Angelo Coco
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Angelo Coco
(Potenza 1957), Attualmente vive a Messina.
Dipendente del Ministero dell’Istruzione e del Merito, ha svolto attività giornalistica collaborando con i quotidiani “Umanità”, “La Sicilia”, “Giornale di Sicilia”, “Gazzetta del Sud” e con il settimanale “Centonove”.
Ha vinto numerosi premi letterari fra i quali vanno ricordati: “Croce d’Oro-Città di Gala”; “Premio Internazionale Valdagrò”;,“Penisola Sorrentina”; “Colapesce”; “La Musa d’Oro”; “Città di Leonforte”; “Il Golfo-Città di La Spezia”; “Rhegium Julii”; “Corinna Angelucci”; Premio Int.le “Lagunando”; “Dario Galli”; “Mata e Grifone”, Premio Int.le “Città di Cefalù”.
Già presente edizione:
“Leggere lagune”
Poesia
(dalla silloge “Geografie Parallele”)
UNA GIORNATA A TREVI
LA NEVE SU PRAGA
FOTO DI CLASSE
UNA GIORNATA A TREVI
I.
Il sole è uno sputo adagiato senza confini,
un graffio asimmetrico maturato sul verde digradante,
al centro, sulla collina di fronte, ai piedi dell’impalcatura
che ingabbia nel silenzio che si porta dentro
l’odore della pioggia, il luogo dove la Parola
ora non ha più spazio, bussa
– costante presenza
come le gocce che ieri sera spillettavano il viso
di noi erranti per la piazza,
troppo spenti in una presunta veduta
punteruolo di umori nel fumo dei camini –
gettando fondamenta fra le ombre che calano.
La macchina che transita alle spalle
vivisezionando lo spazio che mi divide
da un secolo diverso
e da una guerra che non m’appartenne,
dai nomi a ricordo anche mio
che non conosco nulla di questa terra
se non quello che gli occhi immagazzinano per la mente,
si trascina dietro le note di una canzone dei Coldplay,
s’arrampica di getto e poi s’imbudella per la discesa.
Le date impresse nel marmo cerchiano i resti
che danno il profumo all’aria che respiro adesso,
in piedi, in quest’ora che non s’assottiglia
nel suono della campana
– frammento che scavalca l’intero paesaggio
si perde nell’eco di vuoti giovanili
nella verifica di percorsi accennati
in quei motivi lenti che sembravano di recitazione –.
La traccia è lieve
di quelli che hanno varcato soglie nel buio o fra la luce
disseminati o disciolti per campi di neve in patrie d’altri
nello sfiorire di una ghirlanda
agli inizi commemorativi di novembre.
Il monumento ha fiori che germogliano
in questa stagione quando tutto muore
quando in appena un sospiro
rimane una gioia sospesa.
Non ho nemmeno da spiegarmi come mai
mentre affondo le mani nelle tasche
il pensiero corra e rincorra senza una particolare vocazione
cose che magari non mi dico più da anni.
Avrebbe un senso chiedersi
quando e perché fu la prima volta
o magari nell’anatomia di un tragitto
lungo una tappa intera quanto una vita
convincersi che mai ogni cosa
– questa cosa particolare
che palpita dentro
a volte brucia la presunzione
di dare una versione modificata
a uno schema standard –
ha avuto un inizio definito?
Ci sono voci
– le ho ritrovate (quasi per caso?)
scostando le tende alla finestra della stanza d’albergo
ieri sera prima d’infiocchettare il sorriso col vento
setacciando nel grigio dell’ombra
la dimensione del silenzio –
delle quali odo come un sibilo
i significati non più nascosti,
gli abbracci che amiamo
vivendo nel freddo claudicante,
indecifrabili clochard ai margini di un incendio;
hanno origini remote negli anni,
seguono le scie di tanti cammini
– quando sentivo parlare dei tre/re magi
con la mente compivo alcune operazioni girovaghe
coniugavo tutto con qualcosa che solo la fantasia
riusciva a rubare al tempo per consegnarla ad altro tempo.
Non era e non sapeva di vuoto.
Stavo ad ascoltare snocciolare litanie…
e i suoni e i canti dei pastori… –
e degli incantesimi che ora
non si fanno più obiettivi.
Mi pare pure friabile il motivo
per il quale adesso mi trovo a sfiorare
le ore immobili, conosciute
ma in cantieri di altra origine.
