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Sabrina Tonin
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Sabrina Tonin
Nasce nel 1957, dopo il Politecnico di design di Milano diventa imprenditrice e coltiva per hobby le sue passioni: pittura, scultura, letteratura.
Presiede l’associazione culturale Sentieri di parole Ets e i Premi Letterari Set Art e Le Pietre di Anuaria.
Ha al suo attivo più di 250 premi letterari e ha pubblicato 7 romanzi.
Già presente edizione
TERZO CLASSIFICATO
"LEGGERE LAGUNE"- POESIA
“Leggere lagune”
Poesia
Tra l’ombra e la luce





Avvolgimi nella quiete del sonno
quando le membra indifese si adagiano nella pace

Sorreggimi nel cammino
quando il passo si fa incerto nel buio della notte

Portami nel regno delle aquile
dove gli aneliti del cuore sono solo l’ombra della luce

Perdimi nel vibrante respiro
che lento affievolisce

Cancellami dal tempo che rimane
e ravviva la luce della nostra intesa

Accompagnami tra l’ombra e la luce
verso la quiete dopo il tumultuoso sopravvivere

Ricordami nelle ombre
dove ti ho nascosto
e nella luce che ti ha illuminato

Amami dall’alto delle vette
dal profondo del mare
da quello che rimane
UN’ANIMA AVANZA
In morte di Aleksej Naval’nyj





Più di mille colpi di cannone
esplode potente la parola
sopra distese ghiacciate

Evanescente ombra silente
ora si dissolve nella nebbia
come orma profonda si mostra

Nessuna catena può fermare
una dilagante voce libera
senza più bagagli nè manette

Inchinate la testa tiranni
ammutolite e ascoltate
mai avete udito il fragoroso
rumore dell’anima che avanza.
“Orti dei Dogi”
Narrativa
LOLA





