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Isabella Lanzafame
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Isabella Lanzafame

Dal 2016 navigo per la Laguna di Venezia: inizialmente su di un sandolo a remi, dotato di vela al Terzo.
Da qui la passione per questo modo di girovagare, mi ha permesso di scoprire le numerose isole del nostro territorio, spesso disabitate e sconosciute ai più.
Quest’anno ho acquistato un topo da un pescatore, che l’ha dovuta cedere a causa dell’età avanzata.
Mi alterno quindi nel tempo libero, su tre barche veneziane, che possiedo.
Sono una maestra elementare e di fatto i ponti, le festività, i fine settimana, li trascorro a bordo, dormendoci, mangiandoci, anche d’inverno: sempre esplorando, veleggiando, vogando, regatando, compiendo viaggi da un capo all’altro della Laguna. anche per più settimane senza sbarcare (Grado, Barbana, Punta Sdobba, Montiron, Casse di Colmata, ecc )
Già presente edizione


MENZIONE D'ONORE
SEZIONE ROMANZI
“Orti dei Dogi”
Romanzi
INTRODUZIONE


“Un sandalo comprato con uno sputo” è il racconto di un viaggio di dodici giorni compiuto esclusivamente a remi, da me e mio figlio allora sedicenne, attraverso la rete fluviale che collega la Laguna di Venezia con quella di Grado, a bordo del nostro sandolo “Camoma”, facendo diverse tappe.
Di per sé non è un’impresa impossibile, anche se il sandolo è un’imbarcazione di legno, tipica lagunare senza chiglia, col fondo totalmente piatto e che quindi non può affrontare certe condizioni, come il mare aperto, o un meteo troppo proibitivo, senza rischiare di capovolgersi.
La nostra Camoma è lunga sei metri e raggiunge la larghezza massima di circa un metro e mezzo: a bordo di essa mangeremo, dormiremo, ci laveremo e compiremo la nostra singolare esperienza.
Ma è un viaggio al contempo più impegnativo di quello che si può cogliere, perché diviene un viaggio interiore, attraverso il superamento di condizioni più difficili di quelle esterne.
Mi porta, inoltre maggiormente in contatto con mio figlio Adam.
Credo che ogni genitore abbia delle ambizioni per i propri figli. L’avevo ancora in grembo, che sognavo per lui il futuro più radioso che si possa desiderare e speravo che un domani riuscisse a realizzarsi totalmente nella vita.
Al compimento dei suoi quattro anni, mi sono trovata ad auspicare che almeno un giorno arrivasse a parlare. È dura, quando si hanno ragazzi “speciali”,riuscire a metabolizzare ciò, digerirlo e andare avanti come se niente fosse. Raggiungere l’accettazione totale è pure un viaggio lungo, che forse non termina mai.
Ma per quanto possa sembrare sorprendente, questo ragazzo che nonostante prove e tentativi durati anni, non è mai riuscito ad imparare ad andare in bicicletta, inspiegabilmente riesce non solo a stare in equilibrio su di una barca ballerina che sporge  di poche decine di centimetri dall’acqua, ma anche a vogarla instancabilmente e a compiere con me quest’impresa.
È un tragitto che inizia prima e che durerà anche dopo, portandoci alla conoscenza intima del nostro territorio, delle sue tradizioni, della sua storia e facendomi uscire sempre più dalla totale ignoranza.
Appena acquistata Camoma, per me, si trattava sicuramente di un sandalo: così viene chiamata questo tipo di barca nella terraferma limitrofa a Venezia, da dove provengo, dalle poche persone che perlomeno  riconoscono e riescono a dare un nome alla forma del suo profilo. A contatto con chi conosce un po’ meglio le imbarcazioni storiche, scoprirò che questo termine, viene considerato da campagnoli, o meglio da gente che non se ne intende per niente di Laguna e di acqua: il suo nome corretto è sandolo. E così a poco a poco comincerò a capirci qualcosa in più: come condurla e dove mi può portare.
Compiere questo percorso, mi farà superare la concezione che a lungo, ho avuto di me, reputandomi una persona totalmente imbranata e mi permetterà di capire, che in realtà posso e riesco a fare determinate cose. Tale consapevolezza mi riempirà di fiducia per il futuro, alleviando anche i momenti più difficili.
Non scriverò utilizzando termini nautici troppo specifici, in quanto ci siamo accostati a questo mondo relativamente da poco e molte persone , più esperte, saprebbero utilizzarli in maniera migliore. Non è mio intento neppure descrivere dettagliatamente i luoghi, che incontriamo, per filo e per segno. Se ne può leggere ampiamente in qualsiasi guida per turisti.
