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Luca Bertini
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Luca Bertini

Ho cinquantacinque anni, sono sposato con un figlio e lavoro presso il comune di San Giuliano Terme, all’ufficio tecnico.
La passione per la scrittura ha attraversato varie fasi della mia vita, in cui ho sperimentato varie forme compositive.
Da alcuni anni ho ripreso vecchie idee, a cui se ne sono aggiunte di nuove.
Da più di vent’anni seguo una costante pratica meditativa come allievo di Raja Yoga.
La passione per la scrittura ha attraversato varie fasi della mia vita.
Partito con la sperimentazione di forme teatrali nel corso degli anni sono arrivato alla composizione di racconti brevi e sto sviluppando idee più complesse.

“Orti dei Dogi”
Narrativa
“Ciò che so sulla morale, lo so grazie al calcio”  (Albert Camus)


CARTAVELINA





È il ventisei di gennaio e sono passate da poco le otto di mattina.
Alle dieci ci sarà il funerale di Matthias Sindelar.
Fra pochi minuti arriverà il tram che mi porterà vicino all’Hauptbahnhof Ost, da dove ne prenderò un altro per il quartiere di Simmering e da lì arriverò a piedi fino allo Zentralfriedhof, dove ci saranno le esequie funebri.
Vicino a me c’è Karl Sesta.
Sì, proprio lui. Quel Karl Sesta, quello che realizzò l’ultimo gol del Wunderteam.
L’ho conosciuto dopo che mi sono trasferito nel suo quartiere con i soldi del calcio, prima lo vedevo solo sul campo. Lui era assieme a Sindelar con la maglia dell’Austria Vienna, insomma con quella dei “violetti”, e io con quella del Rapid.
Ho l’impressione che stamani sia particolarmente freddo e quest’aria gelida ci sta dicendo che avremmo fatto meglio a restarcene dentro a un Cafè, a farci una bevuta o a prendere qualcosa di caldo.
Anche Karl Sesta ha freddo, lo vedo dal modo in cui si è rialzato il bavero del giaccone e da come tiene rintanate le mani nelle sue tasche.
Attorno a noi c’è un discreto numero di persone, stanno aspettando tutte il tram, e forse qualcuna verrà con noi fino allo Zentralfriedhof.


La notizia della morte di Matthias Sindelar è apparsa in prima pagina su tutti i giornali viennesi due giorni fa.
Il suo cadavere l’hanno trovato la mattina del 23 gennaio accanto a quello di una donna, che si chiamava Camilla Castagnola. Alcuni dicono che sia un’ebrea di origini italiane che faceva l’infermiera a Milano e che l’abbia conosciuta durante i mondiali italiani nel ’34, quando s’infortunò, altri che era solo la sua ultima fiamma e che non fosse neppure italiana, ma una viennese che per chissà quale motivo aveva mantenuto il cognome del marito.
Scrivono che siano morti per una fuga di gas, causata da una stufa difettosa, e che la loro morte è avvenuta per inalazione di monossido di carbonio.
Karl Sesta sostiene che invece l’abbiano fatto fuori loro, i nazisti, e che poi abbiano tirato fuori la messinscena della fuga di gas solo per le apparenze. Me lo ha ripetuto anche pochi minuti fa, in mezzo alla gente che ci stava accanto e che avrebbe potuto ascoltarlo.
Non lo so, questi sono tempi in cui non ci si dovrebbe fare troppe domande e io non sono venuto per farmele, ma solo per assistere alle esequie di un uomo che ho affrontato decine di volte su un campo di calcio.
Quando penso a lui lo vedo in calzoncini bianchi, con la sua maglia di lana di color viola, davanti a me, dall’altra parte del campo.
Non riesco a ricordare altro, una risata, una bevuta, una volta che si sia andati assieme a donne.
Tutto quello che posso dire è che con la sua morte è rimasto solo il ricordo del Wunderteam, delle sue vittorie, di quando riuscirono a vincere la Coppa Internazionale e ci sembrò di essere in capo al mondo e per una volta ci si sentì orgogliosi di far parte di questo paese.


