Vai ai contenuti
Paola Pozzolo
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Paola Pozzolo Barbaro
Genovese, 59 anni, dal 2018 vive stabilmente a Cavallino Treporti, dove lavora, impiegata presso la pubblica amministrazione.
Laurea in lettere con indirizzo artistico, da sempre appassionata di storia, con particolare riferimento al Medioevo e al Rinascimento.
Scrittrice per hobby, con diverse auto pubblicazioni, con “Un caso di Serendipità”, primo romanzo, ha conseguito il secondo posto nella categoria romanzi del concorso internazionale “Lagunando” 2021.
Divide il suo tempo libero tra Venezia, scenario delle sue storie, Genova, città natale e Mondovì, città d’adozione, dove vive attualmente l’unica figlia.
Già presente edizione
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE ROMANZI
Paola Pozzolo
“Orti dei Dogi”
Romanzi
Sinossi

Ci sono regole che accettiamo con fatica, esattamente come esistono regole che invece diamo per scontate.
Camminare a destra è la regola d’oro, la regola per eccellenza in una città come Venezia, dove la maggior parte delle calli è talmente stretta da impedire il transito di più di due persone.
Lo sa bene Daniela, anche se non è veneziana e lo sa bene il suo strano inseguitore, Nane, discendente del nobile Andrea Gritti, doge della Serenissima.
Sembra però esserne a conoscenza anche un altro personaggio, una lugubre figura, retaggio di quegli anni di piombo che Daniela ha vissuto sulla propria pelle, lei, figlia di poliziotto a Genova, durante l’epopea delle Brigate Rosse.
Camminando lungo le calli, tra improbabili appostamenti e inseguimenti, la storia, che prende il via di fronte al Martirio di San Lorenzo di Tiziano, presso la chiesa dei Gesuiti, si dipana, lentamente, agli occhi di Daniela e dei suoi amici del Commissariato di San Lorenzo, Maria Luisa e Barnaba, in un’alternanza di scenografie veneziane e paesaggi liguri.
Una regola, un dipinto, una storia.



LA REGOLA DELLA DESTRA

PROLOGO

Appartenere a una società significa accettarne anche le norme che il vivere comune impone.
Ci sono regole che accettiamo con fatica, esattamente come esistono dettami che invece diamo per scontati.
Io non ho idea se la regola del camminare tenendo la destra valga ovunque noi ci si trovi.
È certamente la regola per eccellenza in una città come Venezia, dove la maggior parte delle calli è talmente stretta da impedire il transito di più di due persone.
È una riflessione che spesso torna alla mente, in particolare nei giorni in cui l’afflusso dei tu-risti è maggiore e camminare, per calli e ponti, può farsi vera sofferenza.
Il vaporetto sta correndo veloce, per una volta però, non indugio a osservare i colori e la la-guna che scorrono. Il capo abbassato, lo sguardo fisso sul dorso delle mie mani, appoggiate sulle gambe.
Sono mani mature, la pelle non più tesa, si intravede il blu delle vene sotto la pelle sottile, le prime macchie della senilità.
D’improvviso le mani di mia madre si sovrappongono alle mie, gli occhi si velano al ricordo dell’ultima volta che le ho strette, nell’ultimo saluto, io e lei, sole, in una mattina di settembre.
Poi, altre mani compaiono davanti ai miei occhi, frutto della mia fantasia. Sono dita antiche che corrono rapide sulla tela, lasciando segni di colore.
Forse, anche colui che muoveva febbrili quelle dita, intento a creare un capolavoro, avrà riflettuto su quanto le sue erano le mani di un vecchio, prossimo all’oscurità, ma sapeva anche che quelle dita lo avrebbero consacrato all’immortalità.
Una regola, un dipinto, una storia.