Il mio mettere per iscritto questa breve, intensa avventura, è un modo di dare del valore a ciò che siamo stati e abbiamo visto, rompendo un po’ gli argini delle nostre semplici condizioni, oltre che per raccontare un po’ la storia di Adam, conscia che lui molto difficilmente arriverà mai a narrare qualcosa di sé o addirittura di riuscire a scriverlo.
Siamo il frutto delle nostre azioni.
Siamo ciò che abbiamo fatto.





“UN SANDALO COMPRATO CON UNO SPUTO”


CAPITOLO 1

Ognuno di noi ha una pulsione vitale che lo spinge verso qualcosa di predefinito e specifico.
Credo che i vari malesseri dell’animo umano come gli stati depressivi, le crisi d’ansia, i dolori psicosomatici, derivino dal semplice fatto che gli individui che ne soffrono, non siano, nel corso della loro vita, riusciti ad incanalare le proprie energie verso ciò, cui sarebbero stati predisposti per natura. Non trovare una strada, una passione attinente a ciò che si è, è qualcosa di drammatico e porta ad un’involuzione dell’essere stesso. L’animo si accartoccia e si ripiega, debole ed indifeso, cadendo preda delle idee del primo altro essere che trova, giuste o sbagliate che siano, pur di non cadere nel vuoto cosmico della noia. Si rischia di aderire a gruppi di estremisti, di compiere atti violenti o vandalici, per cercar scampo da un disagio esistenziale. Il fisico si mette all’erta: come quando si è nell’oscurità ed una fioca luce attira l’occhio, o nel silenzio totale, il rumore di un’auto che passa, il pianto di un bambino, o il taglia-erba del vicino, possono diventare assordanti per l’orecchio, così un piccolo sintomo, un doloretto, divengono fonte di preoccupazione. Non avendo altro a cui pensare e a cui dedicarsi, ci si concentra solo su quelli, li si ascoltano per bene, li si ingigantiscono, facendoli talvolta sfociare in qualche malattia vera e propria.
Da quando ho acquistato il mio sandalo, per esempio, io non mi sono più ammalata di nulla: non possiedo nessuna medicina in casa, anzi quelle vecchie le ho dovute cestinare, poiché ormai scadute da anni. Non vado da un dottore per me, da non so quanto tempo ormai. Non ho una febbre, un raffreddore, un mal di pancia, da molto. Eppure spesso sono in maniche corte, anche nelle giornate invernali ventose o pungenti, che trascorro all’aperto e, se devo fare un bilancio dei miei giorni e dei miei anni più recenti, sono per lo più un essere felice.
Scoprii in maniera fortuita, che dedicarmi all’andare in barca a vela e a remi, in giro per la Laguna, fosse la mia predisposizione, o meglio, la mia passione.
Spesso in precedenza, mi sono sentita come una foglia sospinta dal vento: situazioni, luoghi, persone, attività sportive, occasioni, si profilavano davanti a me come per caso, senza che cercassi realmente qualcosa, senza sapere io stessa in realtà dove incanalare la mia indole.
Forse avrei dovuto ascoltarmi di più, perché, dentro di me qualche segnale, in realtà c’era...
Da bambina, mi era concesso di restare alzata fino a tardi, per vedere, alla televisione, in via del tutto eccezionale, un film che i miei genitori reputassero adatto a me. Era un evento raro ed una gioia allora!
Ne rammento uno in particolare, anche se a distanza di così tanto non ne ricordo ormai né il titolo, né gli attori… È la storia di una nave di corsari, che cattura un vascello, dopo qualche scaramuccia. Quando i pirati aprono il portello della tuga, si ritrovano davanti agli occhi spauriti di quattro o cinque bambini che li osservano rannicchiati sottocoperta. Il capo dei filibustieri, decide di risparmiare loro la vita e si scopre che anche l’uomo più rude, in realtà non è poi così cattivo. Inizia così, per i fanciulli, una incredibile avventura per mare, veleggiando assieme ai pirati. Non ho più idea di come finisse il film, ma sento ancora oggi il rammarico di allora, per non poter vivere in prima persona, quelle esperienze: altro secolo ed altro contesto, purtroppo, quello odierno, affinché una cosa così sensazionale, possa accadere anche a me.