Il tram è quasi pieno e abbiamo trovato gli ultimi posti a sedere disponibili.
Poi, Karl Sesta si è alzato alla fermata successiva per far sedere una signora e ora si regge ad una delle sbarre verticali vicine al portellone di uscita.
Lo seppelliranno all’interno dello Zentralfriedhof, come hanno fatto per tutti i grandi musicisti e per le persone che hanno significato qualcosa per questa città.
Dicono che ci saranno migliaia di persone, forse anche di più e non potrebbe essere diversamente anche se è un giovedì mattina di fine gennaio.
Ieri correva voce che gli avrebbero fatto un funerale di Stato, da vero nazista, perché ora che siamo diventati la provincia dell’Ostmark e facciamo parte del Grande Reich tedesco, bisogna pensare come se lo fossimo sempre stati. Poi, a sera ho saputo che non gli avrebbero fatto nessuna esequie solenne, perché dicono che si sia suicidato e c’è una legge che le vieta per chi si suicida.
Comunque ci saranno anche loro, con i loro giacconi in pelle nera e le svastiche in bella vista.
Magari il funerale da nazista glielo faranno veramente, che poi a pensarci bene sarebbe da farci due risate perché Sindelar smise di giocare a calcio proprio per non doversi mettere la loro maglia e gli combinò un discreto casino durante la partita dell’Anschluss e, insomma, non ce lo vedresti proprio nei panni di quello che si è meritato un funerale da nazista.


Oggi sembra che le fermate non finiscano mai.
Attorno a me passano luoghi dove non sono cresciuto e di cui mi ricordo a malapena l’esistenza.
Io vengo dall’altra parte della città, dai quartieri operai, dove dopo la guerra c’erano gli operai, i socialisti e il Rapid.
Ora ci sono rimasti solo gli operai e il Rapid, i socialisti non ci sono più.
Mio padre era socialista e lo è stato fino all’ultimo, fino a quando Dollfuß non represse l’ultima rivolta nel sangue e mise al bando tutti i partiti, tranne il suo.
Io ho sempre pensato a giocare a calcio e l’ho sempre fatto per il Rapid.
Sindelar l’ho conosciuto quando mi chiamarono in nazionale.
Lui era già il campione, l’uomo simbolo della nazionale e dell’Austria Vienna, io ero solo uno dei migliori della squadra che quell’anno vinse lo scudetto.
Non lo so quando sia nata la rivalità fra noi del Rapid e loro, l’Austria Vienna non era l’unica squadra dei quartieri borghesi, era solo quella della borghesia ebraica ed è per questo che ora i nazisti la chiamano “la squadra degli ebrei”.
Forse nacque solo perché noi eravamo una squadra forte e in quel periodo lo erano anche loro, così si guardava sempre a quello che facevano quando ci si scontrava per il titolo.
Con la nazionale avevo chiuso prima del mondiale del ’34, così non mi chiamò nessuno quando i nazisti ci chiesero di giocare per la Germania.
Credo che si fossero fatti l’idea di poter vincere il mondiale del 1938, ma gli andò male.
Il primo a cui lo chiesero fu Sindelar e fu anche il primo a rifiutarsi.
Dopo di lui ce ne furono altri due e per ultimo si rifiutò anche Karl Sesta. Mi raccontò che ebbe persino il coraggio di sorridergli in faccia, mentre gli diceva che la loro maglia non se la sarebbe mai messa.
I nazisti non la presero bene, a dirla tutta non l’hanno mai preso bene un rifiuto, ma Sindelar era intoccabile, anche per loro, per tutto quello che rappresentava, gli altri due espatriarono subito in Francia e alla fine gli rimase solo Karl Sesta.
I nazisti non gli dissero nulla, non lo affrontarono faccia a faccia, perché Karl Sesta è uno tosto, che una volta ha messo a terra anche un campione di wrestling durante una trasferta in Grecia.
Un giorno la Gestapo prese suo padre, con la scusa che dopo la guerra si era iscritto al partito socialista, e lo tennero per qualche giorno in caserma, fino a che un mattino fu Karl Sesta che andò a supplicarli di farlo giocare nella loro nazionale.
Suo padre lo rilasciarono subito, ma dopo qualche settimana dopo morì, anche a causa di quelle torture.
Io non avrei avuto il coraggio di fare quello che ha fatto Karl Sesta, se me lo avessero chiesto credo che avrei fatto solo un cenno di assenso con la testa e dopo avrei alzato il braccio destro, come facevano loro perché, quando li hai davanti e sai chi sono, allora hai paura, ma una paura tale da non capire niente, perché sai bene quello che ti potrebbero fare e sai anche che te lo faranno.
Karl Sesta deve essere rimasto in piedi per tutto il tragitto.
Ogni tanto mi sono voltato verso di lui e quando sono riuscito a vederlo l’ho trovato sempre nella solita posizione, che si reggeva ad una delle sbarre verticali vicine ad una delle uscite.
Poi, mi volto e alle case e alle strade si alternano i ricordi, quasi senza un criterio.
Quando siamo arrivati all’ultima fermata prima dell’Hauptbahnhof Ost mi è tornata alla mente una frase di Sindelar.
La disse pochi giorni dopo l’Anschluss.
Il bello è che non c’ero neppure e che mi raccontò tutto Karl Sesta.
I nazisti avevano fatto convocare il consiglio d’amministrazione dell’Austria Vienna, insomma quello della squadra di Sindelar. Non era ammissibile che una squadra potesse essere gestita da ebrei e lo era ancora meno se questa era una squadra vincente. Si erano fatti invitare anche loro e davanti a tutti i giocatori avevano cacciato in malo modo tutti gli ebrei, a partire dal Presidente, il Sig. Schwarz, che era da più di dieci anni che ricopriva quell’incarico.
Se ci fossi stato sono sicuro che li avrei visti sorridere, nei loro giacconi in pelle nera, con gli occhi che gli si illuminavano per il fatto che nessuno avesse osato dire qualcosa.
Poi, dopo che ebbero finito il loro discorso, Sindelar con calma si avvicinò al Sig. Schwarz e davanti a tutti, in modo che lo sentissero anche i nazisti, gli disse: “Il nuovo Führer dell’Austria ci ha proibito di salutarla, ma io sarò onorato di darle il “buongiorno” ogni volta che avrò la fortuna d’incontrarla”.
Non lo so dove sia finito il Sig. Schwarz e tutti quelli che quel giorno seguirono la sua sorte.
È passato quasi un anno e non ne ho saputo più nulla.
Spero solamente che sia riuscito ad espatriare.