Il chiosco di fiori era in Piazza 5 Giornate, davanti al punto in cui dopo il casello daziario si svoltava nel Viale Regina Margherita.
Era un posto perfetto per vendere fiori, la piazza era grande, c’erano fermate del tram in ogni lato e il chiosco era in mezzo a una grande aiuola, dove si potevano mettere in bella mostra vasi ridondanti di fiori di tutti i colori, mescolati come un arcobaleno.
Lola era Silvana, la fioraia di piazza 5 Giornate a Milano, ma la chiamavano tutti Lola, lei si arrabbiava e sbuffava: Lola è morta, morta e sepolta, se volete, portatele fiori.
Era come i suoi fiori, un tripudio di colori, troppo rossetto sulle labbra, troppa tinta nera sui capelli, troppo colore negli abiti, troppo seno che prorompeva dalla scollatura, troppo rimmel sulle ciglia. Tutto troppo.
Solo i suoi occhi erano quasi senza colore, azzurri chiarissimi come il cielo in certe giornate limpide, che a Milano non si vedono quasi più.
Il fornellino a gas dentro al minuscolo chiosco era sempre acceso, la gente si fermava per comprare un fiore o anche solo per un saluto e a tutti Lola offriva il caffè e regalava parole.
I clienti la redarguivano e le dicevano: Prima o poi il tuo chiosco andrà a fuoco con tutti i fiori e con te dentro ad una nuvola di fumo, se non muori prima con il fumo delle sigarette.
Ma Lola non se ne curava, i clienti compravano qualche fiore per andare al cimitero, bevevano il caffè, ascoltavano qualche parola di conforto, di cui era prodiga, e se ne andavano.
Qualche signora della “Milano Bene” comprava grandi mazzi di fiori per abbellire il salotto di casa e beveva il caffè, ma lo beveva dentro al chiosco, seduta ad un minuscolo tavolino.
Erano le sue clienti migliori, Lola abbassava le tendine, prendeva le mani curate e delicate, le scrutava, fingeva un’estasi spirituale e leggeva il futuro; diceva loro quello che volevano sentirsi dire. Lola vendeva fiori e regalava illusioni.
Era arrivata a Milano nel 51’ da un paesino alluvionato del Polesine con un marito e un bambino in fasce, era una sfollata, senza una lira, senza un tetto sulla testa, senza vestiti, senza niente, ma con tanta voglia di ricominciare.
Era bella, piccola e minuta come una bambolina di biscuit e aveva tanti sogni: voleva recitare a teatro, ma in un paesino di campagna come il suo, sarebbe stato un sogno irrealizzabile.
Forse a Milano avrebbe potuto trovare l’occasione giusta.
Invece, la realtà che l’aspettava era molto diversa dai suoi sogni. Suo marito non trovava lavoro, tornava a casa ubriaco e la picchiava per sfogare rabbia e delusione.
Una sera le aveva detto di vestirsi con il vestito che le avevano regalato delle persone compassionevoli e che le andava stretto al punto che il seno le fuoriusciva dalla scollatura. Le aveva detto che l’avrebbe portata a bere qualcosa a Porta Vittoria, li aspettavano certi amici suoi che le avevano trovato un lavoro.
Gli amici di suo marito la guardavano e ridacchiavano, uno di loro prese un rossetto dalla tasca e glielo mise sulle labbra sbordando dai contorni, tanto da farla sembrare un clown, le appoggiò una mano sul ginocchio e lentamente salì sulla coscia fino a toccare la sua intimità. Lola era come paralizzata, non si capacitava di quanto stava accadendo, guardava il marito smarrita e spaventata con occhi che erano un’implorazione di aiuto.
Lo sconosciuto la prese per mano e la condusse fuori dal bar, la fece salire sulla sua automobile e la portò in periferia, bloccò le portiere dell’auto e le si gettò addosso. Lola, impietrita, gli permise di abusare di lei.
Lo sconosciuto la riportò al bar e le infilò cinquemila lire tra i seni, Lola comprese che da quella sera avrebbe recitato per tutta la vita il ruolo della prostituta, in fondo quello che voleva era recitare, ma non ci sarebbero stati spettatori ad applaudire per la sua vergogna; al posto del sipario sarebbero calate solo le sporche tendine parasole delle automobili e lei si sarebbe illusa di non essere Silvana, ma un’altra. Lola!
Ogni sera Silvana si trasformava in Lola, e piangendo lacrime amare, andava a vendere il suo corpo, prendeva il tram fino a Porta Vittoria, entrava nel bar e trovava sempre clienti desiderosi di approfittare delle sue delizie.
C’erano state notti in cui aveva anche tre o quattro clienti e tornava al bar all’alba, prendeva un caffè e poi saliva sul tram che la riportava a casa, dove suo marito l’aspettava per prenderle tutti i soldi con cui era stato pagato il prezzo del suo corpo.
Guadagnava molto, essendo bella era molto richiesta, ma a lei non restava mai niente in tasca, suo marito prendeva avidamente tutto fino all’ultimo spicciolo.