La stessa vena di tristezza, l’avvertii successivamente, ogni volta, quando giungevo al termine della lettura di ogni racconto, o romanzo, che mi capitasse sottomano e che fosse incentrato sulle esplorazioni per mare. Era per me un dispiacere distaccarmi da quel mondo, dove mi immergevo con la fantasia, per ritornare con i piedi per terra.
Perché non ero venuta al mondo qualche secolo prima?
Perché, per quanto ami il mio genere, ero nata donna?
Perché dell’arrampicarsi lungo il sartiame, dell’issare poderose vele di cotone, del sentire il profumo della salsedine alle narici ad ogni risveglio, potevo solo leggere e mi era precluso il poter sperimentare queste ed altre sensazioni direttamente?
Per molto tempo, troppo, tanto da far giacere i miei reali desideri sotto ad uno strato di eventi “terrestri”, finii in varie parti d’Europa, sospinta, come la foglia di cui sopra parlavo: Germania, Olanda, Svizzera, Polonia…
Quando finalmente tornai, decisi: “Ora basta, adesso mi imbarco”.
Feci domanda presso tutte le compagnie navali che avevo sentito nominare, sfoggiando la mia acquisita conoscenza delle lingue e la mia predisposizione ad adattarmi a qualsiasi ruolo o mansione.
Ma il Destino aveva deciso che avrei dovuto restare a terra ancora a lungo. A volte mi chiedo sotto a quale pila di altri curriculum deve essere giaciuto il mio, per circa un decennio.
Solo dopo questo lasso di tempo, fui contattata telefonicamente da una compagnia navale, che organizzava crociere in tutto il mondo. Mi chiedevano se ero disponibile per fissare un colloquio conoscitivo, per lavorare con loro. Ma la telefonata avvenne proprio nel momento in cui stavo salendo i gradini di una chiesa, per celebrare il Battesimo di mio figlio, nato pochi mesi prima: troppo tardi! Ormai il forte vincolo dell’essere madre, mi aveva avviluppata con tutta una serie di incombenze da dover sbrigare.
Poi, sette anni fa, mi il mio compagno di allora, mi inoltrò sul cellulare un sito che mostrava l’annuncio di una barca in vendita.
Penso che tante coppie usino sognare, condividendo desideri e proiezioni sul futuro, che siano essi più o meno realizzabili… Acquistare abitazioni dislocate lungo la costa, con vista sull’infinito, oppure munirsi di camper e scoprire assieme nuove città… Raggiungere lande sconosciute, lontano dalle classiche mete dei più.

(continua)


“Isole della laguna”
Narrativa
UNA ROSA CHE PROTEGGE







Ho passato l’ultima settimana, consultando tutte le foto e gli articoli degli archivi storici di Venezia che potessi trovare. Spiego ora il perché …
Dieci giorni fa eravamo in cinque in caorlina a vogare nel tratto di canale davanti a sant’Angelo della Polvere, quando abbiamo visto, tutti quanti, ben chiaramente, avvicinarsi un sandolo con una rosa disegnata sulla vela rossa. Roberto, il pope, è stato il primo ad ammutolirsi, troncando nel bel mezzo una delle facezie che di quando, in quando, rivolgeva a noi prodieri, per incitarci a remare e a tenere il tempo. Tutti ci siamo voltati nella direzione del suo sguardo, fissato su quella vela maestra, che andava ingrandendosi ai nostri occhi, come essa, con quel poco vento della mattinata, lentamente si avvicinava. Al suo centro spiccava, grande una rosa bianca. La barca procedeva in maniera perpendicolare alla nostra rotta e di lì a poco sarebbe stato da capire se avrebbe attraversato il canale, passandoci a prua o a poppa. Non fece per un bel po’ nessuna delle due cose: mutò invece la sua direzione, portandosi dal lieve traverso che la sospingeva, ad una bolina stretta, per avanzare in maniera parallela a noi.
Tentammo di riprendere a remare, poiché una grossa barca a motore, stava sopraggiungendo alle nostre spalle a velocità sostenuta e, se non avessimo mantenuto un minimo di andatura, ci saremmo presto ritrovati in balia delle sue onde. Per fortuna, la barca rallentò e ciò consentì a ciascuno del nostro equipaggio di poter, invece che di premere furiosamente sui remi, per trarci fuori d’impaccio, di continuare sì a vogare, ma con tutta l’attenzione e la curiosità rivolte verso il sandolo.
Continuammo ad andare avanti così, formando questo strano triangolo: composto dalla nostra caorlina, il motoscafo alle nostre spalle che improvvisamente andava piano come noi e la piccola imbarcazione, sospinta dalla propulsione della vela, che sembrava quasi scortarci. Come la distanza tra noi ed essa si ridusse maggiormente, scorgemmo le sagome delle due figure femminili che ne erano a bordo.