Fu due settimane dopo quell’evento che ci fu la partita dell’Anschluss.
La organizzarono per il tre aprile, una settimana prima del referendum che poi ratificò l’annessione.
Il Wunderteam si presentò con una maglia rossa con i calzoncini bianchi, invece di quella solita di colore bianco.
Dicevano che fosse stata un’idea di Sindelar.
Non fui convocato neppure per allenare i titolari in una partitella, oramai ero fuori dal giro della nazionale, così guardai la partita dalla gradinata e devo dire che chiunque ebbe l’idea di quelle maglie riuscì nel suo intento. Il rosso e il bianco punteggiarono il campo di gioco, come se fossero delle piccole bandiere, per tutta la durata della partita.
Questa sarebbe dovuta finire in un pareggio, l’avevo sentito dire da tanti, perché era una giornata di festa, perché quel risultato avrebbe accontentato sia i gerarchi tedeschi che a quelli austriaci e nessuno sarebbe stato sconfitto.
Anche Sindelar sembrava d’accordo.
Durante il primo tempo sbagliò un gran numero di passaggi, anche di quelli più semplici e in un modo inusuale per lui, come se non fosse lo stesso di sempre. Poi, ebbi l’impressione che in quel suo modo di sbagliarli ci fosse un atteggiamento di sfida, quasi che gli avessero detto di non fare scherzi e volesse che tutti lo sapessero.
Quando rientrarono in campo c’era un altro Sindelar e gli altri decisero di assecondarlo.
Iniziò con le sue finte, i suoi dribbling, quelli per cui valeva la pena di spendere qualche scellino e passare un pomeriggio allo stadio, fino a che non trovò lo spunto giusto e il pallone finì in porta.
Poi, arrivò un secondo gol grazie a un pallonetto di Karl Sesta e, al fischio finale, lui e Karl Sesta corsero sotto gli stand riservati alle celebrità e si misero a danzare davanti ai funzionari nazisti, mentre il pubblico urlava “Österreich! Österreich!”.
Poi, li seguirono anche gli altri e per quel poco tempo che durò urlai anch’io, con quanto fiato avevo in gola e così tanti di quelli che erano vicino a me.
Infine, arrivò il momento del saluto.
Le due squadre si misero su una fila al centro del campo, una da una parte e l’altra da quella opposta e, quasi ad un cenno, tutti i giocatori alzarono il braccio destro verso l’alto, teso, per salutare le autorità e il pubblico, ma fra gli undici austriaci ebbi la sensazione che i bracci alzati fossero solamente nove.
Il saluto si concluse rapidamente, per cui non sono certo di chi fossero stati quelli che non alzarono il braccio, ma se dovessi fidarmi delle mie sensazioni sono sicuro che uno dei due sia stato Matthias Sindelar e che l’altro fosse Karl Sesta.