Aveva cominciato per gioco a leggere la mano ai suoi clienti, entrava in empatia con loro e sapeva trovare le parole che volevano sentirsi dire, erano così impressionati e soddisfatti da quello che diceva, che invece delle solite cinquemila lire, le allungavano qualche mille lire in più che Lola nascondeva gelosamente al marito.
In piazza 5 Giornate c’era un chiosco di fiori, la fioraia era vecchia e voleva disfarsene: a Silvana sarebbe piaciuto tanto vendere fiori, le era sempre piaciuto comporre mazzi colorati e poi quella vecchia era la sola che avesse compassione di lei, qualche mattina quando d’inverno si gelava dal freddo, la invitava nel chiosco a scaldarsi con un caffè bollente.
Un po’ alla volta, dopo sei anni in cui tutte le sere aveva venduto effimere emozioni regalando le sue parole, aveva racimolato quanto bastava per comprarsi il chiosco.
Il giorno che finalmente il chiosco fu suo tornò a casa e mise alla porta suo marito, Lola era finalmente felice, aveva un lavoro, non doveva più vendere il suo corpo.
Al bar dove per tanti anni aveva agganciato i suoi clienti, aveva fatto amicizia con un gruppo di ragazzi dai capelli lunghi, suonavano in un complessino ed erano sempre squattrinati.
Lola era generosa, la sera li invitava a casa sua, cucinava per loro e anche per tutti gli inquilini del palazzo, le sue bistecche alla pizzaiola erano apprezzatissime.
Dopo cena i ragazzi suonavano qualche canzone, lei leggeva le loro mani e prediceva un futuro di radioso successo.
Una sera i ragazzi trovarono seduto a tavola il marito di Lola, era una sorpresa perché sapevano bene quanto lei lo odiasse e le chiesero come mai fosse lì.
Ha fatto un ictus, ha perso la parola e riesce a stento a camminare, in fondo è il padre di mio figlio e non posso lasciarlo morire di fame, ma mi paga per questo, ah se mi paga!!
E come ti paga se non lavora?  le aveva chiesto Maurizio, quello del gruppo di origini gitane, così anomalo con i suoi lunghi riccioli biondi, magro e lungo, con gli occhi chiari come i suoi.
Lola si alzò da tavola e si avvicinò ai fornelli, riempì un piatto di minestra, nell’altro piatto mise due delle sue famose bistecche alla pizzaiola, sputò in ognuno dei piatti e li mise sul tavolo davanti a suo marito.
Magna mona, magna tutta la merda che mi hai fatto mangiare!
Per i ragazzi Lola diventò un mito, le chiedevano consigli per qualsiasi cosa, che taglio di capelli fare, che giacca mettere per il concerto, di che colore dovevano essere gli stivaletti, a quale casa discografica era meglio presentare i loro brani.
Un giorno saremo famosi, ce lo hai predetto tu, e quando saremo famosi scriveremo una canzone per te.
Una sera arrivarono correndo e facendo tre gradini alla volta, la presero in braccio e se la passarono uno alle braccia dell’altro, e non era difficile piccolina come era, erano entusiasti, finalmente una casa discografica era disponibile per un’audizione.
Dopo cena festeggiarono con una bottiglia di Moscato ed una fetta di panettone, ma dopo l’euforia cominciò il terrore dell’inadeguatezza: dovevano presentare un brano inedito, qualcosa che non si era mai sentito.
Gli altri convocati all’audizione avevano fior fiore di parolieri alle spalle, loro invece, nemmeno i soldi per pagarlo un paroliere, e non gli veniva in mente nessuna parola che si prestasse ad essere cantata sul pezzo musicale che avevano composto.
Lola disse che dopo un buon caffè gli sarebbe venuta l’ispirazione e così lo preparò mentre i ragazzi cominciarono a suonare il loro brano decine di volte.
Provavano qualche parola chiedendo a Lola cosa ne pensasse: lei scuoteva la testa disapprovando ogni tentativo, le ore passavano e non scaturiva niente di buono e intanto le lancette segnavano le due della notte. Alle cinque Lola doveva cominciare a esporre i suoi fiori fuori dal chiosco, le restavano solo tre ore per dormire un po’ e non rischiare di cadere addormentata sui suoi vasi.
Decise di fare un altro caffè e mentre porgeva ai ragazzi le tazzine fumanti le venne in mente che i ragazzi li aveva conosciuti nel bar dove nel passato adescava i suoi clienti.
Canticchiò: Seduta in quel caffè, io non pensavo a te … guardavo il mondo che girava intorno a me …
L’indomani cantarono le parole di Lola e da quel giorno l’hanno cantata ad ogni concerto, anche se lei non c’era più, glielo avevano promesso, perché alle sue parole dovevano tutto.
Lola non aveva mai voluto nulla, perché Lola era così, vendeva fiori e regalava parole.
ORIZZONTE COBALTO