Dopo qualche minuto, il natante che invece era alle nostre spalle, in maniera lenta, senza sollevare quasi il minimo spruzzo d’acqua, ci superò, ci distanziò, per riprendere, ormai lontano, la propria corsa. Questo di per sé era un evento raro: normalmente, quando incrociamo le altre barche a motore, dobbiamo impegnarci al massimo. Il poppiere rischia di perdere la barca, mentre ci ritroviamo sballottati dalle onde di chi è passato senza minimamente rallentare, l’acqua ci entra talvolta dentro, facendoci rischiare di scivolare malamente sui paioli; nei casi peggiori qualcuno è anche finito in acqua, in passato. Purtroppo sono effetti, dei quali spesso nessuno di coloro che ho incrociato, si curi, o che risveglino il minimo scrupolo di pensare di procedere ad una velocità ridotta. Così che, quando una barca a motore, nell’approssimarsi a noi, frena la sua corsa, ne siamo quasi stupiti, poiché ciò costituisce l’eccezionalità e non la norma.
Ma il fatto ancora più straordinario era costituito dall’apparizione del sandolo, che ora, passata la barca che miracolosamente aveva rallentato… riprese la sua originaria andatura al traverso e tagliò il canale dietro la poppa della nostra caorlina.
Placidamente, così come si era profilata, cominciò a divenire una forma sempre più piccola, sempre più indistinta, finché non fu altro che un minuscolo puntino rosso all’orizzonte e poi, più nulla.
Dei due esseri femminili, per tutto il tempo, non ne vedemmo altro che i contorni, a causa del riverbero del sole, la cui controluce li rendeva neri e per la distanza.
Avevo sentito raccontare, da qualche altro vogatore in un paio di occasioni, ormai da già da anni, che la piccola barca di legno, riconoscibile per la vela con il suo fiore, era già stata vista, sempre nell’incrocio di qualche canale: dove vi era un passaggio frenetico di lance, taxi e barche di tutti i tipi. La scena era stata più o meno simile a quella alla quale avevamo assistito noi. Tutti
improvvisamente rallentavano, come colpiti da una strana malia, come assoggettati, soggiogati dalle due donne, delle quali nessuno riusciva a riferirne però, la fisionomia esatta, o il nome della barca.
Non uno sapeva a chi appartenesse nella realtà quel leggero scafo allungato, che silenziosamente scivolava sulla superficie della Laguna, grazie ai remi e alla sua piccola tela trapezoidale issata. Come compariva, tempo di notarlo, era già scomparso. Non lo si era mai individuato ormeggiato in nessun luogo.
Pareva singolare fosse condotto esclusivamente da esseri femminili che nessuno conosceva: in Laguna, prima o poi, si sa l’identità di tutti, se la si naviga con assiduità. Eppure non una persona sapeva dare un nome od un volto alle sue conducenti.
Ancora più particolare era che, al loro passaggio, i motori degli innumerevoli motoscafi che divorano giornalmente l’acqua lagunare, risputandola in bolle, vortici e onde, quasi con rabbia, quasi ne fossero da un lato disgustati... improvvisamente abbassavano il tono del loro ruggito... calavano di intensità e miti rallentavano la loro potenza e la brama di sbranare la superficie liquida. Nessuno capiva il perché. Qualcuno aveva ipotizzato che entrassero in avaria.
Così, nei giorni successivi, mi misi a cercare e cercare la provata esistenza del sandolo con la vela rossa e la rosa bianca, in qualche foto, in qualche articolo, in qualche manifestazione, che fossero stati pubblicati da chiunque, da qualsiasi parte …
Volevo capire se quella che avevo visto, era stata la manifestazione di qualcosa di trascendentale e che da tutti era nominata come una specie di leggenda, o se avesse delle radici più concrete. Ma non ebbi fortuna in tal senso.
Fino a ieri sera, quando, ormai prossimo a rinunciare alla mia curiosità, casualmente non mi ritrovai a chiacchierare con un signore molto vecchio, un po’ strano e malandato, in un posto molto vecchio, strano e malandato anch’esso.
Ecco il suo racconto …
“Rosita e Rossella erano due sorelle, nate probabilmente da una madre debole, che per non fare troppa fatica, neanche mentale, alla secondogenita aveva dato un nome molto simile a quello della maggiore. Era così debole, quella povera donna, che non sopravvisse molto dopo la loro nascita. Il padre, disperato all’inizio, per essere rimasto da solo con due bocche da sfamare, fece di quella, che all’inizio aveva reputato come una grande disgrazia, un punto di forza.
