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Gerardo Simeone
Lagunando 2024 > AUTORI 2024
Gerardo Simeone

Nasce a Dolo, vive a Dolo, probabilmente morirà a Dolo.
Gerardo è stato un aspirante ingegnere aerospaziale, ora è semplicemente un aspirante scrittore.
Scrive soprattutto racconti Fantasy e di Fantascienza, senza disdegnare i sottogeneri meno battuti (Weird).
Stanislaw Lem è il miglior scrittore di Fantascienza, per lui mai esistito.
Cerca, senza successo, di ispirarsi anche a Dick, Van Vogt e Heinlein.
Per il resto, legge un po’ tutto quello che gli capita a tiro.
“Orti dei Dogi”
Narrativa
Modernità






Mancavano pochi chilometri, ormai, a Peter, per arrivare finalmente a casa dello zio, dall’altra parte del paese. Gli occhi affaticati scrutavano la sua figura rachitica dal suo specchietto retrovisore, imploranti un riposo che sapeva di non potersi più permettere. Gli ultimi tre giorni in auto, tra soste e nottate in alberghi economici e stressanti, avevano esaurito le sue energie mentali e fisiche, oltre ai pochi soldi rubati ai suoi genitori. Ne sarebbe valsa la pena: dal momento esatto in cui sarebbe arrivato a casa dello zio Eric, la sua vita sarebbe certamente cambiata per il meglio. Si sarebbe lasciato alle spalle tutte le difficoltà. Come se non fosse bastato, avrebbe avuto a sua disposizione tutte le opportunità, fino a quel momento, soltanto sognate. Ciò che bramava più di ogni altra cosa, tuttavia, era stato anche ciò  che lo aveva spinto a lasciarsi casa sua alle spalle, per affrontare migliaia di chilometri da solo: avrebbe lasciato per sempre nel loro brodo sua madre e quel fallito del suo compagno.
L’astio scaturito da quell’ultima rivelazione si amalgamò dolcemente con l’eccitazione per l’attesa di quell’incontro, infondendolo di forze che non pensava di avere più. Ben presto, un viaggio ben più piacevole diede sollievo al suo cervello spossato: cocktail a bordo piscina; viaggi nell’aereo privato dello zio; intere giornate buttate ad esplorare le oltre 30 stanze della sua villa coloniale. Inebriato da quelle visioni, fu soltanto un fugace attimo di lucidità ad impedirgli di schiantarsi contro un lampione. Mise subito da parte quei pensieri e si concentrò al massimo sulla guida. Le palpebre ormai cedevoli, arrivò dopo poco tempo all’indirizzo che aveva inciso nella sua memoria, dopo averlo cerchiato con un pennarello, sulla cartina cittadina. Sentì un balzo al cuore e sgranò gli occhi, fulmineamente rinvigoriti dall’orrore dell’inaspettato. La sorpresa fu soverchiante a tal punto, da ricacciargli in gola le urla. La villa con 30 stanze, servitù sempre a disposizione e doppia piscina, descritta dallo zio nelle sue innumerevoli telefonate a casa, non esisteva altro che in quelle telefonate. Quella stamberga in legno imputridito era accerchiata da erba alta almeno un metro, contenuta a stento da un cancello ormai consumato dalla ruggine, nella quale si stagliavano miriadi di scatoloni di ogni forma, colore e dimensione, sparsi alla rinfusa come piante da ornamento. Discrepava con i suoi sogni, disgregandoli in un attimo, facendo spazio ad una realtà molto più potente di qualsiasi fantasia lo avesse accompagnato in quel lungo viaggio e negli ultimi vent’anni di vita.
Riemerse a fatica, dall’apnea di incredulità nella quale era sprofondato, mosso da un’irrefrenabile desiderio di verità. Spalancò in tutta fretta il cruscotto dell’auto, per recuperare la carta della città. Zio Eric non aveva alcun motivo di mentire e, per come lo ricordava, non ne sarebbe neanche stato capace. Recuperata la cartina cittadina, ne tirò i lati fino quasi a strapparla, alla ricerca del cerchio rosso. Lo contemplò per qualche secondo, prima di scoppiare in una risata liberatoria. Soltanto in quel momento, si rese conto di quanto,  diversi giorni prima, fosse stato uno stupido: il cerchio era grande a tal punto da comprendere almeno un paio di quartieri. Aveva certamente sbagliato ad appuntare l’indirizzo oppure, in uno dei suoi famosi scherzi, lo zio gli aveva riferito un indirizzo sbagliato e, sicuramente, la sua vera casa non sarebbe stata molto distante.