ISTRIA
“Terra de polpa rossa
co’ ‘l sielo de cobalto:
nuòli d’oro più in alto
ne la sera comossa...


Nelida aveva le unghie sporche e cercava affannosamente di pulirle sulla gonnellina bianca a piccoli pois blu.
Aveva paura dei rimbrotti di sua madre che la sgridava e la puniva sempre quando si sporcava, e non c’era suo padre che come sempre l’avrebbe difesa.
Strofinava le unghie con tutta la forza che aveva ma quella terra rossa si era incastrata così bene che non c’era verso di farla andar via.
La mamma le aveva detto che il suo adorato papà era partito con un altro bastimento e che forse, una volta preso il largo, lo avrebbero raggiunto o perlomeno avrebbero visto un pennacchio sbuffare all’orizzonte. Come nella Madame Butterfly che il vecchio grammofono suonava quasi tutte le sere.
Nelida ascoltava quella musica e aveva imparato le parole a memoria, proprio per questo dubitava di quello che sua madre le aveva detto: il bastimento che sbuffava nella Madame Butterfly arrivava, non se ne andava!
Stranamente i rimproveri di sua madre non arrivavano, anzi, la guardava in silenzio con un mesto sorriso di comprensione.
Navigavano da più di due ore ma all’orizzonte non si vedevano pennacchi di fumo bianco e tantomeno navi, l’orizzonte era blu cobalto.
Quella mattina Nelida giocava accanto alla cisterna dell’acqua, quando all’improvviso era arrivata una camionetta ed erano scesi quattro uomini in divisa, urlavano in sloveno e chiedevano dove fosse Carmelo.
Carmelo era il papà di Nelida, era siciliano e lo avevano mandato a fare il carabiniere in un paesino nei pressi di Pirano.
Quella terra rossa gli aveva conquistato l’anima perché il cuore glielo aveva conquistato Olga, la mamma di Nelida.
Aveva deciso che sarebbe vissuto per sempre su quel promontorio che dominava il mare e che tanto gli ricordava il mare della sua Sicilia.
Carmelo era uscito di casa con le mani legate dietro alla schiena, gli uomini continuavano a urlare e a inneggiare al Maresciallo Tito, lo spintonavano anche se non ce n’era bisogno.
Carmelo taceva e li seguiva, solo una volta arrivato alla camionetta, prima di salire, aveva rivolto lo sguardo verso Olga e le aveva gridato: “A picciridda!”, la piccola in dialetto siciliano, si raccomandava così di prendersi cura della loro bambina.
Si allontanarono facendo un gran polverone rosso, non pioveva da mesi e le strade di campagna come quelle che portavano alla loro piccola erano di terra battuta che con quel secco si sollevava nell’aria come nuvola furibonda.
Quando la camionetta scomparve dall’orizzonte Nelida uscì da dietro la cisterna, Olga corse da lei e la prese in braccio, entrarono in casa, presero la grande valigia posata sopra all’armadio e ci infilarono tutte le maglie invernali che avevano.
Nelida non capiva, essendo piena estate, a cosa servissero le maglie pesanti, non lo capiva davvero, ma era inutile chiedere a sua madre che continuava a ripetere “Presto, presto dobbiamo fare presto, dobbiamo arrivare al porto prima che parta la barca.”
Olga chiuse la porta e buttò la chiave dentro alla cisterna, prima di arrivare in fondo al viale si fermò, tirò fuori un vasetto di vetro e lo riempì di terra rossa polverosa.
Nelida l’aiutò ed era stato così che la polvere si era infilata sotto le sue unghie.
Al porto c’erano tante barche pronte a partire, andavano a Pola dove c’era un bastimento in partenza.
“Presto Nelida, presto, dobbiamo salire su quel bastimento, chissà se poi ce ne sarà un altro, non possiamo arrivare tardi.”
“Ma dove andiamo mamma? Dobbiamo aspettare papà.”
“Papà è già partito con un altro bastimento e ci aspetta in Italia.”
“Ma mamma, siamo in Italia!”
“Sì, oggi siamo in Italia, ma domani no.”
Nelida avrebbe voluto piangere, non capiva le parole di sua madre e non voleva andarsene, soprattutto senza suo padre.
Il suo cuore di fanciulla le doleva in petto e pensava di morire dal dolore, non poteva sapere che quello era solo l’inizio di un dolore che non l’avrebbe abbandonata mai più.
Scesero tutti al porto di Trieste, li misero in fila e li condussero in grandi magazzini, sfilarono in mezzo a due file di persone che li insultavano, qualcuno sputava loro addosso.
