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Loredana Losi
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Loredana Losi

Gran parte della vita dedicata all’impegno politico/amministrativo.
Per diversi mandati amministrativi ho avuto l’incarico di Assessore all’integrazione sociale, alla cultura e alla pubblica istruzione.
Sono stata anche Presidente del Consiglio Provinciale di Lodi.
Particolarmente impegnata in progetti, anche internazionali, su pari opportunità e contro la violenza di genere.
Attualmente impegnata nel volontariato sociale.
Già presente edizione



“Orti dei Dogi”
Narrativa
I RACCONTI DELL’ALBERO COSMICO






Anche un albero può essere interessato alle faccende degli umani?  Sicuramente.
Se poi parliamo di un albero speciale, tanto speciale che nella mitologia nordica viene definito l’albero cosmico, l’albero del mondo che si innalza fino al cielo e giunge negli inferi sostenendo e rigenerando l’universo, allora direi proprio di si.
All’estremo nord lo chiamano Yggdrasill (nome impronunciabile), da queste parti è chiamato Frassino.
Non la forò lunga, questo speciale albero cosmico, splendido, che può raggiungere i 30 metri di altezza e più,  sono io, sono forte e intelligente e non soffro di falsa modestia.
Vivo in un parco di un piccola città del nord Italia. Per essere onesto: un piccolo parco di una piccola, piccola cittadina.
Non citerò il nome della cittadina in cui ho il piacere di vivere; non lo farò per non correre il rischio di veder arrivare nel parco che mi ospita qualche sega assassina. Non sarebbe certo bello per me.
Ho diversi amici intorno. Molti sono alberi: pioppi cipressini - alti e chiacchieroni, alcune giovani querce – già un poco brontolone, splendidi salici piangenti – fieri delle loro chiome.
Poi però ospito volentieri amici uccelli che sono i miei occhi e le mie orecchie in giro per la città.
Nel parco c’è anche uno spazio dedicato a quelli che gli umani definiscono i migliori amici. Pur non essendo vicinissimo all’abitato, non è molto tollerato:  troppo rumore causato dall’abbaio di un paio di canini che saltuariamente sostano per qualche minuto nell’area.
La sorte ci salvi dall’essere chiamati migliori amici dall’uomo.
Fra questi cagnolini ce ne sono alcuni che amano salutarmi ogni volta con qualche goccia di… sapete cosa. Non mi dispiace perché in cambio mi portano notizie, pettegolezzi.
Comunque la maggior parte delle cose che vengo a sapere derivano dalla panchina posta all’ombra della mia chioma.
A volte sono storie allegre, altre romantiche, altre tristi - le più numerose purtroppo.

Ne avrei tante da raccontare.
LA PANCHINA ROSSA
A poca distanza da quella che considero la “mia” panchina,  alcuni mesi prima ne avevano posizionato una nuova, tutta rossa.
Mi ero chiesto quale fosse il suo scopo. Mi venne in aiuto un foglio di giornale che il vento aveva spinto tra i miei rami.
L’articolo che vi era stampato parlava di una ricorrenza particolare: la giornata contro la violenza sulle donne.  Si citava l’iniziativa di colorare di rosso panchine poste in luoghi pubblici per ricordare le donne vittime di questa violenza.
Da allora nessuno si era seduto li.

Qualche giorno fa, una signora non più giovanissima, è venuta a ripararsi dal sole sotto di me. Si è seduta stancamente e, grazie al mio particolare udito, mi sono accorto che aveva cominciato silenziosamente a piangere.
Con lei il vecchio cagnolino che la guardava con occhi tristi. Neppure  provò ad innaffiarmi come al solito.
<<Che cosa turba la tua amica>> gli chiesi facendo frusciare lievemente le mie foglie.
<<E’ stanca, e quella panchina rossa le fa pensare alla sua vita piena di umiliazioni, di insulti, di privazioni. Temo non possa farcela più.>>
<<Raccontami, ti prego. >>
<<Viviamo da sempre con un uomo, il marito, ignorante e violento. La tratta male e gli insulti sono all’ordine del giorno,  mai una parola gentile, mai un grazie per tutto il lavoro che fa in casa.
Ha allevato i figli al meglio, curato la casa, assistito i genitori anziani e malati, senza mai chiedere nulla. Ora che sono rimasti soli, i figli se ne sono andati tutti, non le rimane più nulla. Quell’uomo non le lascia neppure i soldi per comprarsi il necessario.
L’unica cosa che sa dire è che lei è un peso sulle sue spalle. Non reggerà a lungo ed io con lei.>>
<<Ma scusa, perché a questo punto non se ne va per conto suo e lascia quel tizio da solo?>>
<<E come, con quali soldi? Non ha nulla. Neppure una misera pensione che le viene negata perché in casa arriva quella di lui. Il suo lavoro di tutta una vita in casa al servizio della famiglia  e della società è considerato niente. E niente si sente ormai lei.>>
Che strani questi umani, riflettevo. Si sentono i padroni dell’universo e sanno essere tanto meschini. Colorare di rosso panchine serve a poco quando non ci si rende conto che ci sono problemi più grandi.
Nel frattempo l’anziana signora si era alzata e piano, mestamente, si era allontanata.
Non molti giorni dopo, dei miei amici passeri mi informarono che, appollaiati sul balcone della povera signora, hanno sentito guaire disperatamente per ore il vecchio cane. Temo che questa storia non sia finita affatto bene.

GIOVANI VITE
Capita spesso che al tramonto si fermino nel parco, un poco celati dal fogliame di alcuni miei compagni cespugli, delle coppiette di giovani.
In particolare avevano attirato la mia attenzione due ragazzini molto giovani.
Stando a quel che si dicevano fra uno sbaciucchio e un altro non dovevano avere più di tredici, quattordici anni.
Parlavano di scuola, di prof  antipatici, di compiti, di compagni noiosi.
Erano così piccoli che mi facevano tenerezza. Il problema è che non si fermavano ai baci.
Un pomeriggio li ho sentiti litigare. Lei con voce spavalda, lui sembrava terrorizzato.
Per qualche tempo non li vidi più.  Non mi sono stupito. Capita spesso con ragazzi di quell’età.
Se non che, un giorno, vedo passare la ragazzina con un bel pancino prominente.
Era accompagnata da una signora: forse la madre, e non aveva un’aria molto felice.
Dovevo saperne di più. Pregai degli amici merli di indagare.
Questi miei amici sono dei veri investigatori, si spostano ovunque e amano chiacchierare con tutti sia alberi che uccelli che gatti che cani.

C’è un bella betulla nel giardino di un edificio del Comune che ospita, da quel che dice il cartello esposto, i servizi sociali. I rami della nostra amica si prolungano proprio verso una delle finestre dell’ufficio in cui si sono accomodate la ragazzina e la madre.
Da quel che mi è stato riferito in seguito si è parlato di problemi anche gravi per la futura mamma a livello personale, familiare e sociale.
La sua famiglia d’origine, anche se pronta ad appoggiarla, non era stabile (la madre anche lei in attesa di un figlio da un compagno diverso dal padre della ragazzina).
Poi si dovevano affrontare i  problemi inevitabili  di isolamento sociale, interruzione degli studi, col conseguente stress e  possibile depressione.
Le scelte da compiere erano importanti e andavano, oltre tutto, prese in gran fretta.
Poi si doveva affrontare le reazioni dell’altra famiglia con visioni della vita e del  futuro del proprio figlio fortemente discordanti.
L’Assistente sociale spiegava che le statistiche indicavano che l’adolescente investito del nuovo ruolo di padre, in genere, non si coinvolge troppo nel rapporto e lascia la madre del bambino o durante la gravidanza o nei due anni successivi alla nascita.
Dal suo punto di vista, senza un sostegno pieno delle famiglie e della comunità, si prospettava  l’inserimento in una comunità residenziale.
Queste notizie mi hanno fatto sentire male (più di una foglia si è ingiallita di colpo) e mi hanno fatto riflettere su queste giovani vite.
Io le osservo quando si radunano vicino a me.  Sento in loro una solitudine nascosta. Parlano attraverso strumenti luminosi, catturano le loro immagini e le diffondono, si scambiano battute e risate forzate, ma dov’è il confronto di idee, di opinioni.
Dov’è lo scambio di ricordi e di esperienza.
Sono vicini gli uni agli altri ma così lontani dalla realtà.
Mi ricordano i grandi ulivi strappati alla terra e costretti in vasi di cemento.
Senza più contatti con altre radici, senza più la possibilità di un  confronto sul passato, sul presente, senza poter condividere la speranza di un futuro.
Sono vivi ma prigionieri incatenati ad una vita di solitudine.
Gli umani fanno questo a noi ma lo fanno anche a se stessi.