Trepidante, riaccese l’auto. L’odore caramellato della benzina fece il suo ingresso dal filtro dell’aria, abbracciando l’aroma del finto legno dei pannelli. Insieme, avvolsero Peter in un abbraccio di gioia, nell’abitacolo della sua Fleetwood. Assonnato ed entusiasta, setacciò l’intero circondario, a caccia della vera casa di Eric Vastarn. Le villette a schiera del quartiere sembravano aver brutalmente emarginato il rudere, davanti al quale, scioccamente, si era fermato. Le residenze, perfettamente allineate ai lati di strade levigate con cura, risplendevano di colori pastello, sotto il sole del primo mattino. Ognuna di queste si specchiava su una piscina e una, che lo colpì molto, aveva addirittura una fontana in stile classico. Nella sua ricerca, inoltre, avrebbe potuto giurare di non aver visto nemmeno un filo d’erba che superasse il mezzo centimetro. Di sicuro, somigliavano molto di più alla casa che lo zio aveva sempre descritto e che, fin da bambino, Peter desiderava visitare. Tuttavia, nessuna di quelle ville corrispondeva all’indirizzo che aveva appuntato e, quando finì di girare l’intero quartiere, accostò per poter dare un’altra occhiata alla mappa. Un’inquietudine, rapida e serpeggiante, si insinuò in lui quando, giunto alla fine della sua caccia, si ritrovò ancora una volta davanti a quel rudere.
Non si capacitava di cosa potesse essere successo: doveva esserci un errore. Aveva un estremo bisogno di contattare Eric, per sapere, ma non aveva modo di farlo: non c’era traccia di una cabina telefonica, nella zona. L’indirizzo corrispondeva e, nonostante sperasse con tutto il cuore di essersi sbagliato, era ormai certo che il posto fosse quello. Possibile che quella fosse casa sua? Spense l’auto e sprofondò nel sedile, lo sguardo perso nel parabrezza. Uno sciame di domande ronzava assordante nella sua testa, senza ordine né senso logico; la confusione dei sentimenti, indefiniti e contrastanti, lo aveva paralizzato. Cercò di dare forma, per un tempo incalcolabile, a cosa stesse provando. Fu costretto a smettere quando il suo stesso corpo lo smosse nel profondo: spaesato in quel labirinto, un sussulto gli ricordò che avrebbe dovuto respirare.
Peter fece a malapena in tempo ad inspirare, prima di esplodere in un fortissimo colpo di tosse. Dal filtro dell’aerazione, si era intrufolato un fortissimo odore sconosciuto, dolciastro e nauseante. In un attimo, l’aroma di legno e benzina fu ridotto ad un ricordo; corrotto da quel fetore melenso, simile a quello delle bancarelle di dolciumi, inondati di zucchero, dei luna park che, da piccolo, visitava con i suoi. Odiava a morte quell’odore: gli ricordava dei tempi in cui sua madre ed il compagno fingevano di volergli bene. Digrignò i denti, memore del perché avesse guidato per tutti quei giorni. Quell’aria, tuttavia, dissipò tutti i suoi dubbi e, in qualche modo, lo incuriosiva. non sarebbe potuta provenire da nessun luogo, di quelli che aveva visto nei dintorni. La cappa mortifera stava rendendo irrespirabile l’abitacolo: di scatto, aprì la portiera e balzò all’esterno.