Quando sono passate da poco le nove imbocchiamo la Simmeringer Hauptstrasse.
Siamo quasi arrivati.
Ci sono almeno tre fermate prima di trovarsi davanti ai due obelischi che abbelliscono l’ingresso principale allo Zentralfriedhof.
Passata la seconda fermata, Karl Sesta si è alzato e si è aggiustato il bavero del giaccone.
Vuole scendere alla fermata prima dello Zentralfriedhof, solo per vedere che aria tira.
Appena scesi dal predellino del tram Karl Sesta ha tirato fuori le mani dalle tasche, se le è strofinate un po’ e le ha rimesse subito dentro.
Tanti altri hanno fatto come noi e alla stregua di una fila di formiche, che stanno seguendo la scia per tornare verso casa, ci stiamo dirigendo verso lo Zentralfriedhof.
Lungo le strade si vedono ancora i rimasugli di una precedente nevicata.
È il tempo dell’inverno e delle sue giornate, battuto da venti che arrivano da nord e che inclementi ci annunciano che ne seguiranno altre, ancora più fredde, cariche di neve e di gelo.
Passiamo attraverso i due grandi obelischi che si trovano all’ingresso e subito vedo la gente che ha riempito lo Zentralfriedhof.
Credo che potrebbero esserci almeno diecimila persone.
Io mi piazzo in un punto leggermente rialzato, dal quale si può vedere l’intera scena, mentre Karl Sesta si ferma vicino alla bara e forse sarà fra quelli che la porteranno a spalla.
Loro, i nazisti, li riconosci subito, stretti nei loro cappotti marroni o in pelle nera, con le tese del colletto tirate su e lo sguardo vigile.
Tanti altri continuano ad affluire e fila dopo fila il cerchio si allarga, come la perturbazione creata da un sasso lanciato sulla superficie di uno stagno calmo.
Infine, scoccata la campana delle dieci, il sacerdote inizia il suo rito.
Non lo ascolto, sono anni che non li ascolto.
Parlano una lingua che non riesco più a comprendere.
Parlano di cosa ci sia di là, mentre il nostro inferno è già qui e ne abbiamo avuto un anticipo.
Il rito è breve e alcuni dei vecchi compagni di squadra, fra cui Karl Sesta, portano lentamente la bara nel luogo dove sarà sepolta.
La buca è già pronta e la bara viene calata con accortezza.
Poi, alcuni di loro si avvicinano, aspettano che il sacerdote la benedica e quindi prendono in mano la situazione.
Un breve discorso, quindi risuona un gutturale “Heil Hitler!” a cui fanno seguire il saluto, con le loro braccia tese.
Attorno risuona il silenzio, un silenzio assordante di migliaia persone che restano ferme, con le braccia conserte o lungo i fianchi e io sono fra questi.
Un’altra volta viene urlato “Heil Hitler!” ed è ancora il silenzio a rispondere.
Le sento le loro voci, arrabbiate, inquiete; ancora una volta urlano il loro “Heil Hitler!” e per la terza volta è ancora il silenzio a rispondergli.
Mi volto verso la bara e incrocio lo sguardo di Karl Sesta. È lo stesso di quando ci disse che glielo aveva detto in faccia che non avrebbe giocato per loro.
In questo momento so che non abbiamo paura, che nessuno di noi ha paura.
Siamo rimasti in silenzio per un tempo che non so quantificare.
Poi, ce ne siamo andati.
Addio, Mathias Sindelar.
Addio, Cartavelina.


** Durante il periodo dell’occupazione nazista le sole voci di dissenso si potevano ascoltare allo stadio, in particolar modo durante le partite del Rapid.


“Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”  (Josè Mourinho)


IL MUTUMBULA





L’uomo osservò il pannello delle partenze e dopo aver visto che il volo da East London a Città del Capo avrebbe avuto circa un’ora di ritardo tornò a sedersi in sala d’attesa, dove aveva lasciato la sua borsa da lavoro.
L’aprì, prese il computer portatile e quindi lo accese, attese che apparisse la schermata di accesso al desktop, dove a grandi lettere c’era scritto “Daniel Woods”, digitò la password ed entrò in quella che doveva essere la sua area personale. Fra le varie cartelle ce n’era una denominata “Nuovi articoli” e dopo averla aperta fece un doppio clic sul file che riportava il titolo “Mulamba”. Infine, iniziò a leggere ciò che vi era scritto:

Pierre Ndaye Mulamba è stato uno dei più importanti giocatori africani della sua generazione.
Nato il 4 novembre del 1948 in uno dei sobborghi di Kananga, nel Kasai Centrale, in una zona del Congo particolarmente nota per l’estrazione dei diamanti, crebbe calcisticamente nell’Association Sportive Vita Club, una delle principali squadre di Kinshasa, e già all’inizio degli anni Settanta era senza alcun dubbio il miglior prospetto calcistico del paese.
Lo chiamavano “Mutumbula”, che in congolese si potrebbe tradurre come “assassino”, per la sua capacità di essere implacabile sotto porta. All’origine di questo nomignolo c’era anche un aneddoto, legato al fatto che da ragazzetto si divertisse ad impaurire i ragazzi del quartiere con indosso un panno bianco, quasi fosse il vero “Mutumbula”.
Il “Mutumbula” nella cultura congolese è una figura terrificante, scaltro e sempre assetato di sangue, con la pelle di un bianco diafano come fosse il volto della Luna; dai racconti degli anziani sembra che ci sia sempre stato, anche prima che i bianchi arrivassero sulle sponde del fiume Congo, e che si aggirasse per la savana, fuori dal limite dei villaggi, pronto a rapire qualche bambino africano per nutrirsene.
Durante la lunga occupazione belga, che durò fino alla fine degli anni Cinquanta, il “Mutumbula” sembrò manifestarsi nel volto del Re Leopoldo, che fece cospargere quella terra del sangue dei suoi abitanti, per depredarne le sue ricchezze. Un volto altero, con la barba curata e con degli occhi che non trasferivano alcuna emozione, che terrorizzò i congolesi più di qualsiasi idea potessero avere dell’aspetto del “Mutumbula”.
Poi, all’inizio degli anni Sessanta, quando l’occupazione coloniale belga ebbe termine e il Congo fu sul punto di poter svoltare pagina, sembrò che persino del “Mutumbula” ne sarebbe potuto rimanere solo il ricordo, sufficiente comunque a far intimorire i bambini quando la sera facevano le bizze o non volevano andare a letto.
In quel periodo ci furono libere elezioni, ma il vento del cambiamento non durò che pochi mesi e, dopo l’uccisione di colui che le aveva vinte, si trasformò in un uragano che fece sprofondare il Congo nella guerra civile.
Colui che ne uscì vincitore fu ex sottufficiale dell’esercito, Joseph-Désiré Mobutu, probabilmente legato a gruppi stranieri che controllavano l’estrazione dei diamanti, che restò alla guida del paese per i successivi trentadue anni.
Mobutu fu vorace e scaltro, quasi fosse il “Mutumbula”, in quei trentadue anni diventò uno degli uomini più ricchi del mondo, mentre il Congo sprofondava in una lacerante povertà, tanto che al momento in cui fu costretto ad abbandonarlo, correva voce che la sua ricchezza fosse pari al debito estero del paese.
Sotto la sua dittatura il Congo cambiò nome, acquisendo quello di Zaire, allo scopo di dimenticare la lunga esperienza coloniale; quando se ne andò lo Zaire cambiò nuovamente nome in Repubblica Democratica del Congo, per dimenticare ognuno di quei trentadue anni.
Nel frattempo, la nazionale zairota di calcio era diventata una delle più forti del continente e nel 1973, grazie ai gol di Mulamba, riuscì a qualificarsi sia per la fase finale della Coppa d’Africa, che per quella del Campionato del Mondo.
Mobutu, consapevole che quei due eventi avrebbero potuto dar lustro al paese e perciò a lui che lo guidava, cercò di motivare ancora di più i componenti di quella squadra, promettendogli tanto denaro, quanto fino ad allora non ne avevano mai visto.
La nazionale zairota si presentò alla fase finale della Coppa d’Africa, che venne disputata in Egitto nel gennaio del 1974, al meglio della forma e Mulamba fu il protagonista di quella cavalcata che portò il Congo a vincere l’unica Coppa d’Africa della sua storia.
Scaltro e insaziabile, quasi fosse stato il “Mutumbula”, segnò ben nove reti, che divenne il nuovo record di marcature della manifestazione, facendogli guadagnare le attenzioni di una delle più importanti squadre francesi, il Paris Saint Germain.
I calciatori zairoti al ritorno in patria furono trattati come degli eroi e Mulamba fu insignito dell’Ordine nazionale del Leopardo dallo stesso Mobutu, che non si scordò di quanto aveva promesso, dando ad ognuno di loro una busta traboccante di dollari americani.
Quello che c’era in quelle buste non corrispondeva a quanto era stato promesso, anche se ne rappresentava una buona parte; il resto Mobuto aveva deciso di congelarlo in attesa della fase finale del Campionato del Mondo, promettendo che glielo avrebbe consegnato, assieme a tanti altri dollari e magari a qualche auto di lusso, se avessero onorato ancora una volta il paese.
Quel premio, che i calciatori zairoti sentivano di aver già guadagnato sul campo, divenne il tarlo che scombussolò la tranquillità di quello spogliatoio, ben più dei nomi delle avversarie che lo Zaire avrebbe dovuto affrontare nel girone preliminare.
Così le partite con la Scozia, con la Jugoslavia e con il Brasile, si trasformarono in un’impresa ancora più ostica di quella che avrebbero potuto essere e gli zairoti persero ognuna di quelle partite malamente.
Mobutu, arrabbiato per la figura che quella squadra aveva fatto fare al paese, non si accontentò di togliergli i premi che non gli aveva ancora consegnato, fece di più, perché impedì ad ognuno di quei calciatori di uscire dal paese per andare a cercare contratti redditizi all’estero.
Il più penalizzato di tutti fu naturalmente Mulamba, che aveva sperato di poter approdare in Francia, e che invece fu costretto a trascorrere tutta la sua carriera nello Zaire.