Insegnò loro dapprincipio a vogare e poi, una volta più grandi, come manovrare la vela al terzo della barca che da sempre utilizzava come pescatore.
Quando entrambe divennero capaci e autonome, regalo’ alle figlie, un sandolo, dotato di una piccola vela. Sarebbe servito per trasportare le ceste di vimini, piene di pesce (che giornalmente pescava in Laguna) direttamente al mercato, consentendogli di restare fuori, più a lungo, qualche giorno di seguito, evitando di essere lui stesso ad impiegare del tempo per andare ogni volta a vendere il frutto della sua attività.
Orgoglioso delle due figlie, che all’aria aperta, crescevano sane, vigorose e si dimostravano capaci nel lavoro, un giorno, dipinse la loro vela, in modo che le potesse rappresentare entrambe, in modo equo; ecco che la tinse rossa, disegnandovi una rosa nel centro.
Barca e ragazze diventarono un tutt’uno, armoniosamente sincrono. Caparbiamente remavano per ore, per raggiungere la barca del padre, concentrate: le sopracciglia erano aggrottate nello sforzo, mentre il sandolo lambiva un’estremità della Laguna, dove stava la barca del genitore. Poi con il prezioso carico da trasportare, si sospingevano fino ai confini dall’altra parte… al mercato del pesce. Quando la brezza lo consentiva, una delle due, issava la veletta, per ridurre la fatica. Sedute, una a poppa, una sulla nerva, le si poteva ammirare, con i capelli al vento e le guance imporporate, quasi a rafforzare il loro nome ed il senso della tela che le faceva avanzare.
In molti in realtà le ammiravano: tutti i pescatori che bazzicavano la Laguna; ma nessuno si esponeva mai più di tanto con loro: un po’ per timore e rispetto del loro burbero padre, un po’ perché era difficile scegliere quale fosse la più bella.
Ma c’era qualcosa di ancora più ancestrale: non era possibile scindere quel tutt’uno fatto di giovani donne e di barca; disgregare quell’unico elemento che quotidianamente,si spostava sull’acqua con perseveranza, forza ed in alcuni casi, coraggio.
Fu così che la loro esistenza si dipanò fino alla fine, senza grandi avvenimenti di rilievo.
Anche se la loro stessa vita in un certo senso era particolare: se fin dall’antichità, fosse infatti una cosa comune vedere delle donne al remo, lo era molto meno, vederle alle prese con delle vele.
Cambiarono i tempi, mutò radicalmente con l’avvento del motore, il modo di pescare. Ora in brevissimo tempo e con molta meno fatica, ci si poteva spostare da un luogo all’altro.
Ostinati, Rosina e Rossella e il loro ormai anziano padre, furono tra le poche persone che si ostinarono nel loro modo di navigare, rispetto a tutti gli altri pescatori.
Forse non avevano soldi a sufficienza per acquistare anche loro un motore come tutti gli altri. Forse amavano semplicemente quel modo di andare, del quale, da una vita erano abituati. Furono per questo, negli ultimi anni scherniti e derisi. Ma continuarono a navigare a vela ed a remi, con i fisici abbronzati e forti, le guance arrossate dagli elementi che li contornavano, fino alla fine delle loro semplici esistenze. Al termine di esse, scomparvero silenziosamente, senza gran clamore, come d’altronde erano state le loro vite”.
Ora avevo tutti gli elementi in mano per costruirmi una mia teoria …
Quella che viene tutt’oggi scorta, è la barca di Rosita e Rossella, con loro stesse a bordo.
Compaiono improvvisamente là dove c’è un’imbarcazione che procede a remi o a vela ed è in difficoltà, per il modo sconsiderato di altri, di girare per la Laguna. Forse sono fate, che inceppano momentaneamente, con il loro passaggio, i roboanti, aggressivi mezzi, che altrimenti non rallenterebbero. Forse, semplicemente, ipnotizzano momentaneamente tutti, come facevano in passato, grazie alla loro bellezza, per proteggere l’umile persona che sta vogando. Di sicuro vogliono, ancor oggi, preservare, fin quando possibile, tutto ciò che è tradizione.
Nelle mie precedenti ricerche, in realtà ho reperito alcune immagini di una sanpierota con lo stesso tipo di vela. E’ dei giorni nostri: l’ho scovata tra alcune foto di repertorio di una regata di vele al terzo.