Il tanfo mefitico lo aggredì immediatamente, in tutti i suoi sensi. Indebolito dalle emozioni e senza le difese del filtro dell’automobile, era rimasto inerme e si accasciò sull’asfalto, in preda a fortissimi crampi allo stomaco. Chiamò a raccolta tutte le sue forze, nel disperato tentativo di contrarre l’addome e di deglutire, ad ogni respiro affannoso, la bile che ribolliva dentro di lui, inarrestabile. Non vomitò alcunché di solido: la notte prima, aveva sognato una colazione da re, dopo giorni senza mangiare, a casa dello zio. Lentamente, si abituò a quell’atmosfera e si rimise in piedi, recuperando un canovaccio dall’auto, per asciugarsi. La tensione, prima accumulata e poi scaricata in quel modo, gli rese solo un po’ più facile accettare la verità che, fino a qualche secondo prima, era per lui inconcepibile: davanti a lui, nella sua decrepita maestosità, si stagliava quella che ormai sapeva essere la magione del fratello di sua madre.
Solo in alcuni tratti disordinati, la casa era tinteggiata di un bianco slavato, ingrigito da un inquinamento ormai incontrastato da anni. Nubi di insetti, minuscoli e affusolati, asserragliavano in un volo caotico l’intera villetta; l’unica morbosa traccia magica, di vita, in quella natura morta. Notò che questi tendevano ad accumularsi alle finestre, sbarrate con assi di legno marcio inchiodato in malo modo. Sul legno tinto, riusciva a vedere chiaramente delle prominenti fessure nella parete dalle quali, attraverso il brulichio degli insetti che sciamavano lì intorno, originava una flebile luce azzurrognola, iridescente. Quel luccichio, sebbene meno evidente dove il legno era al naturale, pulsava irregolarmente dall’interno dell’intera casa, regolando il ritmo dei battiti, sempre più ansiosi, del suo cuore. L’aria pesante e malata, satura di quell’odore, a cui ormai Peter aveva adattato il respiro, portava in se’ gli scricchiolii delle assi marce e il cigolio del cancello, scorticato da una tinta arancione mal distesa e incancrenito dalla ruggine, dove il ferro non era protetto. L’erba dell’intero giardino formava un impressionante bosco in miniatura di fusti e rovi, impolverati di scaglie di arancione seccato, vicino al cancello. Degli scatoloni deformati e sciolti dalle intemperie si ergevano, grottescamente tronfi oltre quel sottobosco, mentre, all’ingresso, una muraglia di imballaggi accatastati difendevano la porta principale, subito davanti al patio. Sparse qua e là per il cortile, lamiere e pannelli di materiali sconosciuti fischiavano al passar del vento, residenze per gli stessi insetti che infestavano la villetta.
L’ansia e la rabbia, miscelate nell’acido che stava nuovamente montando in lui, davanti a quel panorama, scaturirono dagli occhi. Il bruciore delle lacrime era quello dell’inganno.
Come ti è venuto in mente di comprare un aspirapolvere? I soldi ci servivano per la televisione nuova! -
Mi serve per la casa, ho la schiena a pezzi! Al diavolo te ed il tuo televisore! -
Potevi usare la scopa, imbecille! Ora non potrò guardare le partite fino all’anno prossimo! -
Rimbombarono nella sua mente gli echi di diverse sere prima. Giurò davanti al frigo, come al solito deserto, che quella sarebbe stata l’ultima litigata che avrebbe sopportato in silenzio, senza reagire. Mildred Vastarn e la sua ultima fiamma erano completamente assorbiti dalla discussione. Per lui fu semplice approfittarne: urlò che sarebbe andato a fare un giro, come faceva di solito nell’incuranza dei due. Esattamente come aveva previsto, nessuno dei due obiettò: avevano cose più importanti a cui pensare. Prese i contanti rimasti dal portafoglio del compagno e recuperò anche i soldi che quello, all’insaputa di sua madre, aveva nascosto in un’alcova, in garage. Diversi giorni dopo era dall’altra parte del paese, davanti ad tugurio che doveva essere una magione, senza avere altro, se non i cocci delle speranze e delle promesse infrante.
Un moto d’orgoglio, dal profondo, lo mise in subbuglio. Non avrebbe percorso tutta quella strada per niente e, oltretutto, arrivato a quel punto non aveva più nulla da perdere. Se Eric Vastarn, come sembrava, avesse veramente mentito, a lui e alla sua famiglia, per tutti quegli anni, l’avrebbe pagata molto cara. Recuperò la calma con un respiro profondo; il malessere di quel luogo era già diventato molto più sopportabile. Si avvicinò, a passo deciso, al cancello.