Fu nel 1994, quando aveva smesso di giocare da circa dieci anni, che il mondo tornò a ricordarsi di lui.
In occasione della fase finale della Coppa d’Africa, che si sarebbe svolta a Tunisi, fu invitato ad assistere alla finale e in una fresca serata di marzo gli venne consegnata una medaglia, come riconoscimento per esser ancora il miglior cannoniere della storia della Coppa d’Africa.
In quel momento sentì la concreta possibilità di approdare nell’olimpo dei campioni africani, che poi era ciò a cui ambiva, dopo una carriera in cui non si era potuto togliere altre soddisfazioni; invece, fu solo l’inizio della sua deriva, poiché al suo ritorno in patria Mobutu, vorace come fosse stato il “Mutumbula”, la pretese e dopo che Mulamba si rifiutò di consegnargliela, lo fece aggredire, qualche giorno dopo, dalle sue guardie del corpo nella sua abitazione.
Lo pestarono, gli spararono alle gambe e infine lo lasciarono sopra i binari della ferrovia, certi che il primo treno di passaggio lo avrebbe ucciso, ma quella sera Mulamba, anche se in qualche modo riuscì a salvarsi, si sentì morire per la prima volta, perché prima di ridurlo quasi in fin di vita, gli ammazzarono davanti ai suoi occhi il figlio di undici anni.
Venne curato nella casa di alcuni conoscenti e appena riuscì a tenersi in piedi dovette andarsene dallo Zaire, abbandonando la famiglia e tutto quello che aveva.
Forse fu un caso o non vide altre opportunità, fatto sta che Mulamba decise di andare in Sudafrica, dove fu accolto come rifugiato.
Per alcuni anni non si seppe più nulla di lui, come se si fosse eclissato dal mondo, poi, durante la fase finale della Coppa d’Africa del 1998, si sparse la notizia che il suo cadavere era stato ritrovato in un campo di lavoro, nei pressi di un’area di estrazione di diamanti nella regione di Johannesburg.
La Federazione calcistica africana decise di far osservare un minuto di silenzio in suo onore e questo capitò casualmente proprio in occasione della semifinale che avrebbe messo di fronte il suo Zaire, che nel frattempo aveva cambiato nome in Repubblica Democratica del Congo, al Sudafrica.
Mulamba, mentre accadeva tutto questo, era a Philippi, uno dei più grandi sobborghi di Città del Capo, dove faceva il parcheggiatore e cercava solo di tirare avanti.
Appena arrivò la notizia che era ancora vivo, la FIFA decise persino di versargli settemila dollari per aiutarlo.
Di quella cifra, che sicuramente gli avrebbe alleviato i problemi economici, Mulamba ha sempre sostenuto di non averne mai saputo nulla e forse anche quei settemila dollari finirono nelle mani del “Mutumbula”.
Poco tempo dopo quelle vicende, all’interno di un progetto per la protezione dei rifugiati di cui era entrato a far parte, Mulamba conobbe una funzionaria del governo sudafricano di nome Nzwaki Qeqe. Con il suo aiuto iniziò a collaborare ad altri progetti per l’integrazione dei rifugiati nell’unico modo che conosceva: giocare a calcio.
Allenò squadre di giovani rifugiati, giocò con loro, e mentre gli insegnava calcio provò ad aiutarli ad inserirsi in quella nazione che anche lui stava iniziando a scoprire.
Pochi anni dopo si sposarono.
All’inizio di quest’anno, dopo più di dieci anni da quando era fuggito, Mulamba è tornato in Congo.
Un suo connazionale, Makela Pululu, entrato anche lui in Sudafrica come rifugiato, era riuscito ad ottenere dei fondi per le riprese di un documentario sulla vita di Mulamba.
Al suo arrivo all’aeroporto di Kinshasa c’era un gran numero di persone ad attenderlo.
Dicono che si sia emozionato a vedere tutta quella folla che lo aspettava e che lo sia stato ancora di più quando da quella folla si fece avanti sua figlia.
Furono in molti a chiedergli di rimanere e il nuovo capo del governo gli promise persino una nuova casa e del denaro, in ricordo di tutto ciò che era stato per la nazione congolese, ma alla fine delle riprese scelse di tornarsene in Sudafrica.


