Davide Rocco Colacrai
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Davide Rocco Colacrai
Partecipa da sedici anni ai Concorsi Letterari e ha conseguito oltre mille riconoscimenti, anche internazionali, tra i quali quattro Premi alla Carriera, due volte la Medaglia d’oro per la Poesia conferita dall’AIAM, un Premio al Merito Culturale conferito dalla Universum Academy Switzerland e la Medaglia del Presidente della Repubblica.
È stato confermato inoltre Ambasciatore del Premio Nosside nel mondo anche per il 2024. D come Davide – Storie di plurali al singolare è il suo decimo libro di poesia.
Sue poesie sono state tradotte in tedesco, francese, inglese, spagnolo (per Spagna e Messico), cinese, russo, albanese, turco, polacco, montenegrino e in lingua bengali.
PRIMO CLASSIFICATO
POESIA -Silloge-
“Leggere lagune”
Poesia
dalla silloge:
"Leggendo Colacrai in una sera d’autunno"
-versi di malinconia e perdono-
Firenze, 1977
Gli interrogativi che l’amore mi fa piangere / Bambino Gesù
La segreta genealogia della fragilità – dedicata a Mario Mieli
(appendere il canto alle fragilità)
Eva ha due papà
(apostasie senza lancette)
Mimì sarà – in memoria di Mia Martini
-contrappunti (comuni)-
Firenze, 1977
Abitavamo nei dintorni del Ponte Rosso,
un pugno di periferia
umido come la nostalgia quando cola di stelle
e grigio quasi fosse stretto
in un cappotto di lana che si esauriva nei troppi anni;
eravamo quattro studenti da quattro province,
come madre un appartamento di sinistra, indefinito nella sfumatura,
spoglio e dalle promesse morse
dove al moto di sogni che bruciavano
forgiavamo nella forma e nel significato il nostro smarrimento:
qualcuno consolava il senso del proprio caos
con le pagine di Hegel e Heidegger
tra i corridoi umidi di fantasmi di Filosofia,
c’era chi studiava Medicina
ed era di poche parole, precise come lo struggimento del fuorisede,
altri ancora insistevano con i manuali di Diritto
per rincorrere un ideale
di cui sempre più spesso dubitavano.
Erano anni in cui i versi d’amore, spesso in rima, si scontravano
con la voce delle chitarre in protesta
e con le costellazioni sperimentali del suono:
tutti alla ricerca di un’educazione diversa, e il più lontana, da quella dei padri
molti improntavano la loro vita con pensieri che sublimavano:
di critica e di scommessa, di rivoluzione
e d’anarchia, e sembrava che il tempo non bastasse mai
erano anni in cui giravamo per le strade nude e sterili della notte
con l’Alfasud a farci da eco.
Eravamo uniti dalla paura di diventare adulti:
ognuno nella sua apocalisse al mondo
con uno dei Quaderni dal carcere in una mano,
Taxi Driver nel cuore e una sigaretta tra le labbra.
Gli interrogativi che l’amore mi fa piangere / Bambino Gesù
(Poesia ispirata al libro La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli, Mondadori, 2018)
Ho cercato Dio negli spazi d’amore
circoscritti dalla ruggine di una lacrima che concimava l’alba
mentre bruciava in silenzio
come brucia di sogni abbandonati la pioggia
quando svanisce nel Tevere
alcuni in ombra
stretti negli interrogativi immacolati della venticinquesima ora
quasi fossero fratelli per un gesto di pietà
altri morsi da labbra
protese in una lama evanescente dell’orizzonte
a cui solo la notte svelava la creazione
c’erano troppe storie
che si consumavano umide di preghiere che il ventre rifiutava
storie che premevano al roseto delle parole
mentre si accumulavano carne a carne
in un cuore stretto a pugno
storie sospese dal fiammifero del tempo
negli occhi in cui dell’universo
si spegnevano molli le ultime costellazioni
troppe storie ancora
in attesa.