Davanti al varco, perse in un solo attimo tutto il coraggio che aveva, a fatica, raggranellato: ciò che, da lontano, gli appariva come semplice ruggine, altro non erano che colonie di insetti alati e cuneiformi, mai visti prima, ormai padroni di quel metallo. Improvvisamente, si librarono in volo all’unisono. Un ronzio disturbante e sconosciuto penetrò facilmente i suoi timpani e, in quella moltitudine, non era più capace di concentrarsi, nè di vedere. Istintivamente, con le mani pressate di forza alle orecchie, corse di nuovo verso l’automobile. Afferrò lo strofinaccio, ancora odorante dei suoi umori, per legarselo attorno alla faccia. Soltanto gli occhi, devastati dalle lacrime e dall’insonnia, rimasero scoperti. Corse a perdifiato nel mezzo di quella nube, alla carica del cancello principale. Agguantò con tutta la sua forza la maniglia e spinse, con le gambe ancorate al suolo. La maniglia e l’intero blocco della serratura gli si sgretolarono in mano e, per il peso, l’anta cedette e precipitò all’interno del giardino, adagiandosi sordamente sull’erba. Migliaia di insetti si alzarono dal terreno, vorticanti e scossi da quel botto.
La paura, fino a quel momento tenuta precariamente sotto controllo, sfruttò quell’attimo di confusione per prendere il sopravvento su di lui. Nel panico più totale, cominciò a sbracciarsi per allontanare quelle mosche e scattò, con tutto il fiato rimastogli, verso la porta di casa, il respiro accorciato dallo straccio e dal terrore. Un gemito strozzato e, in un attimo, franò su un cassone, nascosto tra le sterpaglie. Qualunque cosa vi fosse stata lì dentro, aveva attutito la caduta a sufficienza per permettergli di rialzarsi d’istinto e continuare disperatamente, attorniato da miliardi di animaletti. Al cospetto della porta d’ingresso, stramazzò al suolo. Era stremato, dalle emozioni e dalla corsa estenuante e, per recuperare il fiato quasi esaurito, utilizzò le sue ultime forze per togliersi il panno dalla faccia, per lanciarlo svogliatamente, a poche spanne da dove giaceva.
Era molto piccolo, all’epoca, ma aveva ricordi molto vividi di quando condividevano, tutti assieme, lo stesso tetto, cercando di far fronte comune alle privazioni e agli stenti che avevano dovuto quotidianamente affrontare, in quegli anni di crisi. Eric Vastarn, fratello di Mildred Vastarn: Peter, fin da ragazzino, lo aveva sempre considerato  un gran lavoratore e, certamente,  il membro  della famiglia più ambizioso, l’unico che stesse veramente cercando di cambiare le sorti di tutti. Lo ammirava. D’altronde, non poteva aspettarsi molto di più da una madre che cambiava uomo di anno in anno, con il compagno di turno che, solitamente, si limitava a consumare birre, o peggio. Quello stato di cose non era mai andato giù, ad Eric. Voleva di più, per se stesso e la sua famiglia. Ad un certo punto, decise di prendere in mano la situazione.
Diventerò ricco! Vedrete! -
Urlò contro la sorella e il compagno, una sera, andandosene sbattendo la porta, davanti a Peter, poco più che ragazzino. Più di tutto, Peter rimase colpito dalla fretta con cui uscì di casa, lasciandosela dietro una volta per tutte, senza pensare alla sorella e al nipote, insieme alla povertà da cui stava ossessionatamente cercando di fuggire da anni.