Non so se il suo proprietario provi lo stesso ideale di Rosita e di Rossella, potrebbe essere che abbia adottato una vela molto simile, per puro caso. Mi risulta che la sua barca si chiami Bocolo ed è per ora, l’unica rappresentazione che assomiglia alla graziosa, benevola vela che ho visto con i miei occhi e che pochi giorni fa, ci ha protetti.


AMORI IMPOSSIBILI



Quell’inverno particolarmente rigido, decisi di abbandonare le sponde del mio amato fiume, spinto dalla fame. Non fu una scelta facile: a nessuno penso, possa far piacere lasciare la propria abitazione, o la consuetudine e la conferma allo sguardo, derivate da ciò che è noto. In fin dei conti, da molti anni quel fiume era stato la mia casa. Esso, partendo proprio dal centro della città, si snoda fin sulla Laguna. Non mi piace molto la zona adiacente al centro abitato: troppo rumorosa, per via della strada asfaltata che costeggia il corso d’acqua e che, sia di giorno che di notte, è trafficata da roboanti mezzi. Laggiù, gran parte delle sponde è stata cementata e numerosi pontili si protendono dalle due rive, dando ricovero a numerose barche. Soprattutto d’estate il loro via vai, scuote fortemente la superficie dell’acqua, che, se non fosse per il loro transito, presenterebbe solamente una lieve increspatura anche nelle giornate più ventose. Ma per la maggior parte della bella stagione, le onde rimbalzano, frangendosi su di una sponda per poi andare a colpire con veemenza quella opposta, al passaggio di motori che intorbidiscono i fondali.
Se ci sospinge un po’ più in là, oltre una piccola ansa, però il paesaggio si fa di una bellezza quasi esotica: cespugli e rami si inchinano a baciare con le loro fronde il fiume. Gli argini sono di un terreno giallognolo, morbidi, in certi punti ricoperti di erba selvaggia, lasciando modo a molti animali di farvi le loro tane. E’ questa la parte del corso d’acqua che amo di più e dove più a lungo ho vissuto.
Ma anche se quell’inverno, come tutti gli anni, il traffico delle barche era ormai ridotto solamente ai pesanti mototopi (che trasportano le merci dalla terraferma, fino alla Città sull’Acqua), facevo molta fatica a procurami del cibo. Di piccoli pesci e granchietti, neanche l’ombra, sebbene passassi le mie giornate ad osservare il fondale senza sosta; e neppure insetti, o alcunché potesse sfamare il mio appetito. Sembrava che tutto il regno animale fosse andato in letargo, a parte me. Così svolazzavo da un ramo all’altro, nelle fredde giornate di fulgido sole, perfettamente mimetizzato con l’acqua di un blu metallico e con il verde intenso del fogliame di qualche albero, che ancora tenacemente, come me perdurava.
Così, un bel giorno, feci un bel respiro e volai via. Le mie ali sono piccole, ma veloci: pensavo ai miei antenati, che in passato avevano compiuto lunghe migrazioni e… ai miei cugini, parenti molto simili a me, che ancora ne compiono. Quando mi era capitato di incontrarli, mi avevano riportato racconti densi di avventure e di luoghi inimmaginabili. Cercavo di far mio, il loro coraggio, non avvertendo più neppure il gelo, per lo sforzo fisico del volo, e per la trepidazione dell’andare verso qualcosa che non conoscevo. Il mio minuscolo cuore batteva all’impazzata, premendo sulle piume del petto. Stanco, verso sera, cominciai a perlustrare un luogo dove potermi fermare, sperando di trovarne uno ospitale. Sapevo che se non fosse stato così, non avrei neanche più avuto sufficienti energie per poter tornare al mio fiume e a quel poco cibo certo che sapevo, poteva ancora offrirmi. Forse avevo compiuto un grosso errore nel partirmene così, su due ali. Avevo d’un sol colpo, attraversato, senza sosta, un bel tratto di Laguna, sfilando via una prima isola, quasi attaccata alla terraferma, desideroso ormai  (dato che avevo compiuto tale scelta), di ricercare un posto lontano da canali trafficati da barche, umani e onde che non fanno vedere i fondali. Non volendo allontanarmi troppo dalla Gronda, ripiegando verso sinistra, oltrepassai una seconda lingua di terra emersa e poi una terza, poiché, anche qui, imbarcazioni dagli scafi bianchi e marroni vi passavano davanti, correndo all’impazzata, facendo ribollire l’acqua.