Impassibili nella loro dignità camminarono a testa bassa fino all’angolo a loro riservato, più o meno tre metri quadri, una sedia, un pagliericcio e una brocca d’acqua.
Non mangiavano dal giorno prima, erano sfinite, si addormentarono e si svegliarono all’alba, quando sentirono delle voci chiamare “Olga, Olga, Nelida”.
Con fatica districandosi tra altri corpi abbandonati raggiunsero il grande portone che chiudeva il magazzino, era sbarrato; allora si arrampicarono sopra alla montagna di valigie per raggiungere una piccola finestra.
Olga era minuta e Nelida solo una fanciulla, erano magre, riuscirono ad infilarsi tra le grate e saltare in basso tra le braccia di due uomini che le attendevano.
Erano carabinieri che avevano prestato servizio con Carmelo anni prima e in modo fortunoso erano stati raggiunti da un suo biglietto dove aveva scritto i nomi della moglie e della figlia. Era riuscito ad avvisare che ci sarebbe stato un bastimento in partenza da Pola, se il buon Dio lo avesse aiutato Olga e Nelida sarebbero salite su quella nave diretta a Trieste.
“Chi sono questi uomini mamma? Dove ci portano?”
“Sono amici di papà, ci portano da lui.”
Partirono per un viaggio lungo quindici giorni, dormirono in macchina mentre i due amici di Carmelo dormirono sul ciglio della strada.
Viaggiarono lungo tutta l’Italia e alla fine salirono su un traghetto che li portò in Sicilia, ora erano a casa, non sapevano ancora dove ne avrebbero trovata una, ma quella era la terra di Carmelo, avrebbero cercato dei parenti e se non li avessero trovati si sarebbero date da fare, Olga era una brava sarta, qualche lavoretto l’avrebbe trovato.
E poi, la Sicilia era abbastanza lontana dalla loro terra, la terra d’Istria, abbastanza lontana per cercare di dimenticarla.
Fu il parroco di un paesino ad aiutarle per i primi tempi, fino a quando Olga trovò lavoro. Al mattino si alzava quando cominciava ad albeggiare e andava a lavorare nei campi, il pomeriggio lavorava dalla sarta del paese e la sera rammendava per conto suo.
Dopo qualche anno, Olga era riuscita a comprare una minuscola casetta di pietra che somigliava tanto alla loro casa di Pirano.
C’era un piccolo giardino di limoni e c’era anche una cisterna per raccogliere l’acqua piovana.
Nelida era cresciuta, somigliava tanto al suo papà che non era più tornato, aveva i capelli rossi e gli occhi verdi ereditati dalle origini normanne, studiava e aveva tanti sogni.
“Mamma, quando torneremo a casa?”
“Siamo a casa, è questa la nostra casa”
“Ma non c’è nulla di quello che avevamo, avevamo preso solo maglioni per la stagione fredda e sono diventati vecchi e infeltriti e anche troppo piccoli,”
“Ti sbagli, la nostra terra è qui con noi”
Di nuovo Nelida non capiva e pensava che sua madre fosse impazzita per il dolore, ma Olga sorrideva e sembrava convinta di quel che diceva.
Prese una sedia, ci salì sopra e raggiunse il grande valigione che era il solo ricordo del loro esodo, lo buttò sul letto e disse: “Ora vedrai la nostra terra!”
Nella valigia c’era il barattolo di vetro che avevano riempito di terra rossa, lo strinsero nelle loro quattro mani per paura che scivolasse e si rompesse.
Uscirono in giardino, aprirono il vasetto e versarono la terra rossa e polverosa nell’angolo più riparato.
Olga staccò un ramoscello di limone e lo piantò nella terra che aveva versato, lo annaffiò con l’acqua della cisterna e prese le mani di Nelida tra le sue versando su di esse il resto dell’acqua per lavarle le unghie.
“Questa è la nostra terra, germoglieranno i ramoscelli e saranno alberi di speranza e di pietà, pietà per i nostri morti, compassione per i nostri carnefici.”
Ora Nelida comprendeva perché sua madre non l’avesse sgridata sulla nave perché le sue unghie erano sporche di terra rossa: perché le aveva sporcate anche sua madre che nei palmi delle mani aveva serrato quel poco che poteva dare conforto al suo dolore di esule.
Quel lembo di giardino era diventato la loro terra, terra rossa e polverosa e se avessero chiuso gli occhi avrebbero potuto anche ricordare l’orizzonte cobalto del loro mare.