Noi alberi siamo molto di più di tronco, rami, foglie e radici, siamo un universo completo.
Comunichiamo fra noi attraverso odori, colori e l’emanazione di sostanze chimiche.
Se un insetto si nutre delle nostre foglie noi rilasciamo specifici segnali per avvertire le altre piante nelle vicinanze. Se un essere umano decide di staccare con noncuranza un pezzo di pianta, anche in questo caso la pianta rilascia il suo avviso a tutte le piante vicine del potenziale pericolo.
E poi ci sono le radici che viaggiano sotto terra, si intrecciano con altre radici e scambiano informazioni.  Gli umani hanno scoperto, purtroppo, che il nostro mondo sotterraneo e talmente vasto da essere incontenibile.
Per questo si affannano ad imprigionare, soffocare, avvelenare.
Non riusciranno nel loro intento. Noi siamo più forti.

IL MIO AMICO ALBERO.
Gli alberi sono forti. Lo ha capito una bimba che, dopo la scuola, viene a riposarsi alla mia ombra.
Viene sola, probabilmente abita qui vicino.
Scrive un diario e, non sapendo che io sono in grado di capire quanto scrive, lo ha intitolato: il mio amico albero.
Ecco quanto ho letto:
<< Io non ho tanti amici: anche se sono nata qui tutti mi guardano come se fossi straniera. E’ vero che la mia mamma e il mio papà vengono da un altro Paese e non parlano tanto bene in italiano, ma io che centro.
Ho le trecce scure e i miei occhi sono di un marrone scuro, scuro, però sono brava a scuola e la Maestra mi fa i complimenti.
Quando sono un po’ triste, come oggi, vengo a sedermi sotto questo grande albero.
Se sono sicura che nessuno mi vede lo accarezzo  piano, piano e sento come una leggera scossa, come se tremasse un pochino.
Magari è solo un’impressione ma è come se mi parlasse.
Sono triste perché oggi a mensa la cuoca mi ha sgridato davanti a tutti perché non ho mangiato la carne e non ho voluto il prosciutto. La mia mamma aveva spiegato alla maestra che noi non mangiamo queste cose, ma la cuoca non capisce.
Ho paura che i miei genitori vorranno portarmi a casa per l’ora della mensa ma così io non potrò più giocare con le compagne dopo mangiato.
L’altro giorno ho sentito delle mamme delle mie compagne che dicevano che devono pagare di più per il buono mensa perché quelli come noi non pagano.
Mi veniva da piangere, io sono sicura che la mia mamma paga sempre tutto, magari qualche volta è in ritardo di qualche giorno ma poi, appena papà prende lo stipendio, corre a pagare.
Queste mamme sono cattive. Guardano male mamma per come si veste e perché porta il hijab, ma io potrei criticare anche loro per come vanno in giro conciate.
Però il mio amico albero non sarebbe d’accordo, sono sicura che vuole che io sia gentile. I suoi rami che scendono sino a toccarmi i capelli mi chiedono di avere pazienza e riescono a farmi sorridere.
Tra un po’ ci sarà la festa di inizio del Ramadan.  La mamma e le sue amiche prepareranno un sacco di cose buone da mangiare, si giocherà e canterà.
Ho provato ad invitare qualche mia compagna e la mia mamma mi ha detto di invitare anche le loro mamme ma non credo che verrà  nessuno.
Io non riesco a capire: a scuola si fa tanto festa per il Natale. Anche a me piace il Natale, ma nessuno parla mai e festeggia l’inizio del ramadan che è molto importante per noi. Se sapessero che impegno è per il mio papà che lavora, ma anche per la mia mamma e i miei fratelli più grandi. Loro per quasi un mese, non possono ne bere ne mangiare dall’alba sino al tramonto e a volte è proprio dura. Io sono ancora troppo piccola e per me le regole non valgono anche se sono sicura che riuscirei a farcela.
Sono certa che il mio albero capisce e rispetta questa nostra fatica e sono certa che se potesse muoversi festeggerebbe con noi.
Ora devo andare, ho i compiti da fare e poi posso guardare i cartoni animati che mi piacciono tanto. >> Ciao Albero.

Che tenera questa bimba. La sua vita non sarà semplice e io che ho vissuto tanto posso dirlo con certezza.  Rispetto, accoglienza, comprensione  appartengono  a pochi e questi pochi spesso non hanno potere.  
Come dice la sua gente - che Allah la protegga -

UOMINI IPOCRISIA E AMBIENTE
Vi racconto ora un fatto accaduto tempo fa. Riguarda l’ipocrisia degli umani nei confronti dell’ambiente che li circonda.  Da un lato, ricordarlo,  mi mette malinconia ma dall’altro ammetto che, all’epoca, mi ha fatto sorridere.
Il tutto iniziò un pomeriggio d’autunno quando vidi arrivare nel piccolo parcheggio a me vicino tre automobili.
Scesero uomini in divisa,  un paio di uomini in abiti eleganti ed una donna dall’aria professionale.
Guardarono  il mio parco, fecero delle misurazioni.
Sentii che parlavano di zona di esondazione: in effetti le recenti piogge autunnali avevano fatto straripare il fiumiciattolo che ci circonda, lasciandoci in ammollo per qualche giorno.
Li vidi allontanarsi di qualche passo e raggiungere un altro parchetto, un poco più grande, che si trova poco lontano e che aveva ospitato uno spazio destinato allo svago dei cani poi smantellato.
Anche in quell’area vidi prendere misure, confrontarsi, assentire. Forse avevano trovato il posto giusto, ma per fare cosa?
Mi venne in aiuto un foglio di giornale che il vento spinse fra i miei rami.
L’articolo che vi era stampato parlava della necessità di reperire un’area adatta per la costruzione di un nuovo edificio di interesse pubblico.
I miei informatori avevano sentito che, dovendo posizionare questa nuova struttura nel centro abitato erano state individuate due aree oggetto del sopraluogo dei tecnici.
La cosa interessante era data dal fatto che l’iniziativa veniva contestata da una parte della cittadinanza che, appellandosi alla necessità di tutelare l’ambiente, non voleva la costruzione in quella zona del nuovo edificio.
Da quanto riuscii a capire era che queste persone non volevano che si costruisse poco distante dalle loro abitazioni situate, guarda caso, di fronte al parchetto dove era stato individuato lo spazio di svago per gli amici cani (per inciso erano state le loro proteste a farlo eliminare).
Quanto alla tutela dell’ambiente sia io che gli amici Pioppi ricordavamo bene la sofferenza nel veder  tagliare diversi giovani olmi situati nel medesimo parchetto con la sola motivazione che le loro foglie autunnali imbrattavano i cortili.
Ma queste sono le contraddizioni tipiche degli umani.
Comunque sia, visto che nel volantino si parlava dell’abbattimento di un certo numero di nostri compagni alberi, anche noi, per quel che vale, ci schierammo  con questi pseudo ambientalisti.
Nei giorni a seguire spuntarono striscioni contrari alla costruzione, ci furono proteste, ma la cosa che più mi fece pensare fu l’ascoltare il ragionamento dei membri più attivi della protesta (erano proprio sotto ai miei rami) che, senza accorgersi minimamente della contraddizione, proponeva di spostare la costruzione del nuovo edificio proprio nel mio parco, sostenendo che l’abbattimento  del sottoscritto e degli altri alberi esistenti fosse il male minore.  Dopo tutto non eravamo davanti alle loro case.
Non potendo fare altro, io e i miei compagni aspettavamo con ansia il tragico verdetto.
La chioma di alcuni giovani alberelli vicini a me ingiallì per la preoccupazione.
Alcuni giorni dopo si abbatté sulla cittadina un brutto temporale con raffiche di vento che misero a dura prova la tenuta delle nostre radici.
Purtroppo, nella vicina area sotto esame, alcuni compagni alberi, in particolare altissimi pioppi cipressini, cedettero crollando sulle vetture parcheggiate nelle vicinanze. Nel mio parco non successe nulla. Probabilmente il terreno che ci ospitava era più solido.
Fu così che la scelta del terreno dove costruire il nuovo edificio fu decisa.
Ovviamente la protesta si intensificò .
Compresi poi, grazie alle voci sussurrate di ramo in ramo, che il problema era diventato un fatto politico.
Pochi mesi dopo ci sarebbe stata la tornata elettorale per la scelta del nuovo Sindaco e della nuova Giunta.
La minoranza cavalcava, in nome della tutela del verde pubblico, la protesta.
Un mattino, un passero chiacchierone, passando di ramo in ramo, di pianta in pianta, ci informò di una nuova pensata del Comitato amici del verde (così si era autonominato il fronte della protesta).
In pratica si stavano muovendo a tappeto per una raccolta firme popolare.
Il testo del volantino che chiamava i cittadini alla firma della petizione era sorprendente.
Mi direte, come avevo fatto a leggerlo?
Semplice uno degli attivisti, per riparasi dal sole, lo stava illustrando ad una copia di anziani, proprio sotto di me.
Si parlava di un disboscamento selvaggio di tutti gli alberi esistenti nella zona al solo scopo di rendere l’area edificabile per la costruzione, in una prima fase,  del nuovo edificio pubblico , alla quale sarebbe seguita la costruzione di edifici residenziali privati.
Parlava di mancato rispetto per la salute dei cittadini e di disprezzo  dell’ambiente.
I due gentili signori, senza leggere nel dettaglio la petizione, promisero di firmare.
Se avessero potuto leggere il testo completo si sarebbero accorti che la richiesta finale era quella di spostare in altra area l’edificio incriminato. Non specificavano l’area ma era evidente a quale stessero pensando.
L’amico vento mi aiutò a sfogare il mio disappunto, scossi con forza la mia chioma, altro non potevo fare.
Nelle settimane successive, grande euforia del Comitato: avevano raccolto quasi mille firme che, per una cittadina piccola come quella, erano veramente tante.
La petizione fu presentata formalmente , se ne aspettava  l’esito.
Passò l’inverno, venne la primavera.
Eravamo tutti in splendida forma , le gemme splendevano al sole e il verde delle nostre chiome richiamava gli uccelli chiassosi e vivaci.
Della petizione nessuna nuova. Qualche foglio di giornale svolazzante riportava polemiche più che altro elettorali.
Non eravamo preoccupati, curiosi si. D’altro canto la pazienza degli alberi è proverbiale.
Dall’agitazione dei passanti, dall’intensificarsi della distribuzione di volantini elettorali  capimmo che il giorno delle elezioni amministrative era arrivato.
L’espressione dei volti dei componenti il famoso comitato era raggiante. Li vedevo passare felici mentre si avviavano ai seggi elettorali per lo spoglio delle schede.
(tutti questi termini me li suggerisce l’amico pioppo, albero molto informato sulle cose degli uomini).
Noi avevamo  dei  fidati merli in avanscoperta.  Il risultato dello scrutinio ci sarebbe arrivato in volo in tempo reale.
L’attesa non fu lunga.
L’Amministrazione uscente era stata confermata con una differenza di quasi mille voti.
Che strani sono questi umani. Mille voti contro e poi mille voti a favore.
Senza gioire più di tanto, non si sa mai, posso dire che ci sentivamo sollevati per lo scampato pericolo.
Avreste dovuto vedere le facce, le espressioni dei sostenitori del famoso comitato.
Mi perdonerete ma chi dice che gli alberi non sanno ridere? Dovevate esserci!