Alla quarta isola decisi di fermarmi. Deserta, solitaria e silenziosa, si estendeva su di una piccola superficie. Su di essa un’abitazione diroccata, con finestre senza vetri, offriva riparo, consentendo di svolazzare da dentro, a fuori, senza difficoltà. Vi erano piccoli alberi scheletrici, dai rami nudi e numerose tamerici. I grovigli di edera, si spingevano a curiosare fin all’interno della casa abbandonata.
E così trovai la mia salvezza, dato che qui, almeno qualche granchio si sospingeva fino al primo gradino semi-sommerso di un minuscolo molo, dimenticato e abbandonato anch’esso, su questo fazzoletto di terreno.
Tuffandomi scaltramente, riuscivo pure ad afferrare col mio becco, qualche minuscolo gamberetto o pesciolino. Quante ore passai accanto all’ancora arrugginita, che funge da bitta, sugli scalini di pietra, che dall’isolotto degradano in acqua! Osservavo attento, mi immergevo, riuscendo perfettamente a vedere sotto e, catturavo le mie prede.
Per tutta quella stagione ostile, solo di quando in quando qualche gabbiano veniva per qualche ora a posarsi qua, dov’ero finito e a portarmi qualche nuova…
«Una mareggiata, ha fatto spiaggiare numerosi pesci appetitosi, nella a barena vicina!»
«Da una barca è caduto fuoribordo, un sacco di immondizie, pieno di cose gustose.»
E… racconti di questo tipo…
Ma a me i pesci morti non piacevano e neanche i rifiuti degli umani; così il più delle volte lasciavo i gabbiani parlare e parlare e poi tornare da dove erano venuti.
Fu un inverno particolarmente solitario, per quanto lo sia io, già di mio.
La cosa che più mi allietò in quel periodo, fu il passaggio di una barca diverse dalle tante, dalle quali ero abituato a rifuggire. Questa non creava onde e forti spostamenti di masse d’acqua, ma vi scivolava sopra con rispetto, mentre lo scafo in legno cantava con voce armoniosa. Non ero abituato a sentire imbarcazioni intonate e, la cosa mi stupì. Aveva una vela trapezoidale, come non ne avevo mai viste: rossa, gialla e con strani disegni che la decoravano. Non era una barca petulante e chiacchierona, come lo erano i gabbiani. Quasi timidamente, procedendo con estrema lentezza, si avvicinò e poi, senza mai fermarsi, passò oltre, facendosi piccina, piccina.
La aspettai invano, sperando di rivederla nei giorni successivi, scrutando impazienze dalla riva verso l’orizzonte, ma soltanto l’alta marea giungeva puntuale, spargendo sul mio gradino di appostamento, alghe pullulanti di piccoli esseri ancora vivi e brulicanti. Lentamente si ritraeva, consentendomi di scendere più in basso, quasi a toccare il fondale e offrendo alla mia vista ogni forma, prima celata.
Poi, un bel giorno, ero ancora mezzo assonnato, quando mi svegliò un forte gracchiare di più esseri, che parlavano, quasi senza ascoltarsi, tutti assieme.
«Quel bel ramo è il mio!»
«Va bene, a patto che non ci disturbi, se io e il mio compagno facciamo il nido su quello bello robusto, lì accanto.»
«Ragazzi che bel viaggio che è stato, anche se finalmente, mi sa che terrò le ali chiuse per un bel po’!».
Erano garzette: una quindicina, perlomeno, arrivate da chissà dove, dopo aver svernato, decise ora, senza chiedere il permesso, né presentarsi, di impadronirsi della mia isola.
Ne fui indispettito. Invano strepitavo frullando avanti e indietro: «Ehi, scusate tanto! Sono arrivato prima di voi: questi alberi mi appartengono!».