O Istria, nostra cuna,
tormento al nostro cuor;
el mar soto la luna
canta el nostro dolor.


“Isole della laguna”
Narrativa
LA PREMONIZIONE






Correva l’Anno del Signore 1347.
L’alba di quella mattina di fine maggio era particolarmente luminosa, Andrea Contarini osservava il porto di Alessandria d’Egitto vivacemente affollato di navi e come sempre rumoroso di voci di lingue per lui incomprensibili. Il lungo molo univa la costa a un’isola dove sorgevano le rovine dell’antico faro distrutto dalle invasioni islamiche e che per tutta la sua lunghezza vedeva le navi cristiane ormeggiate fianco a fianco. Il sole saliva rapidamente e riscaldava i marinai ancora assonnati. Andrea si sentiva soddisfatto del suo operato, aveva acquistato la sua galea per soli quattrocento ducati. Grazie a un accordo commerciale che il nobile Niccolò Zeno aveva strappato al sultano d’Egitto, la sua e le altre galee veneziane erano arrivate in porto con carichi d’argento che vendettero ai musulmani pagando solo un dazio del 2% contro il 10% che pagavano tutti gli altri armatori, aveva ben donde di fregarsi le mani compiaciuto.
Andrea per primo aveva capito che le navi usate fino allora da 300 miliara (un miliarum corrispondeva a circa 400 kg.) di carico e che tornavano cariche di spezie non erano convenienti, navigavano male e una volta pagati i marinai che aveva ingaggiato al Banco di arruolamento sulla riva del Canal Grande vicino a Palazzo Ducale, restava ben poco. Doveva pagare tre mesi anticipati, ai rematori 48 grossi al mese, ai balestrieri 60, ai nuclearii (nostromi) ben 90. Anche lui come gli altri Patroni multava i marinai per ogni piccola mancanza, cosicché una volta tornati a Venezia, erano così indebitati che risparmiavano i soldi del saldo; i marinai non avevano scelta, dovevano accettare o li aspettava la prigione.
Era arrivato il tempo di tornare. La rotta in quella stagione era una rotta obbligata: si doveva risalire verso le coste dell’Asia Minore, oltre Cipro, fino a Rodi. I venti di tramontana e di maestrale che iniziavano a soffiare nell’Egeo in tarda primavera impedivano di fare rotta verso la Grecia. Li avrebbero presi da Rodi verso il Peloponneso e avrebbero agito da spinta per arrivare velocemente a casa.
La prima parte del viaggio stava andando bene, il tempo era buono, il vento stabile e solo una dozzina di rematori erano morti, una buona media. Andrea pensò di essere stato davvero fortunato, non aveva incontrato tempeste e nemmeno pirati, avrebbero potuto toccare con facilità i porti palestinesi e siriani dove i mercanti che ospitava a bordo avrebbero sicuramente fatto buoni affari e i marinai avrebbero potuto riposarsi o curarsi.
Dopo diciotto giorni di navigazione fece tappa a Rodi, ma quando salparono per riprendere il viaggio furono investiti in pieno dal meltemi, il furioso vento che spira da nord. Con tutte le vele al vento navigavano veloci, quando all’improvviso videro venire loro incontro cinque galee e subito fu chiaro che non erano navi della Serenissima ma della rivale Genova. Andrea Contarini contava in tutto 750 uomini a bordo delle tre galee, erano una sicurezza, ma i carichi di spezie che portavano erano un bottino prezioso per chiunque, valevano migliaia e migliaia di ducati e Andrea temeva un attacco di pirateria da parte dei genovesi. Distribuì un rancio abbondante: oltre alle gallette e al vino, formaggio e zuppa di fagioli con manzo seccato. Il rancio dei marinai della Serenissima era di gran lunga più abbondante di quello distribuito dalle altre Marine, i marinai potevano contare giornalmente su una buona dose di biscotti zaleti, vino, formaggio, fagioli, carne salata di maiale, ma questa volta ebbero razione doppia.  Era quanto più opportuno incamerare energia. Come temeva, la prima galea genovese alzò una bandiera dal significato inequivocabile: battaglia!