E COSÌ ANCORA GUERRA
Ho ascoltato delle voci stamani, non so se ho capito bene non sono del tutto sveglio.
Questi inverni sono sempre più miti, non  nevica più e ci sono lunghi periodi di mancanza di pioggia. Tutto questo disturba il nostro sonno invernale, ci svegliamo spesso troppo presto e poi capita che all’improvviso torna il freddo e le nostre gemme si bruciano.
Questo clima sta cambiando e la terra ne soffre.
Degli amici uccelli di passaggio ci raccontano che sulle montagne non c’è neve e i ghiacciai si stanno sciogliendo.
La scorsa estate ho visto con dispiacere tante giovani piante morire di sete. Le avevano piantumate in zone poco adatte e poi se ne sono dimenticati. Senza il soccorso dell’acqua non ce l’hanno fatta.
Gli uomini forse non se ne rendono conto oppure non vogliono farlo ma presto non saremo solo noi a soffrire, per loro sarà peggio.
Eppure mi sono arrivate voci di guerra e non troppo lontano da noi.
Io c’ero nel recente passato quando la guerra era sopra di noi.
Ricordo il rombo degli strumenti di morte, ricordo il fremito della terra mentre le bombe distruggevano città e persone.
Ricordo l’orrore, l’angoscia e la disperazione di coloro che perdevano tutto.
Le radici mi portavano l’odore delle case incendiate e dei corpi lasciati insepolti.
Come è possibile che ancora e ancora si parli di guerra.
La memoria mi riporta l’immagine di una madre che incontrando per strada un uomo cencioso e ridotto a scheletro umano non ha riconosciuto il proprio figlio fuggito da un campo di concentramento.
E sento ancora il sapore acido dell’odio fra  la gente pronta a uccidersi per motivi sconosciuti.
L’umanità corre verso il baratro e siccità, morbi sconosciuti e catastrofi naturali non bastano per fermarli.
Noi alberi ci saremo anche dopo lo loro scomparsa perché le nostre radici viaggiano sotto terra e trovano l’acqua rimasta pulita e il sole continuerà a sorgere per noi.
Avete mai notato che, nonostante un albero venga reciso, ad una certa distanza spuntano sempre nuove piantine.
Se l’umanità verrà recisa nulla e nessuno la farà rispuntare.
Ma forse mi sono sbagliato questa mattina. Non sono ancora del tutto sveglio.
Non è possibile che l’uomo sia così stupido.


DONNE E MAGIA
Si sta avvicinando un giorno speciale. Lo vedo dalle primule che cominciano ad ornare i giardini. Lo sento dalle voci un poco più allegre delle persone e, soprattutto, ho scorto mazzi di fiori gialli fra le braccia di giovani uomini e rametti odorosi fra le mani delle donne di ogni età.
Come ogni anno, quando l’inverno comincia a ritirarsi, gli uomini rendono omaggio alle donne ricordando il loro lavoro, i loro sacrifici, l’importanza della loro presenza nel mondo.
Non so se questo rendere omaggio sia sincero. Se dovessi basarmi sulle cose che vedo e che sento e che le radici mi raccontano ogni giorno  direi proprio di no.
Potrei raccontare di insulti e di schiaffi. Potrei parlare di lacrime e umiliazioni ma anche dell’odore acre della paura e del sapore amaro del sangue versato.
Oggi però, se mi fosse possibile, parlerei a tutte le donne per descrivere quel che noi alberi vediamo e sappiamo della loro natura.
Direi:  << Siete esseri piene di magia donne. Voi  non ve ne rendete conto ma basta un vostro lieve tocco e le piante e i fiori sorridono.  Da bambine vi bastava guardare le nuvole perché queste si spostassero. Potevate evocare la pioggia se ne sentivate il bisogno oppure farla cessare se volevate tornasse il sole.
Se siete tristi gli animali intorno a voi piangono, se volete gioia gli uccelli cantano.
La magia è dentro di voi ma, man mano che il tempo passa, la vita, la società in cui vivete, la cultura, la quotidianità, vi imprigionano  dentro vasi di coccio e questa - la magia -  si offusca e si ritira.  Vorrei che sapeste che è comunque dentro di voi e che in ogni momento, ad ogni età, potreste farla rifiorire.
In questo giorno particolare vorrei donarvi un pensiero:

Ricorda la tua magia donna e torna a sentire il sussurro del vento,
il mormorio della pioggia, il fragore della risacca,  il battito del cuore di chi ti ama.
Ritrova la magia amica mia per poter ascoltare
la voce del potere che hai perduto o il suo lamento.
Magia, perché s’alzi la marea e tornino i sacri fuochi ad indicarti la via.

E SE DOMANI?
E’ già buio ma non riesco a vedere bene le stelle. Gli uomini hanno paura della notte e si affannano ad accendere luci ovunque ignorando di perdere così la visione splendida del cielo pieno di corpi luminosi.
L’oscurità ci è sempre stata amica. Chiamava al riposo noi, gli amici uccelli e tanti animali stanchi delle ore passate a vegliare durante il giorno.
Aiutava anche coloro che solo di notte possono muoversi, uscire dalle tane e vivere.
Gli uomini no, non amano l’oscurità e fanno di tutto per sconfiggerla – forse ricorda loro la morte.
Noi alberi, se non veniamo abbattuti, possiamo vivere a lungo e le nostre radici, assimilate ad altre possono vivere ancora di più.
Per gli uomini è diverso, la loro vita è breve e per questo preziosa.
Eppure non è raro che mi giungano informazioni  di vite volontariamente spezzate.
Qualche tempo fa – era ancora pieno inverno – una gazza spaventata ci raccontò di aver trovato in un fosso nella campagna che ci circonda, il corpo di una donna morta.
Il salice che si affacciava sul corso d’acqua ci fece sapere che si era volontariamente gettata in acqua e il gelo l’aveva in pochissimo tempo uccisa.
Non possiamo sapere il motivo di quel gesto, forse era malata, forse era disperata, forse era solo stanca di vivere e non vedeva alta via d’uscita.
Ma se un’altra via d’uscita si fosse presentata il giorno dopo, o l’altro ancora?
Ricordo la storia di un giovane ragazzo che si è buttato dal balcone della casa in cui viveva coi genitori.
Tornato a casa dopo un pomeriggio di studio a scuola, aveva salutato i genitori seduti in cucina, era andato in camera sua e si è buttato dal balcone.
I suoi famigliari non si sono accorti di nulla finché, sentita la sirena dell’ambulanza non si sono affacciati e hanno visto il corpo del figlio riverso sul marciapiede.
La domanda che li assillerà per sempre è  «perché?».
Un brutto voto, un amore rifiutato, uno scherzo cattivo subito? <<perché?>>.
Un compito andato male lo si può rimediare oppure no ma è davvero così importante?  Un amore rifiutato in giovane età è probabilmente un’esperienza che a distanza di qualche tempo farà sorridere.  Una umiliazione la si può scordare ma la morte non la si può rimediare.
In questi casi non c’è più un <<forse domani>>.
Quella donna, quel ragazzo hanno scelto la parola fine, ma se subito dopo l’attimo finale ci fosse stato uno squillo del telefono o una voce benevola portatrice di speranza?
Noi alberi non comprendiamo questa voglia di annientamento.  Ma forse è  perché non sappiamo cosa sia la disperazione.