Da quel momento e per un bel po’ di anni, in famiglia, non si ebbero più notizie di lui. In realtà, nessuno fece il benché minimo sforzo per ricontattarlo, nemmeno per sapere se per caso fosse morto e questo, a Peter, dispiacque molto, perchè lui voleva sapere se lo zio era riuscito a diventare ricco. Negli ultimi tempi, la situazione cambiò radicalmente: Eric, infatti, prese improvvisamente a telefonare a casa, ogni mese, almeno un paio di volte. Peter attendeva con affetto ed eccitazione, quelle telefonate. Lo zio passava ore intere a raccontare di come, dall’altra parte del paese, vi fossero molte più opportunità e di come le stesse sfruttando; dei primi investimenti che stavano già cominciando a dare i loro frutti; della bella vita che faceva e che avrebbe fatto fare al resto della famiglia, non appena avesse cominciato ad ingranare con le diverse aziende che, nel frattempo, era riuscito ad aprire. Sua madre, per rabbia o per invidia, non condivideva per nulla ciò che stava facendo Eric e, anzi, intimava lui di non farsi più sentire ad ogni telefonata.
State costringendo quel ragazzo ad una vita di privazioni, ve ne rendete conto? -
Devi farti i cavoli tuoi, Eric! E’ mio figlio, non il tuo! -
Prima o poi verrò a prendermi quel ragazzo, Mildred. Non è giusto che continui a vivere in questo modo. -
Tu non farai un bel niente! Smettila di inculcare idee strane a mio figlio, chiaro? -
Negli ultimi mesi, tuttavia, le telefonate si fecero sempre più rade, fino a cessare del tutto. Era quello che voleva sua madre, ormai stufa di sentirlo pavoneggiarsi in quel modo, soprattutto con Peter in ascolto e ormai quasi maggiorenne. Inoltre, Peter, aveva capito da tempo come la pensasse e come si sentisse Eric. Voleva saperne di più, su di lui: quali aziende avesse aperto; quanti soldi avesse guadagnato; quanto grande fosse stata la sua casa. Giurò su se’ stesso che, appena ne avesse avuto la possibilità, se ne sarebbe andato esattamente come aveva fatto lui anni prima e lo avrebbe raggiunto, per aiutarlo e per poter avere una vita migliore.
Pianse a dirotto, i colpi di tosse dell’aria stantia intervallavano i singhiozzi e i sussulti. Rimase disteso, davanti alla porta, per un tempo sconosciuto. Sentiva il piede sinistro gonfiarsi, anche attraverso la scarpa, ma non gli importò nulla di quel dolore. Lo considerava come la più leggera delle pene. Si sentì in colpa, davanti a quella porta, per aver rincorso gli stessi sogni dello zio, vedendo a cosa lo avessero portato. Tuttavia, aveva più che mai la necessità di confrontarsi con lui, di vederlo, anche soltanto per rinfacciargli vent’anni di illusioni.
Rinvenne lo strofinaccio, l’unico supporto che ormai avesse, e si rialzò a fatica in piedi. Solo a quel punto si rese conto che avrebbe dovuto zoppicare, da lì in avanti: l’adrenalina, anche lei, aveva ingannato il suo cervello. Saltellò un paio di volte sul piede destro, prima di trovare un appoggio su uno dei supporti della veranda. Appena lo afferrò, un freddo alieno attraverso i nervi del suo braccio, la mano invischiata in un grumo semisolido e immediatamente ritratta lo fece sobbalzare; gli scappò un urlo, per il quale non doveva nemmeno avere il fiato e, solo per istinto, evitò di appoggiarsi sul piede malandato. Si pulì in fretta e furia la mano sui pantaloni, risparmiando, almeno questa volta, lo scampolo di tessuto: un istinto primordiale lo spinse, suo malgrado, a voltarsi verso il supporto per fissarlo.
Una sostanza cianotica e appena luminescente, grottescamente abbarbicata sul legno cannibalizzato, grondava verso il basso, viscosissima e semisolida. Il fetore rancido che permeava il luogo si fece più intenso, subito dopo il suo tocco, sentendolo per la prima volta anche sul suo corpo. Un altro reflusso lo costrinse a rimettere la faccia nello strofinaccio. Strofinò lo straccio contro uno dei pacchi, fin quasi a sbrindellarlo, ma non era soddisfatto. Deglutì ed esitò maledicendo se’ stesso, per ciò che stava trovando necessario fare. Girò lo straccio dall’altro lato e se lo legò di nuovo al volto sentendosi, almeno per quel momento, di nuovo protetto. Sempre più stanco e indebolito, Peter socchiuse le palpebre e si sporse in avanti, nella speranza di dare senso a ciò che stava osservando. La rivelazione lo lasciò impietrito. Quell’impiastro, simile a melassa, stava percolando da ogni singolo pertugio, piccolissima crepa dell’edificio e, dove era più concentrata, nidiate di insetti si radunavano, affascinati dal tenue bagliore. L’intera villetta spurgava di continuo quella sostanza traslucente; casa Vastarn stava sudando.