Iniziò la manovra, mentre la nave poggiava lentamente allontanando la prua dalla direzione del vento, gruppi di marinai tiravano il cavo di un paranco fissato alle antenne che reggevano le tre vele. Se i cavi si fossero spezzati o fossero sfuggiti alle salde mani degli addetti alla manovra, la sua Contarina sarebbe stata infilzata come un pesce allo spiedo.
I marinai di Andrea Contarini erano abili e addestrati e la manovra riuscì a tutte le tre galee che ora puntavano di nuovo verso Rodi.
Andrea ripensò al suo primo scontro navale avvenuto vent’anni prima.
In quell’occasione, lui, come altri giovani nobili faceva il balestriere in una delle otto galee da mercato. Erano stati attaccati anche quella volta dai genovesi, guidati nientemeno che da Tito Doria. In quell’occasione fu una battaglia corpo a corpo, ma questa volta non sarebbe andata così.
Il vento calava insieme al sole e i rematori cominciarono a diretti al porto di Rodi, dove arrivarono staccando abbondantemente i genovesi che rinunciarono ad inseguirli. Dopo tre giorni in porto, appurato che dei genovesi non c’era ombra, ripresero la rotta di casa passando da Candia e facendo tappa a Zante.
Andrea, che era stato un giovane scapestrato e dissoluto, ne approfittò per recarsi in un bordello, voleva festeggiare lo scampato pericolo. Incontrò una cortigiana che veniva da Venezia e che al racconto della battaglia vinta che lui le fece, gli predisse un futuro da Doge: “Ho concesso le mie grazie al futuro Doge”.
Rise divertito, uno come lui, con una reputazione dubbia nonostante l’appartenenza a una delle famiglie nobili più potenti di Venezia, non sarebbe mai potuto diventare Doge. E inoltre non ci pensava neanche per scherzo a prendersi tutta quella responsabilità.
Per tornare a Venezia le galee impiegarono due settimane perché in luglio l’Adriatico è quasi sempre in bonaccia.
Felice ed esaltato per essere riuscito a tornare dopo cinque mesi alla sua amata città, pensò bene di recarsi di nuovo al bordello, e anche stavolta incontrò una cortigiana che gli predisse: “Sarai Doge e lo sarai fino alla tua morte, non andrai più per mare, saranno i potenti del mondo che prenderanno il mare per renderti omaggio.”
Andrea trovò bizzarro che per la seconda volta gli venisse fatta la stessa premonizione. Ricordò che anni prima era sbarcato in un porto siriano dove un mendicante gli aveva predetto che, se fosse diventato Doge se ne sarebbe pentito amaramente.
Ancora una premonizione, una va bene, due sono un caso, ma tre sono qualcosa di più, ma non ci badò più di tanto, la sua vita privata, così turbolenta, lo avrebbe tenuto ben lontano dal dogato.
Ma accadde qualcosa che mutò il suo comportamento quando giacendo con una suora, vide al suo dito un anello da sposa. La monaca gli disse che era sposata con il Cristo e questo provocò in Andrea un grande turbamento, tanto che scappò a gambe levate dal convento e decise di cambiare davvero: sposò una certa Costanza dalla quale ebbe quattro figli.
La sua famiglia intanto diventava sempre più potente e Andrea fu individuato tra i papabili al dogato.
Spaventato dalle profezie, cercò in tutti i modi di sottrarsi a tale eventualità e riuscì in due occasioni, nel 1361 e nel 1365 ad evitare di essere eletto, ma non ci riuscì nel 1368 quando la maggioranza degli elettori votarono per lui.
Così, vent’anni dopo le profezie, Andrea Contarini divenne Doge e lo fu fino alla sua morte nel 1382. Fu un buon amministratore e mise fine vittoriosamente alle dispute con Genova. A dispetto delle premonizioni partecipò da valoroso alla battaglia finale in mare. Salì sull’albero maestro facendosi legare senza protezione all’albero maestro. Si sa che la fortuna aiuta gli audaci.
I veneziani gli perdonarono la gioventù scapestrata, l’aver giaciuto con una suora e l’amarono sinceramente.
Correva l’anno del Signore 1382.
La sua famiglia avrebbe dato alla Serenissima la bellezza di otto Dogi e quarantaquattro Procuratori di San Marco.



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