LA PANDEMIA
C’è stato un periodo in cui sembrava fossero spariti tutti. Nel parco non arrivava più nessuno e sulla strada non passavano persone, neppure i bambini con gli zaini in spalla diretti a scuola.
Non capivamo il perché ed eravamo preoccupati.
Gli amici passeri raccontavano che era così ovunque: qualche sporadico passante col cane al guinzaglio,  pochissime macchine sulle strade, solo frequenti  passaggi di automezzi a sirene spiegate.
Presto ci giunsero informazioni sul diffondersi fra gli umani di un morbo sconosciuto che mieteva vittime fra i più anziani e causava malattie gravi anche ai più giovani.
Fu un momento strano: nell’aria si percepiva l’ansia, la paura ma anche una strano senso di vicinanza e solidarietà fra la gente.
Vedevamo uomini in divisa che portavano borse della spesa nelle case. Vedevamo uomini e donne bardati con maschere, copricapo e vesti strane entrare in appartamenti serrati.
Ma osservavamo anche l’apparire sui balconi di scritte colorate che ringraziavano medici ed infermieri e spronavano alla speranza.
Il tempo passava e si notava che la tensione andava diminuendo. Le finestre delle case si aprivano al sole e chi di noi poteva vedere e sentire le novità ci trasmise la notizia che era stato trovato un modo per rallentare il morbo e fermare il contagio.
Si parlava degli eroi medici e infermieri, si parlava di rafforzare il sistema che garantiva la salute delle persone, insomma tutto sarebbe stato migliorato e garantito.
Non sono passate tante stagioni da quei fatti eppure ho appena assistito allo sfogo di un signore non tanto giovane che parlava con un amico.
<<Non mi sentivo bene in questi giorni e sono andato dal mio medico. Mi ha visitato e prescritto delle visite specialistiche. Tu non ci crederai ma per una visita ai polmoni ed al cuore ci vogliono almeno 3 mesi negli ambulatori dell’ospedale. Però se vado a pagamento me lo fanno in  un paio di settimane. Ma ti sembra giusto?>>
<<Figurati>> diceva l’amico  <<mia moglie ha un problema grosso agli occhi e sai quando le hanno dato l’appuntamento? Fra 8 mesi.  Fa tempo a diventare cieca. Abbiamo pagato per una vita le tasse e adesso se vogliamo curarci dobbiamo tirare fuori i soldi. Tanti soldi.>>
<<E’ una vergogna>> continuava il signore <<tante medicine non le passa più la mutua e tante visite che dovevano servire a prevenire le malattie non si possono più prenotare  senza pagare salato.  Ma pensa a chi, poveretto, non ha i soldi. Deve morire.>>
Mi tornano alla mente quelle promesse fatte e quegli striscioni con scritto “Grazie”.
Neppure un morbo sconosciuto e spesso mortale è riuscito a cambiare il modo d’essere di una società che sembra aver smarrito il sentimento di solidarietà umana.
E che lo dica un albero è tutto dire!
VENDETTA
Non saprei dirvi se il racconto che ho avuto modo di leggere alcune primavere fa è un fatto realmente accaduto oppure è solo una fantasia nata dalla profonda tristezza di una donna che ha passato interi pomeriggi a scrivere seduta sotto le mie fronde.
Certo è che percepivo forte l’odore del dolore e dello smarrimento che ancora le riempiva l’animo nonostante fossero passati, per quel che capivo, decenni dall’accaduto.
Ma giudicherete voi.  Il racconto iniziava così:

Era il primo marzo del 1979 quando mi accompagnarono all’ospedale. Faceva molto freddo e nevicava. Una neve eccezionale per quel periodo, ma tutto in quell’inverno era stato eccezionale.
Guardavo fuori dal finestrino della macchina i prati bianchi e gli alberi bellissimi nel loro mantello candido.

Anche la mia mamma era molto bella.
Era stata ricoverata  nello stesso ospedale in cui mi stavo recando quattro mesi prima per dei semplici esami clinici.
Poche settimane dopo, appena prima di Natale, le stringevo la mano ormai rigida e giuravo di vendicarla.

All’accettazione  non fecero grandi controlli: il mio medico aveva fatto una richiesta di ricovero urgente per esaurimento nervoso e pare che per questo tipo di disturbo non ci sia bisogno di visite mediche preliminari.
Inoltre una persona giovane (28 anni questa la mia età) viene generalmente ricoverata  velocemente.
I problemi sorgono quando una persona viene definita anziana: i tempi di accettazione sono lunghi e, se va bene, il paziente rimane in stand by in corridoio per diverso tempo anche se ha febbre.
Poi il medico di turno arriva e, guardando chi l’ha accompagnata con un’aria che dice – quando volete scaricare qualcuno lo portate qui – si decide a visitare e a procedere al ricovero.

Così era successo con la mia mamma qualche mese prima quando era stata ricoverata con dolori fortissimi alla schiena e dopo qualche giorno, cessati i dolori, rispedita a casa senza una diagnosi precisa.
Così era successo ancora qualche settimana dopo quando a causa di una febbre alta e insistente il medico di famiglia ne aveva richiesto il ricovero. Quella volta la fecero aspettare più di un’ora seduta su una sedia in portineria per poi decidersi a spostarla al reparto chirurgia, senza una spiegazione logica.
Eravamo ai primi di novembre e mamma aveva appena compiuto 60 anni.

Entrammo, io e mia sorella che mi accompagnava, al primo piano “reparto neurologia”. Il pavimento in linoleum verde attutiva i nostri passi.
Era l’orario del riposo pomeridiano e non incontrammo quasi nessuno. Mi sentivo tranquilla, direi serena: ora che avevo iniziato, tutto mi sembrava possibile, realizzabile.
Guardai Lisa era distrutta poverina. Gli occhi cerchiati, i capelli in disordine, dimostrava più dei suoi 36 anni.
Dava l’impressione in quei giorni di essere sull’orlo di una crisi profonda anche se cercava di controllarsi.
La morte della mamma era stato un duro colpo anche per lei, poi la malattia di papà, l’andare e venire dagli ospedali, il lavoro, i figli. Poi io che mi ero chiusa in un mutismo innaturale, non mi alzavo dal letto, non mangiavo.
Ebbi un po’ di rimorso nei suoi confronti, avrei voluto rassicurarla, spiegarle che avevo fatto tutto in modo da essere  ricoverata, ma che stavo benissimo; anzi da quando la mamma era morta solo ora ricominciavo a vivere.
Le sorrisi, mi guardò implorante.
<<non preoccuparti – dissi – un poco di riposo e tutto passerà, cerca di non ammalarti anche tu piuttosto>>. Dopo poco se ne andò, la testa bassa, il passo pesante.
Farò pagare a tutti loro anche la tua sofferenza, stanne certa, pensai.

La camera era bianca, a 3 letti separati tra loro da un pannello a soffietto. Dei comodini di ferro smaltato stavano accanto ai letti ed un armadietto a tre ante era posto all’inizio della stanza, proprio di fianco alla porta d’entrata.
Il letto assegnatomi era li, all’inizio, ne fui contenta, questo mi permetteva di avere più libertà di movimento.
Verso le 16 un medico venne a visitarmi, ricordo che mi rivolse alcune domande alle quali risposi con timida chiarezza. Presto se ne andò, per quel giorno mi avrebbero lasciata in pace.
Dopo la cena, che toccai appena, arrivarono i parenti in visita. Mio marito era molto in pena per me.
<<non te la prendere – gli dissi – passerà.>> Poi feci finta di addormentarmi e lui se ne andò.
Quando la folla dei visitatori scemò e le luci vennero abbassate mi alzai ed uscii dal reparto.
Scesi nel sotterraneo dove c’erano le macchinette del caffè. C’erano alcuni degenti e qualche infermiera, nessuno fece caso a me, poi col bicchierino del caffè in mano presi l’ascensore, che a quell’ora era sempre vuoto, e salii al quinto piano “chirurgia”.