Camminando, l’attesa si fa lunga,
scortica persino il sorriso degli anziani, seduti,
che raccolgono la lentezza del nostro andare.
Neanche la pioggia ha colore.
Ha assunto quella patina lieve
tra il visibile e l’invisibile
di quando il sonno, con moto circolare,
comincia a fiorire di impronte e segni insistenti
i suoi percorsi.
Stanno a ripensare e ripetere gesti e frasi
e chissà se a qualcuno di loro transita
ai margini di un abbozzo di sorriso
il lineamento di un volto estratto
dall’alfabeto degli ex compagni del ’25,
un’informazione di quasi identità e germinazione
come quelle lunghe genealogie di nomi e stemmi
incastonate nel fondo della superficie
dove resistono e s’accede a immense,
segrete storie di cose, uomini e case.
LA NEVE SU PRAGA
I.
Seduto a un tavolo del Restaurace U Fleku, a Praga,
ascoltando la leggenda di Dalibor.
Dovrei raccontare di altri secoli passati eppure non so
se le cose siano andate per come le ho sentite,
lette e immaginate ascoltando accordi e voci
sussurrando sempre un’idea di base che alla fine
e prima di ora ha maturato certezze fra sentieri
spesso inariditi. Cerco di ridiscendere fra i gradini della torre
per arrivare fino in fondo, al centro di quel confine
dove inginocchiate stanno cose giuste sotto una scure
che non rende mortale ciò che transita nel cuore di un popolo.
Certe carte non sanno di nulla, non hanno vita,
non mantengono un punto preciso per la memoria
sono appunti che soltanto assopiscono il silenzio.
Oh, sì, la mente e il cuore, il diventare e l’essere…
Nel cuore è lo spunto per ogni odio e amore,
risiede tutto, dapprima inascoltato, un vuoto poi ripreso
e riempito come l’enorme boccale di birra depositato
qui sopra il tavolo, calibrato fin sull’orlo di schiuma.
Sediamo accanto l’uno all’altra
e insieme ad altri sconosciuti
in una stanza che non so che nome abbia
– potrebbe anche essere quella del Cavaliere –,
inseriti in una cronologia
che ha un suo andamento frenetico
cominciando dalle sette di sera.
Faccio finta che niente sia cambiato e che le parole
abbiano ali, attraversino le distanze indisturbate
e portino assalti, battaglie, racconti di lontani dolori
che restano soltanto perché hanno bisogno che altri sappiano.
“Sul ponte Carlo, nel sole di metà mattino, un’orchestrina
cantava leggende immutate nel morire e rinascere del tempo,
infilava nel curioso del lento transito le note di un violino,
quelle vibrazioni che scatenavano ansiosa materia di ricerca”.
Il primo?
Non sempre è sinonimo di migliore, di essere accolto
col trionfo, di occupare spazi non ad altri riservati.
Nella torre forse non c’è più una speranza, esili appigli
che spalanchino portoni, risalgano alla luce occhi e anima.
Non c’è un tempo per una morte come non ne esiste uno
per un’azione, per mutare il ritmo del proprio sentire
in una stagione dove spunta un seme.
Lavarsi le mani è un modo antico di falso sconcerto,
quel prendere inutilmente la distanza da un qualcuno
o da un qualsiasi evento, affossare con ghirigori di parole
o dimenticanze, pesi e memorie che saranno.
Non decidere, non esprimersi, equivale a paura,
a catalogare nel nulla il proprio essere, un regno,
la gente che attende un’azione che non sia indegna.
“Non so cosa sia giusto, se il precipizio o il limbo,
se sentire la voce che mi germina dentro o soffocare,
ignorare, lasciare che le cose abbiano un loro corso,
stare ad aspettare che sia il tempo, nel suo trascorrere,
a decidere, a mettere ordine in questo mio vivere dibattuto”.
FOTO DI CLASSE
I.
Ritrovo tutto della foto di classe che credevo smarrita e sbiadita,
financo gli odori, residui della partita, durante uno spazio commovente
di piccoli intervalli di corse e giochi nel cortile, una voglia mai spenta
dell’anima come fughe in un quadro futurista.
Siamo rimasti ad arrampicarci per i gironi della vita,
con pazienza, spostando e attraversando ostacoli, l’essenziale
della parola, di qualcosa germogliato e in attesa di frutto. E a te, perso
nell’eterno mezzogiorno, ricorderò del primo incontro
e tutto il resto affiancato come gentile compagno.