzavano più il comportamento umano di quella parte di mondo che troppo spesso si era considerata l’onnipotente centro dell’universo...
“Palavras doces”, poco alla volta, erano uscite dai comportamenti individuali lasciando campo libero all’aggressività, alla mancanza di rispetto, financo alla violenza verbale: la parola urlata aveva preso il sopravvento su quella offerta. O sussurrata...
Tempo addietro lessi che circa sette secoli prima su quelle acque del Tago erano adagiate alcune caravelle alle quali facevano da contorno innumerevoli imbarcazioni di tutti i tipi. Stavano trasbordando barili, fagotti e imballaggi di tutte le dimensioni in un vociare festoso e una grande confusione. Sarebbero partite per forse il più importante viaggio sul mare di tutti i tempi.
Chissà qual’era lo stato d’animo di Vasco de Gama e come aveva trovato il coraggio di partire verso l’ignoto lasciandosi alle spalle le tranquille acque del Tago per volgere la prua verso un mare, letteralmente, di incognite. Alla ricerca della conferma di una convinzione o di un sogno? Chissà!
O forse la necessità imperiosa che alcuni individui hanno di conoscere...
La conoscenza... Quel bene prezioso che nessun ladro potrà mai rubare e che è la prima condizione per la libertà.
Anche il pescatore solitario, che avrei saputo chiamarsi Jorge, ebbi modo di scoprire che a modo suo era un maestro di conoscenza: conosceva soprattutto sé stesso.
Qualche millennio prima, pensiamo al caso, alla foce invece di un minuscolo e spesso arido rio greco, uno che poi dissero essere un grande filosofo, espresse lo stesso concetto in dogma.
Jorge, visto che non me ne andavo, mi chiese con molto garbo di dove venissi e perché fossi là.
Alla risposta “Per curiosità” rimase inizialmente perplesso poi, dopo un lungo silenzio, cominciò a raccontare.
“Da bambino questo fiume-mare mi sembrava l’inizio dell’infinito e questo pensiero inizialmente mi impauriva e poi, crescendo, diventò invece sempre più affascinante.
Ricordo un via vai di navi da guerra e persino di un sommergibile, da osservare con gli occhi sgranati!
In quegli anni la mia famiglia era molto povera e per mangiare io e i miei due fratelli dovevamo andare a pescare mentre mio padre bracconava di nascosto cacciagione di piuma nelle paludi che costeggiavano il fiume e di pelo nelle boscaglie adiacenti. Mia sorella invece raccoglieva, insieme a mia madre, vegetali commestibili sulle rive degli argini.
Un incubo, da piccolo non di rado turbava il mio sonno, dopo che una volta il maestro della scuola d’infanzia ebbe a illustrare con toni apocalittici una presunta battaglia navale proprio lì, sul Tago. Una flotta di imbarcazioni moresche simili a caravelle con lo stendardo della mezzaluna erano partite dal Marocco per conquistare Lisbona. Ma furono colpite dalle palle dei cannoni appostati a Belèm, le cui bocche da fuoco erano diventate incandescenti per il tanto sparare. L’estuario fu avvolto dal fumo e quando questo fu disperso dalla brezza marina, sull’acqua galleggiavano pezzi di relitti e cadaveri sfigurati. Il tutto lentamente finì in mare e si disperse, salvo tornare parzialmente sulle spiagge con la risacca nei giorni successivi.
Non ho studiato, comunque, perché grazie ai buoni uffici di un parente iniziai ancora imberbe a lavorare come scaricatore al porto.”
“Ma a che età, Jorge?”
“Avevo 13 anni e il lavoro era duro, da appena faceva chiaro a quando veniva buio. Solo alla domenica si poteva dormire un po’ di più, al massimo fino alle dieci perché poi c’era la Santa Messa.”
“E così passò la tua giovinezza, Jorge?”
“A diciotto anni feci domanda per essere arruolato nella marina militare. Mi presero subito e dopo l’addestramento fui trasferito e svolsi il servizio in Mozambico, allora colonia portoghese, su un pattugliatore che navigava il fiume Zambesi dalla foce sull’Oceano Indiano fino a diverse centinaia di chilometri verso l’interno. Non fu una gran bella esperienza: clima invertito rispetto a qui, tanta umidità, ostilità crescente nella popolazione nella quale prendeva sempre più piede l’idea dell’indipendenza...
Di ritorno dal servizio militare ripresi a lavorare al porto, questa volta come gruista. Il lavoro non era più duro come quello di prima e la paga era buona.”
“Beh, un bel cambio di vita, no?”
“Beh, certamente! Il fine settimana ero solito frequentare le baladoras locali e fu lì che incontrai Fatima. Se il sabato sera era dedicato al ballo, la domenica pomeriggio era dedicata alle passeggiate nei giardini delle rive del fiume e fu lì che entrambi, una volta conosciuto l’amore in tutti i sensi, decidemmo di mettere su famiglia.”
“Quanti anni avevate?”