Ma non sono che un minuscolo martin pescatore, che neanche arriva a metà delle zampe di una garzetta, pur ergendomi in tutta la mia altezza. E loro erano in tante… Neanche mi presero in considerazione e comodamente si sistemarono, dove più loro aggradava. In realtà non ho mai ben capito se si prendessero in considerazione tra loro stesse; si sormontavano con voci stridule, senza apparentemente ascoltarsi. È proprio vero che nel mondo dei volatili, spesso quelli più belli, emettono suoni sgraziati. Forse per una legge di compensazione. Loro, le garzette, dovevo ammetterlo proprio, erano eleganti, così lunghe affusolate. I maschi, in livrea, sfoggiavano un paio di piume dritte e sottili che si allungavano dal capo. Ma una era la più bella tra tutte. Probabilmente era una femmina giovane, poiché, non si indaffarava come quasi tutte le altre nella costruzione del nido. Se ne stava placida, quasi incuriosita dal fenomeno della marea, a osservare con le zampe semi-immerse il suo perpetuo andirivieni. Di tanto in tanto si girava a guardarmi e mi sorrideva. Ora, se qualcuno crede che gli animali non possano sorridere e che, nella fattispecie questa non sia una prerogativa dei volatili… si sbaglia di grosso. Io li ho visti i cani a bordo delle grosse barche che corrono in Laguna: se ne stanno ritti e frementi in prua: le orecchie per la forza dell’aria, scivolano all’indietro, la bocca si apre e le sue due estremità sono rivolte all’insù, mentre la loro lingua ciondola dondolata dal vento. Essi sorridono, perché amano esattamente come me, volteggiare sopra l’acqua. Anche noi uccelli sorridiamo: lo facciamo strizzando i nostri piccoli occhi e alzando di un poco il becco. E posso giurarlo, che quella candida creatura si voltasse, talvolta, rivolta proprio verso di me, rivolgendomi sguardi amichevoli e affabili. Con il tempo cominciai a tollerare le nuove venute, anzi, non appena mi risvegliavo, il primo pensiero era rivolto verso la dolce giovane garzetta. Chissà se presto avrebbe fatto capolino, per passeggiare assorta sulla riva dell’isola che condividevamo. Finché ciò non avveniva, sentivo una specie di inquietudine, che mi spingeva a gironzolare in lungo e in largo. Avevo pace solo quando, più o meno casualmente, alla fine la ritrovavo, anche se all’inizio, quei pochi istanti prima di riabituarmi alla vista delle sue aggraziate forme, il cuore cominciava a pulsarmi forte, forte. Proprio come in quel giorno d’inverno, quando, pieno di timore, ero partito via dal fiume qualche mese prima.
Passò l’estate e poi l’autunno: la colonia si era ingrandita per la nascita di nuovi esemplari, ma ormai era già tutta in fermento: rimbalzavano frasi riguardanti un’ imminente partenza, ma come al solito, erano caotiche perché io potessi dedurre a pieno, per dove e quando. In quei giorni, la mia ansia, alla mattina era più pungente, fino a quando non trovavo conferma, che la garzetta solitaria non se ne era ancora andata e, la ritrovavo, serena come sempre. Un giorno, finalmente, mi si avvicinò e mi confidò con semplici parole: «Sto per andarmene, ma sai ti voglio bene!».
Cosa non avrei dato per poterle rispondere: «Anch’io tantissimo. Resta con me, non partire: ti mostrerò tutti gli incavi della casa abbandonata, dove non ti sei mai avventurata e l’edera che vi si intrufola dentro. Oppure se vuoi, voleremo fino al mio fiume: in alcuni punti sembra una giungla rigogliosa e grossi cefali lo popolano. O ancora, potremo esplorare assieme altre isole, prima di questa: ce ne sono ben tre da scoprire, totalmente disabitate. Ma se preferisci partirò io con te fin dove vorrai, perché di bene te ne vorrò per sempre.».
Ma sapevo che le mie piccole ali di martin pescatore, non avrebbero mai potuto sostenere il suo volo e le sarei stato solo d’impedimento. Una legge diceva che, per quante tonalità sfavillanti assumessi, non avrei mai potuto incrociarle con il candore di una garzetta. Quindi tacqui, nascondendo dietro ad un sorriso, con il becco all’insù, il groppo che sentivo alla gola. Amare talvolta significa anche tacere, per non destabilizzare.
La lasciai partire, assieme alle altre sue compagne.
Ora, per lunghi periodi, osservo le maree avvicendarsi, nell’attesa e nella speranza che ritorni un giorno. Nel frattempo, da un po’, sono tornato a rivedere spuntare in acqua, la piccola barca di legno con la colorata vela trapezoidale. È un po’ più spavalda di una volta, quasi abbia preso più coraggio. Scivola verso una una direzione… poi sembra volteggiare e prenderne improvvisamente un’altra, per poi tornare a quella precedente. Pare quasi compiere una strana danza sull’acqua: la guardo incantato e per un po’, prima che torni a svanire all’orizzonte, mi tiene compagnia.
Poi arrivano i gabbiani, chiacchieroni.
Quando mi stanco di tutto, compio brevi voli: mi piace sfidare l’acqua della Laguna, per vedere nei tersi giorni invernali chi dei due, tra di noi riesca a sfoggiare il blu più sfavillante. Ma non mi allontano mai troppo: una parte di me La aspetterà per sempre.

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