Rifeci la strada che avevo fatto tante volte mesi prima e ricordai quel pomeriggio maledetto: eravamo a tavola, era un venerdì, papà e mio marito stavano discutendo di politica e io servivo il pranzo.
Squillò il telefono – era l’ospedale. <<Sua madre è in sala operatoria, è molto grave, venite subito.>> Poche parole – l’inizio della fine.
Era stato un fulmine a ciel sereno, avevo visto mamma la sera prima e mi era sembrata sollevata.
Dopo aver passato due settimane in chirurgia dove l’avevano tenuta quasi completamente a digiuno per vari giorni e sottoposta a continue fleboclisi, era stata trasferita improvvisamente al terzo piano “medicina”.
Non ci spiegarono nulla ed alle nostre insistenti domande rispondevano che con molta probabilità mamma soffriva di una forma grave di cirrosi epatica e che quindi era questione che riguardava la medicina generale.
Intanto il ventre le si era gonfiato ed era molto teso e lei stava peggio di quando era entrata in ospedale.
La sera prima di quel venerdì però, dopo un’iniezione che aveva facilitato l’eliminazione di parte del liquido che si era formato, si sentiva meglio e io l’avevo trovata anche più sollevata.
Mi precipitai con papà e mia sorella all’ospedale, le infermiere del reparto non vollero spiegarci nulla.
Dopo qualche minuto d’attesa vedemmo uscire un medico dalla sala operatoria, era il chirurgo che era intervenuto.
Chiedemmo notizie e, non senza lanciare in’occhiata infastidita all’infermiera che lo aveva chiamato, il Prof. Zacconi ci disse che l’operazione era riuscita, che avevano tolto dalla pancia il grosso ematoma che si era formato per l’accidentale rottura della vena porta, rottura causata da un prelievo mal riuscito.
Nel corso dell’intervento avevano preso l’occasione per dare un ‘occhiata interna.
Ci escluse in modo assoluto che ci fosse un tumore.
Quando portarono mamma in camera andammo a chiedere al primario del reparto cosa diavolo fosse successo.
Ci spiegò, con molta reticenza, che il medico di turno Dott. Guida, nel fare un normale prelievo di siero dall’addome, aveva provocato la foratura della vena porta e che quindi si era dovuti intervenire immediatamente per suturare e togliere l’ematoma che si era formato.
Restammo allibiti. Mamma intanto era in condizioni drammatiche.
Ricordavo ogni cosa mentre camminavo in quel reparto. Mi era noto tutto quanto: dalle poltrone della sala d’attesa, sulle quali avevo trascorso ore in attesa di notizie, ai cartelli appesi che avevo letto e riletto. Un cartello in particolare cercavo in quel momento.
Vi erano annotati i numeri telefonici di emergenza coi quali era possibile chiamare i medici in reperibilità per ogni evenienza.
Il lungo corridoio era deserto, le camere erano al buio per il riposo notturno, sapevo che a quell’ora i degenti che stavano meglio erano in cappella per la funzione serale, chi stava peggio era a letto.
Il turno delle infermiere diurne era quasi finito, tra qualche minuto ci sarebbe stata una sola infermiera per il turno di notte nel reparto.
Trovai il cartello che cercavo ed annotai mentalmente il numero che mi interessava.
Sulla mia lista c’erano 5 nomi e quello del Prof. Logiadini Primario del reparto chirurgia era l’ultimo in ordine di importanza. Le sue colpe erano di leggerezza ed indifferenza nei confronti di una paziente affidata al suo reparto.
Erano colpe che sommate a quelle degli altri responsabili, erano costate la vita alla mamma. Come tutti gli altri lui doveva pagarle il suo debito.
Al mattino fui sottoposta ad una serie di esami e controlli. Un medico mi visitò ed un altro parlò con me a lungo.
Non ricordo nulla di quello che mi disse, ne di quello che risposi, il risultato fu che mi prescrissero delle pillole e un’iniezione al giorno. L’infermiera mi fece male nel farmela e le pastiglie avevano un sapore cattivo.
A pranzo non toccai quasi nulla, ma la cosa passò inosservata perché il mio piatto lo vuotò una delle mie compagne di stanza.
Non parlavo con loro ma questo non le stupiva, in fondo il reparto non era certamente pieno di gente del tutto normale.
Alle tredici mi alzai dal letto ed andai in bagno, mi pulii le mani e tolsi dalla borsa da toilette quello che mi serviva e lo misi in tasca della vestaglia.
Tornai in camera, vidi che le infermiere di turno stavano mangiando, alcuni malati scendevano al bar per il caffè. Io mi avviai al telefono e feci quel numero.
Rispose una donna:  << E’ il reparto chirurgia dell’ospedale signora, vorrei parlare col Prof. Logiadini, è urgentissimo. >> la mia voce era concitata.
Il medico rispose quasi subito: <<Professore deve venire immediatamente c’è un’emergenza>>
<<ma chi è lei, il Prof. Zaccone non è presente? E Suor Anna?>>
<<Professore suor Anna non può lasciare il suo posto e il Prof. Zaccone è introvabile. Suor Anna mi ha ordinato di telefonare è una cosa veramente urgentissima. >> ci fu una breve pausa  <<Va bene vengo. >>  Ero soddisfatta.
Scesi nel sotterraneo e presi un caffè. Dalla macchina distributrice si poteva vedere il parcheggio riservato ai medici. Dopo un quarto d’ora vidi una macchina arrivare: era il mio uomo.
Salii al piano terra e chiamai l’ascensore, attesi e come previsto lo stesso venne chiamato nel sotterraneo.
Il professore entrò, era sudato ed affannato, mi guardò interrogativamente – quinto piano – dissi e lui schiacciò il pulsante.
Mi girai in modo da avere la pulsantiera a portata di mano, mentre lui guardava impaziente l’alternarsi dei numeri sul quadrante luminoso.
Piano terra, primo piano, secondo piano, schiacciai l’alt.
Si girò verso di me, l’espressione infastidita. Sorrisi e la piccola arma invisibile che tenevo in mano gli penetrò nella carne, in fondo, in fondo, sino a raggiungere il cuore. Si appoggiò alla parete e scivolò giù, gli occhi pieni di stupore, senza un grido, senza niente.
Tolsi la mia piccola infallibile amica dal suo petto, non uscì quasi sangue, me la rimisi in tasca accuratamente, poi schiacciai il pulsante sul terzo piano e lo programmai poi perché salisse al quinto.
Quando le porte si aprirono non c’era nessuno, come previsto, tante volte ero arrivata a quell’ora per dare il cambio a mia sorella, non avevo mai incontrato nessuno.
Scesi piano con le scale, sentivo l’ascensore salire, in me nessuna emozione. Entrai nella mia camera, presi la borsa da toilette ed andai in bagno. Mi lavai i denti ed infilai il lungo micidiale ago nel lungo tubetto del dentifricio. Cinque minuti dopo ero a letto e dormivo.
L’ascensore salì al quinto piano e si fermò. Rimase fermo per alcuni minuti finché una donna al piano terra non lo chiamò.
Quando le porte si aprirono, il corpo del professore era seduto sul pavimento con la testa reclinata in avanti.
Chiamati i soccorsi, l’uomo venne portato in rianimazione pensando ad un malore, ad un infarto.
Ci volle l’autopsia per scoprire la causa vera della morte. Il petto villoso del medico aveva nascosto il piccolo foro orlato di rosso all’altezza del cuore.

La polizia scoprì presto la chiamata d’emergenza e altrettanto presto che era falsa.
Scoprirono anche che la causa della morte era dovuta ad un corpo estraneo di piccolissime dimensioni, piuttosto lungo ed appuntito conficcato in modo preciso direttamente nel cuore. Il delitto era avvenuto in ascensore.
Altro non avevano potuto stabilire, non si era trovata l’arma, non si trovava un movente, l’ascensore era stato troppo usato prima che ci si rendesse conto di quello che vi era successo.
La notizia arrivò al mio reparto con l’arrivo dei parenti in visita dopo cena. Non si parlava ancora di omicidio. Io ne sentii parlare vagamente, il volto di mamma dalla parete di fronte mi sorrideva.
I giorni seguenti passarono in visite e controlli vari. Il giovane medico a cui ero stata affidata si sedeva vicino al letto e parlava, parlava.
Mi resi conto che non mi faceva delle vere e proprie domande, piuttosto mi invitava a discorrere con lui. Gli davo retta per un po’,  dopo di che davo segni di stanchezza e lui si alzava, mi diceva che miglioravo e che era contento che avessi ripreso a mangiare. Non lo disilludevo e non lo faceva neppure la mia vicina che da quando ero arrivata mangiava doppia razione.
Ai miei cari sembravo più serena e quando lasciavano la stanza erano più sollevati.
Nessuno fece cenno a quello che era successo in ospedale. I pazienti dovevano restare sereni.
Qualche sera dopo alle 20:30 una signora gentile si affacciò alla camera chiedendo se fossimo interessate alla funzione serale in cappella. Le mie compagne la seguirono, io feci finta di appisolarmi.
Poco dopo mi alzai e andai in bagno -  10 minuti dopo salivo in ascensore alla volta della cappella.
Rimasi seduta sulle panche di legno lucido finché se ne andarono tutti.
Il sacerdote uscendo mi diede un’occhiata ma non disturbò il mio raccoglimento.
Mi tornò in mente il sacerdote della clinica universitaria dove avevamo trasportato mamma come estremo tentativo di salvarla. L’avevo fermato quando per lei era evidente che non c’era più nulla da fare. Mi rispose che aveva già provveduto al rito dell’estrema unzione. Quando e come non ci fu dato di sapere.
Erano le 21:30 quando uscii dalla cappella. Sapevo con esattezza che a quell’ora il cambio delle infermiere era già avvenuto e che il primo giro dei pazienti da parte del personale di turno era finito. L’infermiera (nei reparti femminili in genere c’era personale femminile) si sarebbe ritirata nella piccola cucina del reparto per il solito caffè.
Scesi a piedi dal sesto al quinto piano; le luci erano spente, entrai piano attraverso la porta a vetri, non incontrai nessuno.
Dalla porta dello studio del vice primario di turno filtrava la luce. Mi diressi a quella porta e bussai.
Il Dottor Zaccone si stupì nel vedere una paziente entrare, sicuramente il suo “avanti” era indirizzato all’infermiera.
Comunque non si alzò dalla poltrona dove stava e mi chiese, con una certa cortesia cosa desiderassi.
Fuori dei passi incerti, felpati – una malata tornava al suo letto.
Anche per il Dottore la morte arrivò così: improvvisa, inspiegabile, negli occhi un interrogativo al quale nessuno più avrebbe risposto.
Il lungo spillone era conficcato appena sotto l’orecchio destro -  un punto vitale, come diceva il libro sul quale avevo studiato per giorni e giorni. Non avrei potuto sbagliare.
Quel medico ci aveva assicurato che nessun tumore era stato riscontrato ed aveva dichiarato che, per sicurezza, aveva fatto una biopsia al fegato.
Negli ultimo giorni quando ormai era chiaro che nessuno in quell’ospedale sapeva o voleva curare mamma, di quella famosa biopsia non rimaneva traccia. Alle nostre insistenze lo stesso chirurgo ci disse che in sala operatoria c’era più di un paziente, probabilmente si era confuso.
Mi avviai alla porta, aprii piano toccando la maniglia col fazzoletto come avevo fatto nell’entrare. Mi diressi fuori dal reparto avendo cura di tenere il volto nascosto agli sguardi di eventuali osservatori ancora svegli.
Raggiunsi l’ascensore mentre sentivo i passi decisi dell’infermiera che rientrava nel reparto. Erano trascorsi pochi minuti.