Capitolo 1

UN FEMMINICIDIO E UNA PALA D’ALTARE COME PRECE

È il 1548, un uomo, anziano, cammina lentamente, è un personaggio famoso, si chiama Tiziano, Tiziano Vecellio, ha 60 anni, la vita gli ha dato moltissimo, ma ha anche preteso un pesante tributo, Cecilia, la sua adorata moglie.
Era così preso dalla sua arte, così concentrato sulla sua gloria personale e professionale, lui, che nel 1516 era già pittore ufficiale della Serenissima, da non accorgersi dell’amore profondo e incondizionato di sua moglie, che, pur consapevole dei rischi che avrebbe corso, accettò di portare a termine la gravidanza, la terza, perché lui desiderava ardentemente quel terzo figlio.
Cecilia non sopravvisse al parto, abbandonando al suo dolore un uomo che solo grazie alla morte comprese quanto profondo fosse il suo amore per la moglie. La dipinse in più occasioni, cercava di conservare con la memoria delle sue opere, i lineamenti delicati e i colori luminosi della donna.
Erano trascorsi 18 anni da allora, aveva superato abbondantemente quello che Dante nella sua Commedia definì “il mezzo del cammin di nostra vita”, un’età importante, non sono molti gli uomini che raggiungono tale traguardo e lo superano.
Erano stati anni proficui, sia per la sua arte, che per le sue attività commerciali, era un uomo ricco ma solo, troppo solo, pensava, mentre dal suo atelier in San Samuele rientrava verso la sua abitazione, a Ca’ di Biri.
Prima abitava ai Frari, ma da quando era morta Cecilia non aveva più voluto saperne di continuare a vivere lì.
Dalla morte della moglie aveva vagato per tutte le corti europee, dalla corte imperiale, a quella spagnola, a quella vaticana.
Era tornato a Venezia, con l’intenzione di restarvi, se non per qualche sporadico viaggio nella terra natìa.
Ora aveva una casa con un grande giardino e dal loggiato poteva vedere le montagne del Cadore in lontananza, si sentiva più vicino alle sue radici.
Un sospiro, prima di entrare in casa uno sguardo al cielo grigio piombo, riflesso nella laguna, grigio e pesante come il suo animo.
La governante aprì la porta, «signore, la nobile Elisabetta Querini vi attende nella sala grande, ha già domandato più volte quando sarete rientrato»
Tiziano annuisce, lei e il marito appartengono alla cerchia letteraria che anche lui ha avuto modo di coltivare, complice la sua profonda amicizia con Pietro Aretino, l’ha anche ritratta, è una donna molto bella, colta e intelligente, brillante nella conversazione, sono diventati amici ma cosa può volere ancora da lui, per presentarsi a casa sua e per giunta da sola, come se non bastasse il discredito e l’ombra nera e cupa che il figlio Pietro Paolo ha gettato sull’intera famiglia.
Isabetta, come la chiamano nel loro circolo di amicizie colte, era una bellissima giovane e ora è una donna splendida, nel pieno della maturità, anche se la vita l’ha segnata con dolori indicibili.
Tiziano osserva l’amica di ieri e di oggi, ha i capelli chiari, raccolti a scoprire l’ovale perfetto del volto, incorniciato da una folta treccia, ha orecchie piccole e attaccate al capo, occhi scuri e profondi, bocca carnosa e regolare, un incarnato di alabastro.
Indossa una veste di velluto di seta blu con una gonna vaporosa, regale: fili d’argento corrono lungo l’ampiezza dell’abito, apparendo e scomparendo tra le pieghe del tessuto a ogni movimento, pare che la stoffa goda di vita propria. La profonda scollatura quadrata, che scopre anche le spalle, è mitigata da un lieve velo di prezioso pizzo, mentre le maniche sono imponenti, a sbuffo e arricciate, del medesimo colore dell’abito, con inserti di pizzo ai polsi.
«Madonna, spero non sia da molto che attendete, avessi saputo della vostra visita mi sarei affrettato», l’implicito e velato rimprovero sembra non colpire minimamente la donna che, in piedi, nella medesima posa in cui l’ha ritratta, con lo sguardo osserva oltre i delicati vetri di Murano.
Tiziano sa che deformano leggermente la realtà del paesaggio ma forse lei ha necessità di vedere una realtà diversa da quella quotidiana che la circonda.
«No messer Vecellio, non è molto che vi attendo, ad ogni modo, ciò che si vede dalle vostre finestre è appagante per lo spirito», soprattutto per un animo tormentato come il suo, non lo dice ma le parole sono nell’aria, pesano come piombo.
«Cosa posso fare ancora per voi madonna?», Tiziano non ama i convenevoli, a quelli pensa già il suo amico Pietro Aretino.
«Sono trascorsi 11 anni Tiziano, 11 lunghi e penosissimi anni ma Stefano Trevisan ancora non perdona»
Il pittore tace, ricorda quell’episodio così efferato e di cui non si venne a capo, che scosse tutta la città, lasciandola incredula e affranta: nella primavera di quel lontano anno il figlio di Elisabetta, Pietro Paolo, allora diciannovenne, aveva sposato la bellissima Chiara Trevisan, un matrimonio combinato tra le famiglie, come si usava tra nobili; si era parlato molto di quel matrimonio, anche per la dote formidabile che la giovane aveva portato, 4.000 ducati, una somma enorme. Nessuno però avrebbe mai immaginato cosa sarebbe accaduto di lì a due mesi.
Senza un motivo apparente, Pietro Paolo aveva ucciso la moglie con ripetute coltellate per poi fuggire precipitosamente dalla laguna.
Si era trattato di un delitto feroce, compiuto con brutalità e inaudita violenza, la povera Chiara era stata rinvenuta nel talamo nuziale, coperta del suo sangue, con il volto sfregiato da innumerevoli coltellate, lo strazio dei genitori era stato grande, a nulla erano valse le preci e le scuse di Elisabetta e Lorenzo, d’altronde come si poteva perdonare l’esecutore di una tale efferatezza?
Il Vecellio ben sapeva che la Repubblica sarebbe stata inflessibile, la Quarantia Criminal emise infatti la condanna alla pena capitale, se Pietro Paolo fosse rientrato nei territori della Serenissima, sarebbe stato catturato e squartato vivo.
Da subito Elisabetta e il marito Lorenzo cercarono di ottenere il decadimento della pena, insieme al tentativo di sanare il rancore della famiglia Trevisan, come se questo fosse stato possibile.

(continua)
Torna ai contenuti