Le palpebre battevano spasmodiche, agitate da una confusione mai provata prima d’ora. Stava pian piano vedendo volare via tutte le certezze con cui era partito da casa sua, come suo zio diversi anni prima. Nel marasma di ciò che stava provando, l’unico sentimento che potesse guidarlo e dargli la forza per continuare, era la seria preoccupazione per il destino dello zio.
Zio? Zio Eric? Sono Peter! -
Urlò a squarciagola, tentando di nascondere le rotture nella sua voce. Lo scricchiolio delle assi di legno e l’angosciante brusio del ronzare degli insetti furono le uniche risposte. Si augurò, in quel momento, che la casa fosse abbandonata e che lo zio vivesse altrove; che fosse tutto un bruttissimo scherzo e non gli importava più, di vedere la villa dello zio. Voleva solo trovarlo. La determinazione ritrovata lo rincuorò: si fece coraggio ed espirò profondamente. La maniglia della porta e la serratura non fecero alcuna resistenza. Lentamente, aprì e mosse, timido ed impaurito, verso l’interno.
L’atmosfera di morte e zucchero lo assaltò immediatamente, le sue viscere quasi sopraffatte dalla pesantezza dell’aria rinchiusa tra quelle pareti e libera, per la prima volta, dopo un tempo indicibile. Dentro, si sentì subito schiacciato da quell’aria densa e umida, opprimente; faticò a camminare, in quell’abisso. Il suono spugnoso e quasi comico dei suoi passi su quel tappeto di muco turchese lo portò, soltanto per un attimo, a guardare verso il basso. Il mare morboso, che ondeggiava pesante e lento sotto i suoi passi, pareva volesse ingoiarlo. Esitò per qualche secondo, nell’attesa di essere mangiato: in quegli attimi, avrebbe quasi preferito quella fine, al dover proseguire. Eliminò quel pensiero e distolse lo sguardo, per posarlo sul resto della cucina e del soggiorno. Pile di libri, riviste e scatoloni di ogni forma e dimensione, impilati dappertutto, formavano maestose colonne fino a toccare il soffitto, la visuale ed il passaggio bloccati. Aggirò alcune di quelle colonne e le utilizzò anche per sostenersi, rischiando più volte di scivolare e riuscì a mantenersi in equilibrio per puro istinto: era convinto che, se fosse caduto, quella cosa avrebbe impedito qualsiasi tentativo di sopravvivenza. Annaspava spasmodicamente: il tanfo di cibo avariato si era unito all’assedio della sua psiche. Masse di materia organica, cosparse lungo tutta la credenza e fuse con fogli di giornale, vecchi di decenni e accrocchiati in mucchi informi, farcivano ogni singolo mobile e l’interno del lavabo. Lì dentro, l’impiastro bluastro, grondante dal rubinetto, si amalgava con la cellulosa e le frattaglie di creature sconosciute; un composto troppo orribile per lui,  Il frigo trasudava quella melassa dalle guarnizioni: non lo avrebbe aperto nemmeno sotto tortura e, con ogni probabilità, le guarnizioni impiastrate gliel’avrebbero comunque impedito. L’accumulo osceno di oggetti di ogni tipo viveva: nel suo profondo lo aveva capito.
Peter boccheggiava, senza essere quasi più in grado di dar voce ai suoi pensieri. Osservò quel liquido fondersi con qualsiasi cosa trovasse ed ebbe, sempre più dominante, la bruciante impressione di essersi ritrovato in uno stomaco, pronto a fagocitarlo e digerirlo. Il suo istinto di sopravvivenza lo rianimò nel momento esatto in cui, nella sua testa, balenò il pensiero sul quando e come sarebbe stato espulso.