Ho cercato Dio in quel lieve guscio azzurro di bambini
per i quali ero io Dio
l’eroe che avrebbe capovolto l’infinito come profezia
quando faceva capolino in un’acrobazia da coccinella nella rugiada
il padre che avrebbe tolto i chiodi al tramonto
quando crocifisso e senza incanto
nominava spezzandolo il figlio del giorno
e ho cercato Dio in me stesso, nel viavai del mio sopravvivere
e delle mie promesse
nel pane dei miei ossimori, e anche nell’uomo che.
La segreta genealogia della fragilità – dedicata a Mario Mieli
(appendere il canto alle fragilità)
Appendo la mia croce alla notte
dove si allungano le ombre e si scioglie la mia nudità
tra bocche che crepitano come foglie d’autunno
il loro desiderio ad un sussurro
che coltello non è,
ogni bocca un talamo al cielo
che fiorisce di spine
per il mio nome che s’infrange liberamente
dove le stelle attendono,
ed io conto i chiodi
che ho tolto alla mia sorte
per celebrare il mio messaggio d’amore
nel fumo che si contorce come una serpe,
tra una sigaretta e l’altra,
da cui sembra svelarsi l’orizzonte come rondine al tramonto
mi scordo del mio corpo
e offro in matrimonio al mondo
in un brindisi che sa d’incesto e brivido,
ogni sigaretta una preghiera
alla pagina di un libro che mi risponde
prima che diventi carne
e il mio silenzio fragile come uva
e brucia il mio sangue
in un roveto di chiodi con cui assolvo l’uomo che sono
per le coordinate di nuova razza.
Appendo la mia croce alla notte
e sento spuntare dai miei fianchi umidi come scogli un’alba
che vince il Giuda stretto in questo sogno
un alito d’inconsolabile follia.
Quasi fossi una sposa prigioniera della propria innocenza.
Eva ha due papà
(apostasie senza lancette)
È un istmo che salda due sogni d’uomo, Eva,
in un’ora d’acqua
indefinita come l’orizzonte,
nel suo aver bucato la parentesi di due vite in un cuore
e aver smosso zolle di preghiere
terra dopo terra
sangue a sangue
a forgiare molliche di carne in un corpo di donna,
dove l’ambra di un’alba esilia l’ombra
al nutrirsi instancabile di due api
della polpa che i grappoli penduli di un glicine
portano in grembo.
È il nome che si compie, Eva,
in una perfetta simmetria d’amore
dove tutte le variabili di due uomini combaciano,
nel suo aver tracciato la spuma congiunta di un’esistenza
e aver destato le lancette di un brivido
cielo dopo cielo
miele a miele
a liberare la radice di due semi in una nuvola d’argilla,
dove il vento accorda la sua voce d’arpa
al germogliare instancabile dei colori di Dio
che tingono il corpo al buio
di una notte d’airone.
È l’approdo di una magia esausta di silenzio e attesa, Eva,
morbido di rugiada
dall’odore della neve.
Mimì sarà – in memoria di Mia Martini
-contrappunti (comuni)-
Sono una Venere delle acque del Sud
dove i pescatori vivono il silenzio
secondo la propria fede,
dove i sogni vengono modellati dalle mani di madre
che non nascondono,
dove chi cerca trova sempre
anche la verità quando è una pietra che ferisce
e la luna osa farsi onda
che ascolta.
Come una sirena mi dichiaro più con il corpo
che con la parola,
non credo nel destino, nella violenza di una finzione,
nella mia voce c’è tanta carne,
troppo sangue
e tutte le ossa strette nella nostalgia mediterranea, e senza forma, del cuore
c’è il mio sentire che si allunga al mondo
e si rivela, si snuda e commuove
secondo gli impulsi del dolore ma con premura,
quasi in punta di piedi
come la scia di una stella prima di crepitare,
nell’assolo di una poesia
ogni poesia una storia che ho addosso,
ogni storia la mia confessione, il moto primordiale della mia razza,
il mio tentativo d’amore, di amare la donna che sono
e cantarne la libertà come il mare canta la sua
nella vocazione all’infinito
e comunque di ritorno alla propria terra.
Sono una Venere con un corpo d’acqua,
forte come il Sud,
fragile come il suo testamento prima del tramonto.