Donald Woods alzò la testa dal suo computer portatile, guardò ancora per qualche minuto le righe che aveva scritto e quindi salvò il file.
Mulamba era pur sempre un pezzo della storia calcistica africana e, in occasione di quel primo mondiale che sarebbe stato giocato in un paese africano, servivano le facce di chi aveva rappresentato la storia calcistica del continente, per quel motivo era stato convocato nei giorni precedenti da Danny Jordan, che era a capo del comitato organizzatore di quel mondiale.
Il Daily Dispatch, che era il quotidiano con il quale collaborava saltuariamente, gli aveva chiesto di scrivere un pezzo sulla sua storia e per venirgli incontro gli aveva persino preso un appuntamento con Mulamba per quel pomeriggio, a Città del Capo, presso il campo del Green Point Salesian Football Club, al termine della partita fra la locale squadra di dilettanti e quella che allenava Mulamba.
Donald Woods riaprì la cartella, prese il file e gli cambiò intestazione, aggiungendo al nome una linea e la scritta “da rivedere”; quindi, chiuse il portatile e lo mise nella borsa da lavoro che teneva appoggiata alle gambe.
C’era qualcosa, nella storia di Mulamba, che sentiva gli stesse sfuggendo.
Nessuno avrebbe potuto negare che la vita di Mulamba fosse stata una continua deriva, di fronte ad un destino che sembrava si fosse preso gioco di lui e nonostante tutto era riuscito a resistere, senza finire la sua esistenza in preda all’alcool o a qualche droga. Poi, nel momento in cui avrebbe avuto l’opportunità di riscattarsi da tutto ciò che aveva subito, aveva deciso di non farne di niente, per rimanere in un luogo che sembrava non entrarci in alcun modo con la sua storia.
Donald Woods diede uno sguardo al suo smartphone, guardò l’ora; quindi, lo posò in una tasca della giacca che si era poggiato sulle gambe e socchiuse gli occhi.
In quel momento, una voce meccanica richiamò i passeggeri del volo da East London a Città del Capo per l’imbarco.