Zio! Sono Peter! Rispondimi, ti prego! -
Ora, non era nemmeno più sua intenzione, chiamare Eric. In verità, aveva bisogno della conferma di essere ancora in vita, di non essere finito all’inferno.
Doveva uscire di lì, il prima possibile. Avrebbe, però, per prima cosa trovato lo zio. Glielo doveva, nonostante tutto. Era stato lui, attraverso le sue telefonate e i suoi racconti, a regalargli un sogno, a distrarlo dalla miseria, economica e morale, in cui viveva.  
Il suo incedere esausto, reso sempre più pesante dalla melma, fu accelerato dalla rinnovata motivazione: avanzò velocemente verso le scale. Nella penombra, il baluginio  di quegli umori ultraterreni ricopriva tutti i gradini ed il corrimano precipitando, con insostenibile lentezza, dal primo piano. Lampi dell’esperienza dell’ingresso lo colpirono e, senza pensarci due volte, Peter si strappò dalla camicia due lembi di stoffa, con i quali si fasciò entrambi le mani, per sostenersi sul corrimano, durante la salita. Immediatamente, il suo braccio fu pervaso da un impulso tetro, i muscoli contratti fino al punto di dolore, anch’essi impauriti: riuscì a sopportare, questa volta, grazie al suo espediente. Continuò su per le scale, cercando continuamente punti di appoggio per non rovinare giù. Dopo un tempo infinito, salì l’ultimo gradino e si sbarazzò con foga delle fasce improvvisate, prodigandosi per non toccarle. Non avrebbe più toccato nulla.
Al piano di sopra, chincagliere ed elettrodomestici, di ogni epoca e fattura, giacevano ammassati alla rinfusa nel corridoio che collegava le stanze, rendendolo impervio al passaggio. Un enorme fiume di paccottiglia, attraverso il quale avrebbe dovuto destreggiarsi per arrivare alla camera. In un ragionamento, pervertito dalla situazione paradossale, avrebbe trovato Eric lì dentro: dato che erano ancora le prime ore del mattino, Peter pensò che in quell’inferno sulla terra, lo zio stesse semplicemente ancora dormendo e non avesse sentito i suoi richiami. Realizzò con affanno che l’insensatezza dei suoi pensieri si stava man mano adeguando alla fondamentale incongruenza, di ciò che gli stava succedendo attorno. Scrollò la testa, riprendendo il filo del suo intento.
Tra le porte che riusciva a intravedere nella semioscurità, una lo colpì in pieno nella sua psiche. Brillava di una flebile luce cianotica e il legno, distorto in bubboni e rientranze, si gonfiava e sgonfiava ritmicamente. Si fece strada attraverso quel mare di metallo e plastica, attratto dal terrore che quella porta gli infondeva: per ragioni a lui inspiegabili, provò un irrefrenabile impulso che lo spingeva ad aprirla ed era anche assolutamente convinto che lo zio sarebbe stato oltre quella porta. Appena girata la maniglia, un’ondata di quella bile sfondò la porta, travolgendolo. Istintivamente, si aggrappò ad un attaccapanni trovato lì vicino. Sommerso fino alla gola, fu pervaso da un vuoto indescrivibile, gelido, incolmabile. Lo stava consumando nell’inconscio, tanto da fargli dimenticare, per un attimo, chi fosse. Lentamente, man mano che quell’onda defluiva verso il piano terra, recuperò il senno. Raggelava, ma riuscì a rialzarsi con uno sforzo immane. Barcollò verso la camera, dove  montagne di cianfrusaglie, ancora bagnate, sbarravano lui la strada e nascondevano completamente la visuale del letto. Il cuore a mille, si fece strada con violenza in quel groviglio di plastica e metallo, fino a giungere davanti al letto, dove giaceva lo zio. Nonostante la stanza fosse sommersa, fino a poco tempo prima, lo zio sembrava dormire. Non era nemmeno più importante, per lui, come ciò fosse possibile. Ormai quella domanda aveva completamente perso di senso.
Zio! Zio! Sono Peter! Dobbiamo uscire di qui, presto! - Gridò, afferrando lo zio per le spalle e scrollandolo, come fosse un manichino.