Il Commissario Senna era un uomo sui 55 anni, alto e robusto, aveva il viso quadrato dal naso grosso, incorniciato da folti capelli quasi completamente bianchi.
Negli occhi, di un azzurro pallido, pallido mi sembrava scorgere una stanchezza profonda.
Io lo osservavo stando seduta nella piccola sala di lettura che si affacciava sul corridoio mentre parlava col primario del mio reparto.
Guardavo quell’uomo e avevo la strana sensazione di essere tornata bambina di fronte al mio grande papà, come lo vedevo all’ora, così alto, così forte ed ora così perso.
Ebbi l’impulso di correre da quel papà e una lama sottile mi penetrò nel cuore.
Non avrei più potuto vivere se non avessi portato a termine la mia vendetta.

Neppure questa volta la polizia aveva scoperto nulla.
L’infermiera era entrata dal medico poco dopo le 21:30 per offrirgli il caffè e l’aveva trovato addormentato appoggiato alla scrivania, così almeno le era sembrato e non lo aveva disturbato.
Poco dopo mezzanotte però una paziente aveva suonato il campanello e l’infermiera accorsa si era trovata in difficoltà ed aveva allertato il medico.
Naturalmente, non ricevendo risposta, si era avvicinata per scuoterlo ma il piccolo foro e la riga di sangue ormai raggrumato aveva chiarito la situazione.
Allarmata, senza rendersi ancora ben conto di quanto fosse successo, aveva chiamato la collega dell’altra corsia e con lei avevano dato l’allarme.
La polizia chiamata era arrivata velocemente capeggiata dal Commissario in servizio.
Fecero i rilievi del caso ma non trovarono assolutamente nulla. Dalle domande alle pazienti del reparto svegliate dal trambusto non emerse niente. Nessuno aveva visto o sentito nulla di insolito.

La notizia si diffuse solo verso le 5 del mattino al cambio dei turni.
Al quinto, sesto e quarto piano tutto il personale era in subbuglio. Al terzo il personale si fermava a bisbigliare, al secondo si notavano facce preoccupate, al primo non si notò nulla di strano, ai pazienti non giunse niente.
Naturalmente i due decessi furono collegati e l’ipotesi più accreditata dalle forze dell’ordine era indirizzate verso la ricerca di un estraneo introdottosi in ospedale.
Si rifletteva sulla possibilità dell’agire di un pazzo. Oppure  su una azione dettata da rancore.
Si poteva pensare a qualche operatore ospedaliero allontanato per motivi vari dai due medici, o forse a qualche errore medico in grado di scatenare quell’assurda vendetta.
Il commissario Senna predispose le ricerche su questa linea di indagine, non trascurando però anche l’ipotesi di qualche maniaco psicopatico. Ecco perché era sceso al primo piano.
Col primario del reparto neurologia passarono in rassegna tutti i ricoverati ma nessuno era in condizioni così gravi da essere sospettabile.
C’era qualche anziana sclerotica, alcuni casi di nevrastenia non grave, alcuni esaurimenti nervosi e qualche crisi depressiva come nel caso di quella giovane signora rimasta particolarmente provata dalla morte della madre. – No, non era morta in quell’ospedale ma in una clinica universitaria in un’altra provincia. – Anche in questo caso, comunque, non era niente di grave, inappetenza e stanchezza cronica, già in via di miglioramento.
Quando Senna se ne andò era convinto che se si trattava di un caso di pazzia non andava cercato fra i ricoverati di quel reparto.

Quel giorno ed il seguente passarono senza che potessi fare niente. C’era troppo movimento in giro. L’opinione corrente, arrivata anche a noi, era che si trattasse di una vendetta personale di qualcuno che aveva subito dei torti dal personale medico del reparto chirurgia.
Ad avvalorare questa tesi contribuiva il poliziotto che era stato messo di guardia al quinto piano.
Io mi sentivo peggio che mai, l’ansia mi divorava, il cuore a volte batteva veloce, a volte sembrava fermarsi e mi sentivo svenire mentre dovevo lottare disperatamente contro la voglia di urlare. Ero pallida e stravolta tanto che l’infermiera fece intervenire il medico per darmi un’occhiata.
Quando arrivò riuscii a dominarmi un poco e gli dissi che non ero riuscita a dormire la notte passata. Ne diede la colpa all’agitazione che pervadeva i reparti e mi prescrisse un calmante più forte.
Il mattino seguente stavo meglio ed ero pronta per continuare il mio lavoro.

Sapevo per esperienza che il primario del reparto “medicina” arrivava verso le 9:30 e per prima cosa faceva visita alle stanze dei solventi (persone che pagavano privatamente).
Avevo poco tempo a disposizione perché alle 10:30 ci sarebbero state le visite mediche anche da noi.
Salii in ascensore al terzo piano e mi introdussi nella zona riservata ai privati. Non c’era sorveglianza, come immaginavo, le colazioni erano già state servite e non tutte le camere erano occupate.
Vedevo in fondo al corridoio, attraverso una porta e vetri, l’atrio del reparto riservato agli assistiti in regime di servizio sanitario nazionale. Infermieri e pazienti si preparavano alle visite mediche.
Alle 9:40 vidi il professor Rocca entrare nell’atrio e dirigersi verso il suo studio.
Aspettavo immobile mentre col pensiero rivedevo quell’uomo che con parole forzatamente cortesi cercava di convincerci che ciò che il suo collega aveva fatto alla mamma non fosse un errore  ma semplicemente un piccolo incidente che poteva capitare a tutti, specie se la paziente si fosse dimostrata estremamente agitata.
Lo vedevo ancora mentre, cercando di essere paziente, ci spiegava che una persona che beve molto è soggetta alla fragilità capillare ed a forme di cirrosi epatica grave.
<<mia madre non beve dottore>> risposi io con estrema calma.
Ricordavo il suo sguardo scettico e il patetico tentativo di convincerci che i famigliari sono sempre gli ultimi a scoprire le forme di alcolismo avanzato.
Mi riscossi e qualche minuto dopo vidi il primario entrare solo, il camice bianco aperto e svolazzante.
Lo chiamai, avevo freddo, tremavo leggermente, mi sentivo strana come se fossi al di fuori del mio corpo e guardassi la scena attraverso uno specchio.
Sentii la mia voce che diceva con calma che avevo bisogno di parlargli.
Si avvicinò fissandomi nel tentativo di riconoscermi.
<<Mi scusi – mi sentii dire – sono una parente del numero 58 >> Vidi negli occhi del professore passare un lampo, forse un ricordo improvviso: mamma era al numero 58.
Allungai la mano come per fare una carezza, poi lo vidi cadere e sentii il tonfo sordo del corpo sul pavimento.
Restai per un attimo ad osservarlo poi, d’improvviso, i rumori dell’ospedale mi assalirono. Mi resi conto di dove mi trovavo e sentii chiarissimi i passi veloci del personale che si avvicinavano.
Mi girai e corsi, le pantofole attutivano il rumore e raggiunsi l’ascensore di servizio che avevo fatto in modo di tenere aperto. Quella breve corsa mi aveva sconvolta più di qualsiasi altra cosa. Avevo dovuto mettere in moto muscoli e nervi da troppo tempo tenuti a freno, i polmoni mi scoppiavano ed ero in un bagno di sudore.
Arrivata al quinto piano uscii dall’ascensore e presi la scala esterna; il freddo di quel mattino di marzo mi calmò un poco.
Rientrai nel mio reparto camminando lentamente – le visite non erano ancora cominciate, l’orologio della corsia faceva le 9:50 – chissà perché sorrisi.
Non ci furono visite quel mattino e neppure per tutto il resto della giornata.