“Quando ci sposammo, io 25 e Fatima 21. Destino, o fortuna, volle che le finestre dell’appartamento delle case popolari che ci fu assegnato guardassero sul Tago e ancora una volta, quindi, si perpetuava in qualche modo il mio legame con un corso d’acqua.”
“Jorge! Il galleggiante va sotto, stanno abboccando!”
“Tranquillo! Quando la corrente va da una parte e il vento tira al contrario, capita che il galleggiante vada sotto. Ci resta un po’ e poi torna su. Se abbocca il pesce lo vedi andare sotto per tre volte in pochi istanti. Infatti, eccolo che riemerge...”
“Avete avuto figli?”
“Si, abbiamo avuto due figli: prima Ana e dopo due anni Josè. Gli anni passarono veloci, finì la dittatura e cominciò con la libertà un certo benessere che è continuato anche con la pensione.
Purtroppo Fatima una brutta malattia se la portò via comunque troppo presto, ma quando all’ospedale mi salutò per l’ultima volta mi fece promettere che i nostri anelli di matrimonio, legati insieme da un nastrino rosso, li avrei gettati esattamente al centro dell’estuario, di fronte ai giardini che frequentavamo da giovani innamorati.”
“E tu hai mantenuto la promessa?”
“Sì, mi sono fatto prestare la barca dal mio amico Joao e una domenica mattina, con un sole splendente, l’ho fatto. E’ stata una emozione molto forte...”
“E i figli, sono ancora con te?”
“Oh, no. Ai figli dai le ali e poi decidono loro dova andare a fare il nido... Entrambi si sono sposati e, combinazione, abitano entrambi a Oporto. Mi fa piacere che un piccolo pezzo di famiglia si sia trasferito lì. Vanno d’accordo, stanno bene e sono contenti. Che può volere un genitore di più?
Mi piacerebbe vedere più spesso i nipoti, questo sì. Quasi sempre vengono a trovarmi a Natale o quando si compie la Feria d’Agosto. Ed è un divertimento vedere come sistemano le brandine da campeggio a casa del nonno e come si inventano i turni per andare al bagno o sedersi a tavola e hanno sempre un mucchio di cose da raccontare...”
“Ma, Jorge, non ti pesa vivere da solo?”
“Adesso che i figli sono andati per la loro strada, chi mi fa compagnia è Totò. E’ un vecchio gatto spelacchiato ma affettuoso che tutte le sere mi aspetta sulla soglia di casa nella speranza, il più delle volte delusa, che ci sia anche per lui qualche bocconcino di pesce. Ma si rimedia sempre qualcos'altro e mangiamo uno accanto all’altro, con lui seduto sopra il tavolo della cucina.”
“Ma, Jorge, ogni giorno a pescare? Ogni giorno così?”
“Ogni giorno ha una sua profondità e una sua promessa. Anche per me che sono vecchio e vivo molto di ricordi, che sono tanti. Qui in riva ho il tempo di rivederli, e quelli affettuosi anche riviverli, ed è una grande consolazione... La salvezza non arriva da sola nel futuro. Ma ognuno, se vuole, ha la compagnia di se stesso. A me basta, perché mi chiamo fuori dalla tempesta che spinge verso il futuro... Non mi chiedo più se sono dentro o fuori dal tempo. Ho dato molto, ho avuto molto. Ora per me c’è la pace di questo fiume. E ogni tanto un pesce, per me e per Totò.”
”Jorge, quanta malinconia!”
“Ma no, no. La vita, anche la mia, potrebbe essere stata solo un susseguirsi inarrestabile di attese e coincidenze... La mia, tra l’altro, tutto sommato tranquilla e senza grandi inquietudini. Ma non è stata uno splendore. Comunque, me lo disse il prete il giorno del funerale di Fatima: malinconia è la gioia di sentirsi triste... O meglio, dico io: malinconia è ricordare il bello che che abbiamo vissuto, i momenti felici... E questo non provoca tristezza, anzi!” E sorrise.
Il colloquio si concluse con l’invito a bere una jinha insieme. Cortesemente rifiutai e salutai guardandomi bene dall’auguragli una buona pesca, augurio che in qualsiasi parte del mondo dai pescatori viene considerato piuttosto un malaugurio.
“Adeus, Jorge!”
Dal mare, intanto, aveva cominciato a soffiare un vento assai freddo che gelava la pelle del volto e increspava con piccoli sbuffi bianchi la superficie fino a poco prima quasi piatta, dell’estuario. Quindi, ripresi il cammino sulla sponda verso il centro città, ripensando a quanto relativi alla conoscenza potessero essere i nostri pensieri e le convinzioni che caratterizzano le persone, a quanto ognuno ha di prezioso, poco o tanto, nel proprio esistere...
E ho pensato, anche, a perché si potesse palesare nell’umanità, prepotente e invincibile, quell’ancestrale e mai completamente sopito carattere di belluinità che porta alla prevaricazione e alla violenza...
Potrebbero davvero bastare poche “Palavras doces”?
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