Eric si svegliò di soprassalto, gli occhi a malapena socchiusi, prima di esplodere in un enorme sbadiglio. I suoi occhi abbozzarono più volte, prima che si rendesse conto di essere sveglio. Tutto ad un tratto, spalancò le palpebre e, in un istante, il suo volto si ravvivò, la luce nei suoi occhi quella di una trepidante attesa.
Lei è il corriere! Le avevo detto di lasciare il frigo alla porta! -
Confuso, Peter continuò a strattonare lo zio, tentando di tirarlo giù dal letto. Nessuno dei due capiva.
Che sta facendo? Dov’è il mio frigo da campeggio? -
Zio, sono Peter, tuo nipote! Dobbiamo andarcene da qui, in fretta! -
Eric aggrottò la fronte, perplesso. In pochi attimi, il volto si contraè e gli occhi si assottigliarono:
Mi lasci! Io non ho ordinato un nipote! Io ho ordinato un frigo da campeggio! -
Scattò rabbiosamente in piedi, spingendo Peter su un cuscino di frullatori e planetarie. Le mani in testa, lo zio prese a farfugliare cose senza senso, mentre prendeva a calci tutto ciò che gli capitasse a tiro.
Dove caspita è il mio frigo? Voglio il mio frigo! -
Indurito dalla vecchiaia, lo zio si muoveva con inquietante leggiadria, attraverso tutti quegli scatoloni. Il suo sguardo era vacuo, opaco. Improvvisamente, si fermò per riprendere fiato, le spalle incurvate.
Frigo, il mio frigo. -
Continuò a ripetere, incessantemente, sempre le stesse parole, per diversi interminabili attimi. La pietà per lo zio e l’orrore di quel posto si scontrarono duramente, nella mente di Peter. Non era in grado nemmeno di cominciare a comprendere come, in quegli anni, lo zio avesse potuto ridursi in quel modo e, più di ogni altra cosa, perchè non avesse mai detto la verità sulla sua situazione, perché non avesse mai chiesto aiuto. Peter sapeva fin troppo bene che la sua famiglia non lo avrebbe aiutato, per nessuna ragione al mondo. Spalancò gli occhi. Avrebbero aiutato lui, dopo quella fuga di casa, se gli fosse successo qualcosa?
Eric Vastarn era bloccato in quel circolo, ripetuto all’infinito, ignaro di cosa stesse succedendo. Peter fece per raggiungerlo, ma si impietrì, davanti alla visione delle pareti della camera. Si inarcarono, sfibrandosi sotto il peso di quel denso liquame bluastro che, a velocità innaturale, stava invadendo anche quella stanza. Sciami di insetti, attirati dal bagliore, si unirono all’assedio, attraverso le fessure. Accelerò il passo, sopportando il dolore al piede.
Dobbiamo andarcene, zio! Altrimenti moriremo! -
Lo guardò negli occhi e trattenne il fiato. Non stava parlando con nessuno.
Dov’è il mio frigo? Dov’è? -
Erano immersi fino alle ginocchia, l’aria inospitale per qualsiasi essere umano. Il suo istinto di sopravvivenza ebbe la meglio, per un attimo, sull’amore ormai perduto che provava per quel guscio umano. Si affrettò fuori dalla stanza, in lacrime, ignorando le urla di Eric, ancora preso ad invocare il suo frigo. I sussulti per il piede malconcio confermarono lui, lungo la strada, di essere ancora in vita. Questo lo confortava ben poco, ma era tutto ciò che gli fosse rimasto, di quel viaggio. Sulla strada asfaltata, fuori dalla tenuta, crollò sulle ginocchia: casa Vastarn, completamente inglobata da quella melma, stava fagocitando se’ stessa, portando con se’ quello che fu suo zio. Anni di sogni si accartocciarono davanti ai suoi occhi, impunemente, consumati da qualcosa di freddo, nauseante, dolce. Il tintinnio delle chiavi della Fleetwood lo accompagnò alla macchina. Non si voltò mai più indietro e, mutilato delle sue speranze, tornò verso casa.

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