Tutto il personale medico e non dell’ospedale si era riunito in assemblea straordinaria. Il panico si era diffuso ovunque e nessuno più si sentiva sicuro.
La polizia aveva bloccato tutte le entrate e uscite, il disagio era enorme, a malapena venne servito il pranzo ai pazienti.
Nel tardo pomeriggio però i famigliari dei degenti cominciarono a telefonare e all’orario delle visite le forze dell’ordine non poterono fermare la fiumana di persone che spingeva ai cancelli.
Anche nel mio reparto la tensione si fece sentire, i campanelli di richiamo del personale squillavano in continuazione ed alla fine il personale dovette rientrare.
Quella notte molti parenti non vollero lasciare i loro congiunti e si accesero così diverse discussioni con gli addetti alla sorveglianza.
Alla fine la direzione dell’ospedale dovette intervenire perché pazienti e parenti fossero lasciati in pace ed il Commissario Senna dovette richiamare i suoi uomini.
Le indagini comunque, nonostante tutta la confusione di quel giorno, furono portate aventi.

La capo infermiera della medicina giurava di aver perso di vista il professor Rocca solamente per qualche minuto, il tempo cioè di prendere le cartelle cliniche già pronte sulla scrivania e di raggiungere il medico nel reparto.
Quando era entrata l’aveva scorto per terra ed aveva subito gridato aiuto.
Tutti i pazienti ricoverati in quel reparto furono attentamente interrogati e indagini approfondite furono fatte sugli stessi.
Ci fu anche una perquisizione accurata ovunque ma, come sempre, non fu trovato nulla.
Finalmente però dagli interrogatori era uscita una traccia: un ricoverato aveva riferito di aver udito una voce femminile chiamare il professore chiedendo notizie    su un paziente – il numero 58.
Qualche secondo dopo aveva sentito un tonfo poi un rumore di passi veloci ma soffocati, infine l’urlo dell’infermiera.
I pazienti, sia uomini che donne, rispondenti al numero 58 furono interrogati, controllati, vagliati e così tutti i componenti anche lontani delle rispettive famiglie. Il loro passato riportato a galla, assolutamente niente fu tralasciato, ma il risultato fu zero. La conclusione fu che il numero sentito era solamente un mezzo detto a caso per attrarre l’attenzione del medico.

La cartella clinica di mamma – dopo essere stata fotocopiata per il trasferimento all’altro ospedale – era stata ripulita da tutte quelle annotazioni un poco antipatiche ed archiviata fra quelle dei pazienti dimessi o trasferiti.

L’unico dato ricavato dalle indagini era che la persona da ricercare era molto probabilmente una donna. Da quanto sentito dal testimone si poteva dedurre trattarsi di una figura esterna all’ospedale ma poteva trattarsi di chiunque.
C’era poi il particolare del rumore soffocato dei passi, ma anche questo non significava gran che: medici, personale infermieristico, ausiliari, pazienti – tutti portavano calzature comode e non rumorose, inoltre erano molto di moda anche scarpe gommate.
In conclusione in mano agli inquirenti rimaneva ben poco. L’assassina era presumibilmente una donna, molto ben inserita nell’ambiente in quanto a conoscenza di orari, abitudini e spostamenti dei medici uccisi.
Passarono alcuni giorni nei quali non mi mossi dalla mia stanza. Non stavo bene, sembrava avessi esaurito ogni forza. I miei erano preoccupati ma tutto veniva imputato al clima nervoso ch si respirava nell’aria.
Piano, piano però si tornava alla normalità, il personale di sorveglianza diminuiva, infermieri e medici tornavano a chiacchierare e qualche breve battuta spiritosa tornava a farsi sentire.
Io iniziai a star meglio e tornai di nuovo a passeggiar per i corridoi. Scesi anche a prendere un caffè, nessuno mi fermò o fece caso a me.
Sinceramente neppure io facevo caso a me stessa, camminavo, mi muovevo, mangiavo e mi guardavo allo specchio ma non ero presente. Vivevo al di fuori, in un altro mondo, un mondo grigio senza interrogativi, senza domande e senza risposte.
Rimasi a lungo in quello stato finché una sera qualche cosa mi scosse.
Ero a letto, doveva essere tardi perché i parenti erano usciti da un pezzo e le luci erano state spente. Fissavo il muro di fronte a me e avevo la mente completamente vuota. Ad un tratto però qualche cosa attrasse la mia attenzione, qualche cosa che mi accese dentro un’angoscia profonda, insopportabile, tanto insopportabile che provai l’impulso fortissimo di mettermi ad urlare. Tutti i miei nervi erano ora tesi al massimo.
Scesi dal letto e così, come mi trovavo, uscii nel corridoio, camminavo lentamente ma seguivo un impulso preciso.
Non incontrai nessuno e ben presto mi accorsi di trovarmi nel reparto medicina al terzo piano – ero salita a piedi.
Mi affacciai alla prima camera del reparto, mamma mi guardava dal letto 58. Percepii solo in quel momento, distintamente, quel dolce, disgustoso odore di tabacco da pipa.
Mamma mi guardava con grandi occhi tristi, mi girai  mi diressi all’ufficio del vice primario.
Quando aprii la porta dell’ufficio del dottor Guida stava tranquillamente fumando la sua maledetta pipa ed era assorto nella lettura di un giornale.

Ricordai il giorno del trasferimento di mamma, lui era sulla soglia della stanza – mi fermò e sorridendo mi disse – mi raccomando signora, mi tenga informato, sono curioso di sapere come va a finire.

Quell’uomo e quell’odore accrebbero in me una rabbia buia unita ad una disperazione profonda. Accanto a me, sul tavolo d’acciaio, vicino alla poltrona, un grosso posacenere di cristallo.
Due secondi dopo il dottor Guida giaceva ai miei piedi con la testa fracassata.
Stetti ad osservarlo per un momento, mentre con l’orlo della camicia da notte pulivo meccanicamente il posacenere. La rabbia era sparita, la disperazione no.
Uscii tranquillamente e diedi un’occhiata alla prima camera del reparto. Il letto n. 58 era vuoto.

Mi accorsi più tardi di avere la camicia tutta macchiata di sangue, me ne stupii molto e sinceramente pensai a che cosa diavolo mi fosse successo. Entrai nella mia camera mi sedetti sul letto e con la mano destra feci cadere a terra il bicchiere di vetro che tenevo sul comodino.
Il tonfo svegliò le mie compagne di stanza che accesero la luce. Io mi tenevo sul grembo la mano ferita con la quale avevo cercato di raccogliere i cocci taglienti e cercavo di fermare il sangue con la camicia da notte.
Ben presto accorse l’infermiera di turno che medicò il taglio abbastanza profondo e mi aiutò a cambiarmi.  Poi un’iniezione calmante mi fece assopire mentre sentivo la stessa infermiera che ripuliva il mezzo disastro che avevo fatto.
Quando gli agenti accorsero alle grida  dell’infermiere di turno al terzo piano, il dottor Guida non era ancora morto ma la confusione, il panico e l’agitazione generale non lo salvarono di certo.
Da quel momento l’ospedale fu messo in stato d’assedio. Nessuno poteva uscire od entrare senza un accurato controllo.
Tutte le persone presenti nell’edificio al momento dell’omicidio furono controllate ed un’accurata perquisizione fu fatta.
Naturalmente anch’io fui sottoposta a controllo, che si fece più attento quando trovarono la mia camicia da notte insanguinata. L’infermiera che mi aveva soccorsa, ancora in servizio perché il personale non aveva avuto il permesso di lasciare l’ospedale, spiegò che mi ero ferita la sera prima e fece vedere il taglio alla mano. Poi dichiarò che ero stata sedata e che per tutta la notte non mi sarei potuta muovere dalla stanza.
Frugarono anche fra le mie cose, anche nella mia borsa da toilette. Tolsero tutto quanto ed ispezionarono molto bene, non tolsero però il tappo del lungo tubetto del dentifricio.
Risposi alle loro domande sforzandomi di essere precisa, il medico curante comunque confermò che da diversi giorni ero sottoposta ad un regime di tranquillanti per cui mi lasciarono in pace e passarono oltre.

Nella cittadina arrivarono grossi nomi della polizia, la situazione era grave ed i giornali di tutto il paese martellavano in continuazione, anche la politica si mosse e tutti i panni sporchi dell’ospedale furono ben stesi di fronte all’opinione pubblica.
Al commissario Senna giunse un ultimatum perentorio: tutto si doveva risolvere al più presto.
Dal canto suo Senna ed i suoi collaboratori erano ora veramente nei guai, difficile infatti stabilire se questa ultima morte era agganciata alle altre – troppo diverso era il modus operandi.
Controlli e perquisizioni intanto proseguivano ma ormai si disperava di trovare qualche elemento utile.