Erano quasi le quattro del pomeriggio, quando un taxi si fermò lungo Fritz Sonnenberg Road, presso l’intersezione con Stephan Way.
Colui che si chiamava Daniel Woods uscì dal taxi, osservò l’ora sul display del suo smartphone, pagò la corsa e si guardò attorno.
Dietro di lui si ergeva la sagoma del Green Point Stadium, che avrebbe ospitato varie gare del Mondiale, fra le quali una delle semifinali.
Guardò il cantiere dello stadio, che era prossimo ad essere smantellato, e si diresse dalla parte opposta, verso il piccolo impianto del Green Point Salesian Football Club.
Questo campo da calcio si trova all’interno dell’area di Green Point Park, fra campi da rugby, un campo per il cricket, uno stadio per le competizioni di atletica e un campo da golf, che arrivava a circondare l’intera area di Green Point. Oltre il campo da golf vi era la Beach Road, che in pratica faceva da cerniera all’intera zona, chiudendola fra la Signal Hill e l’oceano.
Era l’inizio di ottobre e il clima a Città del Capo era decisamente mite per quei primi assaggi di primavera.
Arrivato al campo, osservò gli ultimi scampoli di partita nei pressi del cancello di accesso al campo da gioco e solo quando fu terminata entrò in campo.
Pierre Ndaye Mulamba gli si fece incontro.
Indossava la tuta della nazionale di calcio sudafricana, a strisce di colore giallo, rosso e verde su sfondo nero, sopra una maglietta di un verde brillante, che s’intravedeva appena sotto la tuta, e che avrebbe potuto benissimo essere simile a quella con cui per anni aveva giocato per lo Zaire.
Il passare del tempo era stato clemente con Mulamba.
Era ancora longilineo, nonostante avesse superato i sessant’anni, e gli occhiali, che portava con delle spesse stanghette in acetato di cellulosa, sembrava che gli avessero tolto dal volto quella spigolosità che a volte traspariva nelle foto giovanili; si era rasato a zero e la fronte, priva dell’effetto che le dava l’eccessiva stempiatura dei capelli, sembrava che fosse persino meno pronunciata.
I due uomini, dopo essersi scambiati i saluti, decisero di dirigersi verso la Sea Point Promenade, distante non più di mezzo chilometro.
Donald Woods e Mulamba si sedettero su una delle prime panchine che trovarono libere.
Attorno a loro, quell’ampio viale che è la Sea Point Promenade pulsava ancora di vita. Così vi era chi si concedeva una corsetta defaticante, dopo aver fatto attività fisica in una delle aree per attrezzi ginnici, chi tornava a casa mangiandosi un Falafel oppure un gelato, dopo aver preso il sole nell’area dei Mandela Glasses, o infine chi, continuando nella sua passeggiata, ogni tanto dava uno sguardo a quel mare, che, per quanto lo si osservi da ognuna delle tante panchine poste lungo i sette chilometri del suo percorso, sembra che la avvolga quasi da ogni parte.
Dal punto dove si erano posti era possibile scorgere la sagoma di Robben Island, che a quella distanza pareva quasi indistinguibile dal profilo costiero che continuava a correre verso nord, se non per i suoi colori più nitidi.
Il loro incontro durò poco più di un’ora, durante il quale parlarono dell’incontro che Mulamba aveva avuto con il Comitato organizzatore del mondiale di calcio, della sua vita, di ciò che faceva in Sudafrica e persino se avesse idea di tornare in Congo, dopodiché Mulamba si alzò e tornò verso il campo del Green Point Salesian Football Club, dove aveva lasciato l’auto.
Daniel Woods rimase ancora seduto ad osservare l’oceano.
Il sole aveva lentamente iniziato ad abbassarsi e, guardando quella gran distesa d’acqua che aveva davanti, ebbe l’impressione che le nubi, che sembrava corressero dalla terra verso il mare, si andassero a congiungere con le acque dell’oceano in un punto indefinito all’orizzonte, nel quale altre nubi, quasi come fossero delle onde, dava idea che vi nascessero, come se vi fosse un unico punto indistinguibile verso cui tutto, allo stesso tempo, sembrava prendere forma ed esservi fagocitato.
Infine, si alzò.


Gli avevano consigliato di cenare in un locale posto nell’area del porto turistico, che era a meno di due chilometri dall’inizio della Sea Point Promenade.
Daniel Woods decise di raggiungerlo a piedi, perciò s’incamminò lungo la Beach Road e continuò su di essa fino a raggiungere l’incrocio con la Granger Bay Boulevard; quindi, voltò prima a sinistra e poi a destra per prendere la Dock Road e da lì fino all’altezza della ruota panoramica, dove voltò di nuovo a sinistra.
Era oramai arrivato al porto turistico e fatto ancora qualche passo giunse fino al molo.
Lì era pieno di cartelloni che pubblicizzavano i vari itinerari, che potevano andare dalla possibilità di godersi la vista della baia di Città del Capo dall’alto, con un elicottero, oppure di farlo dal mare, fino all’approdare su alcune calette dove era possibile trascorrere qualche ora attorniati da gruppi di foche.
Staccata da tutto il resto, vi era l’indicazione per raggiungere il Nelson Mandela Gateway, da dove si sarebbe potuta raggiungere Robben Island e visitare il museo della prigione.
Donald Woods si fermò davanti a quell’indicazione per qualche secondo e in quel poco tempo ebbe un’intuizione.
La prigione di Robben Island era stata uno dei simboli della durezza del regime dell’apartheid e ora era l’emblema del suo ricordo.
Era passata appena una generazione e tutto si era trasformato, tanto che dalla società dell’apartheid, che sembrava non dovesse avere fine, ne era nata una nuova in cui per la prima volta bianchi e neri sembrava potessero convivere nell’interesse reciproco.
Era il tempo che aveva governato tutto e così doveva esser stato anche per Mulamba, che aveva raggiunto una serenità che forse non pensava neppure che potesse esistere quando, a suon di gol, cercava la fama sui campi di calcio.
E il tempo, che era riuscito a cambiare sia le persone che la società in cui vivevano, sarebbe persino riuscito a dimenticarsi del “Mutumbula”, indipendentemente dalla forma che avesse potuto prendere.
Infine, Daniel Woods volse lo sguardo e si diresse verso il locale dove avrebbe cenato.
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