Il giorno successivo, presso un ambulatorio medico territoriale, si presentò uno strano tipo.
Alto, magro, gli occhi spiritati, chiese di essere ricevuto dal medico di turno.
<<Confesso tutto – disse al giovane medico che aveva di fronte – Non ne posso più, lei deve capire, io sono pericoloso, lasciarmi andare in giro vuol dire rischiare un massacro, mi deve credere >>
Il sanitario era allibito. <<No, no non mi venga vicino, per l’amor di Dio, non mi tocchi. E’ da quando ero ragazzo che continuo a dirlo, ma nessuno mi crede e il risultato, ha visto il risultato?>>
Il pover’uomo si asciugò il sudore dalla fronte e si sedette. Nel frattempo, nella stanza era arrivato un altro medico.
<<Deve sapere dottore che io sono malato, molto malato – ho la rabbia, si, si proprio la rabbia, mi creda – e lei lo sa quando uno ha la rabbia può fare una carneficina. Io lo dissi al mio medico e sa dove mi ha mandato? Al reparto neuro dell’ospedale, ecco dove mi ha mandato.
Ho cercato di spiegare che io dovevo essere isolato, curato, ma quei dottori della malora niente, niente>> Fece una breve pausa << mi hanno tenuto lì per un po’ e poi via, mi hanno rispedito fuori. Dopo un po’ cosa mi capita? Bé non mi è venuta la cefalea e lei lo sa, vero dottore, quando arriva la cefalea e prende dal mento in su non c’è più niente da fare. E allora cosa ho fatto io? C’era una bottiglia di candeggina e giù, me la sono bevuta tutta, così stop era finita. Ebbene non mi hanno forse salvato, quei disgraziati. Ora però gliel’ho fatta pagare,  ma sono stanco di uccidere, voi dovete fermarmi, curarmi, altrimenti li ammazzo tutti.>>
I due medici si guardarono, dieci minuti dopo il tizio era davanti al Commissario Senna.
I quotidiani del pomeriggio davano molto risalto alla cattura del pazzo omicida reo confesso dei vari omicidi commessi all’ospedale.
Ci fu anche una conferenza stampa da parte dei grossi capi. Visi ed espressioni erano raggianti: finalmente il caso era risolto, finalmente sarebbe tornata la normalità.
Il Commissario Senna, poco prima minacciato e soggetto a pressioni di ogni genere, era ora al centro di espressioni di compiacimento e congratulazioni.
<<Sembravano tutti matti – disse Senna alla moglie quella sera – non c’è un elemento sicuro per pensare che quel povero matto abbia detto la verità. E’ pratico dell’ospedale d’accordo, poteva avere dei rancori nei riguardi dei medici, d’accordo, ma gli elementi che abbiamo in mano ci portano su altre piste.
Inoltre è completamente fuori di testa, come avrebbe fatto a commettere quegli omicidi senza lasciare la minima traccia. Non credo una parola di quello che dice.>>
Per tutta la notte non dormì ed al mattino, per prima cosa, si recò dal suo superiore per fare un chiaro e sincero rapporto sul caso.
<<Lei è allo soglie della pensione caro Senna – i modi del capo erano molto cortesi, i suoi occhi lo erano molto di meno – Ieri si è parlato molto di una promozione e, lei capisce, una promozione ora significa un cospicuo aumento  di pensione per lei, significa sicurezza per tutto il resto della sua vita. Inoltre – proseguì il capo – pensare solamente di aver preso un granchio, dopo tutto il chiasso di ieri sarebbe molto imbarazzante per tutti – mi capisce vero?>>
Si il povero Senna capiva bene, ci voleva coraggio, forza, ci voleva qualche cosa che lui non aveva.
Pensò alla moglie, alla sua casa e quando uscì, quindici minuti dopo, cominciava veramente a credere di aver risolto il caso.

Mi sentivo molto meglio in quei giorni. Il sole era tornato e splendeva tiepido, l’aria era piena di una primavera ritrovata.
Percepivo dentro di me una dolce malinconia e desideravo la compagnia di mio marito. In ospedale tutto era tornato quasi normale.
Alla sera mia sorella mi portò delle fotografie di papà prese durante il suo soggiorno al mare di qualche giorno prima. Sorrideva con grande allegria tra uno stuolo di arzille signore che lo abbracciavano. Per la prima volta riuscii a pensare a mia madre serenamente, pensai che dopotutto  doveva essere felice dall’altra parte.
Forse vivere non era stato così facile per lei, come pensavo io. Quella notte la sognai felice sulla soglia del cimitero, mi sorrideva mentre mi mostrava la sua tomba.
Passarono ancora un paio di giorni ed ero pronta per essere dimessa. Al mattino del giovedì successivo telefonai a casa perché mi venissero a prendere.
Un’oretta dopo arrivò mio marito con mia sorella. Mi vestii mentre lui portava in macchina le mie cose, poi ci avviammo agli ascensori.
Mia sorella si ricordò all’improvviso che doveva ritirare la lettera di dimissioni e tornò in reparto mentre io schiacciavo il pulsante.
Pochi attimi dopo l’ascensore arrivò ed io salii. Le porte si chiusero ed io alzai gli occhi e guardai la persona che stava scendendo con me.
Era un uomo sui 50 anni ed aveva un viso stranamente famigliare. Il quadrante luminoso ci disse che avevamo raggiunto il piano terra, entrambi però dovevamo raggiungere il sotterraneo dove si trovava il parcheggio.
Pochi istanti dopo l’ascensore si fermò, ma con nostra sorpresa le porte non si aprirono e ci accorgemmo di essere bloccati fra i due piani.
La persona che era con me, innervosito, schiacciò di nuovo il pulsante poi, visto che non ci si muoveva, schiacciò l’allarme.
Non ero per niente nervosa, ne preoccupata, ma continuavo a fissare il mio compagno nel tentativo di ricordare chi fosse.
L’uomo intanto si era girato e mi guardava con espressione da prima preoccupata, poi man mano che il tempo passava leggevo nei suoi occhi un terrore crescente finché all’improvviso si scagliò contro le porte di ferro urlando con tutto il fiato che aveva in corpo.
<<Aiuto, aiuto – gridava – tiratemi fuori>> Poi girandosi verso di me, la fronte madida di sudore <<No, no – gridava – non è stata colpa mia, la prego non è stata colpa mia, aiuto, aiuto >> e batteva i pugni contro le pareti piangendo.
Non si accorse neppure che dall’esterno qualcuno gridava di star calmi che presto ci avrebbero liberato.
Quando le porte finalmente si aprirono l’uomo era a terra e respirava con fatica.
Accorsero gli infermieri del pronto soccorso e, mentre mio marito a mia sorella cercavano di tranquillizzarmi in ogni modo senza che peraltro ce ne fosse bisogno, arrivò un medico che diede disposizioni perché il signore svenuto fosse portato in sala di rianimazione.
Lo portarono via ed io mi avviai all’uscita.
Nel pomeriggio degli amici ci informarono che quel poveretto non ce l’aveva fatta. Era malato di cuore e lo stress dell’ascensore lo aveva stroncato.
<<Sai chi era quello - mi sussurrò mia sorella >>
No, aveva una faccia nota, ma non sono riuscita a ricordare chi fosse.
<< Era il professor Ferrari, sai quello che aveva in cura la mamma negli ultimo giorni prima che la trasferissimo.>>
Nel mio giardino Il sole splendeva e nelle aiuole i primi fiori erano sbocciati.

NON SIAMO SOLO ALBERI
E’ estate e nel piccolo parco della piccola cittadina bambini e ragazzi giocano, ridono, si rincorrono e non sanno che io li osservo e non sono il solo.
L’umanità  ancora pensa di essere la sola forma di vita in questo mondo fornita di una intelligenza consapevole.
Non è così. L’uomo si ritiene superiore agli altri abitanti di questa terra perché possiede  linguaggio  e ragione, ha coscienza di se e del mondo, una volontà e razionalità.
Ma è certo di essere il solo ad avere queste caratteristiche.
Noi alberi comunichiamo fra noi con forme di linguaggio altamente sofisticato e non lo facciamo a vanvera, I nostri messaggi hanno uno scopo, un tempo e una ragione.
Sappiamo chi siamo e che ruolo abbiamo in questo ecosistema e chi può mettere in dubbio il nostro agire sensato quando modifichiamo il nostro aspetto e postura in base a specifiche motivazioni.
E il mondo animale non segue forse queste regole?
Gli umani costruiscono strumenti e città. Le termiti africane costruiscono grattaceli, i castori erigono dighe e gli uccelli preparano spettacolari nidi intrecciando rami e fango.
L’unica cosa che gli esseri umani possiedono in abbondanza è la superbia legata ad una capacità distruttiva illimitata.

Ma ora  è tempo di riposare. Domani altre storie saranno raccolte e altre raccontate.


1 Ilaria Pertot e colleghi studiano il processo di comunicazione delle piante per aumentarne la resilienza, un elemento chiave del progetto RhizoTalk, finanziato dall’UE.
<<E’ vero che le piante possono comunicare tra loro, e lo fanno spesso», esordisce Pertot. «E le piante possono parlare con tutte le altre piante, non solo con le piante della stessa specie.» Per comunicare, le piante non usano le vibrazioni come fanno gli insetti e altri organismi; rilasciano invece composti organici volatili (COV), tipi di profumi chiamati cairomoni, dai fiori, dalle foglie e dalle radici. Ogni composto è diverso, ma fornisce segnali alle piante e agli altri organismi vicini per fornire informazioni specifiche o per avvertirli di un possibile attacco.




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