Simonetta Cancian
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Simonetta Cancian
È autrice di libri di narrativa per adulti e ragazzi.
Tra i suoi lavori più recenti: il romanzo “Figlio di nessuno”, Linea edizioni, 2018 e la ricerca storica “Una chiesa campestre”, Gianni Sartori editore, 2022.
Collabora al mensile IL CADORE e alla rivista IN PIAZZA.
SECONDO CLASSIFICATO
"Orti dei Dogi"- Racconti
-Il carretto-
-Il carretto-
“Orti dei Dogi”
Narrativa
IL CARRETTO
Svuotare la casa finalmente venduta: era giunto il momento.
Cominciarono dagli armadi del piano superiore, ancora stracolmi di indumenti. Gli abitini da neonato, conservati in un ripiano a parte, erano una mescolanza di rosa e azzurro, ma prevaleva l’azzurro. Poi c’era tutto il resto, senza un ordine preciso. Tinte e taglie diverse sembravano essersi date appuntamento in quegli spazi che da un certo momento in poi nessuna mano aveva più sfiorato. I capi più delicati erano ingialliti, qualche cappotto di lana buona mostrava i tipici segni dell’aggressione delle tarme. E c’erano addirittura ingombranti divise militari: roba di un’altra epoca, di cui disfarsi al più presto. Una volta decisa la destinazione degli indumenti, giunse il turno dei servizi di piatti e bicchieri conservati nelle vetrine del soggiorno. Mai usati, i calici continuavano a mantenersi scintillanti dietro le ante trasparenti e anche i piatti, nella parte inferiore del mobile, ordinatamente accatastati, non mostravano alcuna traccia d’uso. Tazze e tazzine di varie dimensioni erano riunite sui ripiani di una piccola cristalliera. Solo qualche raro ospite, nel periodo più recente della sua permanenza nella casa, ricordava Arturo detto Artù, aveva avuto il privilegio di sorseggiare il caffè in quelle eleganti chicchere dal bordo dorato.
I fratelli decisero di conservare tutti i pezzi del servizio buono, che furono incartati con cura e deposti in uno scatolone.
Arrivò il momento di liberare il pianterreno, destinato a magazzino e deposito attrezzi. Tutt’altro che facile, anche se la maggior parte del contenuto delle stanze era da buttare.
- E questo? – si chiese a voce alta Arturo, trovandosi improvvisamente di fronte al carretto.
Se fino a quell’istante l’operazione di sgombero si era svolta in modo quasi asettico e praticamente indolore – dopotutto erano trascorsi così tanti anni e ormai anche loro figli avevano una certa età – da quel momento in poi, almeno per Arturo, non fu più possibile arginare il flusso di ricordi. Impensabile, poi, respingere il vuoto dell’assenza.
Gli altri continuavano imperterriti il lavoro, che si annunciava interminabile.
Lui s’incantò a contemplare il mezzo a due ruote, che non era uno dei tanti oggetti che avevano fatto il loro tempo diventando alla fine inutilizzabili. No. Quello era IL CARRETTO. Praticamente una parte di sé.
- Allora? – sollecitarono i fratelli. – Lo buttiamo?
- Questo no – gli uscì quasi involontariamente.
- Ma non vedi com’è ridotto? Legno marcio e ruote arrugginite.
Arturo lo osservò attentamente, pensando che suo fratello aveva ragione. Non c’era niente di pregiato in quel carretto di piccole dimensioni creato per gli usi domestici di un tempo in cui circolavano poche auto e non tutte le strade erano asfaltate.
Ricordava che suo padre l’aveva fatto costruire su misura da un artigiano di un paese vicino – uno dei tanti lungo il Piave – e l’aveva portato a casa agganciando il timone alla bicicletta. Di sicuro non era costato un granché. Il legno di abete era dei più comuni.
- Che ratatuja – era stato il commento di sua madre, che lui ora ricordava spesso contrariata. Ma suo padre aveva ribadito sicuro:
- Questo farà un ottimo servizio.
E così era stato.
- Forse si può sistemare – azzardò Arturo, mentre gli altri continuavano a riempire i sacchi destinati alla discarica.
- Be’, allora pensaci tu – sentenziò Guido, il fratello maggiore. – Qui di lavoro ce n’è già abbastanza e chissà quando finiremo.
- Qualcuno è interessato al carretto? – chiese Arturo rivolto agli altri, che non alzarono nemmeno la testa.
Continuò a girare intorno al mezzo, intento a saggiarne la solidità o a valutarne il degrado. Lisciò con una mano le sponde scolorite, perso in riflessioni indecifrabili. Presente, ma lontanissimo.
Una passata stagione. Inizio d’autunno, tempo ancora mite. Lui, suo padre e suo fratello maggiore. Neanche il tempo di finire il pranzo e via, in golena – ma loro la chiamavano grava.
- Io traino il carretto e voi mi seguite in bici – aveva deciso suo padre.
- Avrei un po’ di compiti… - aveva tentato di obiettare Arturo, ben sapendo che era inutile.
- Dopo.
Era stato attraversato da un pensiero fugace, ma doloroso. Gli amici, il gioco della guerra, come “I ragazzi della via Paal”, un libro letto qualche tempo prima. Con il gruppo dei grandi, poi: era così orgoglioso di essere stato invitato.
A quel tempo, conosceva ancora poco suo padre, appena tornato dalle miniere del Belgio, già a riposo a causa della silicosi. Quanto bastava comunque per capire che obiettare era inutile e ribattere non era consentito.
Di sicuro lo attendeva qualche lavoro che si sarebbe protratto fino a sera quando, già sfinito, avrebbe dovuto anche affrontare i compiti.
Arrivarono a un boschetto di acacie affacciato all’ansa del fiume. Non pioveva da tempo: il terreno era asciutto e coperto di foglie.
- Cominciamo – aveva deciso il padre, iniziando a raccogliere con gli attrezzi – scure, falcetto e sega - rami di acacia e mostrando ai ragazzi come ripulire le piante più giovani dall’edera e altri rampicanti che le avvolgevano soffocandole. Il loro tronco, lungo e affusolato, era destinato a sostenere i capi dei filari di un vigneto.
- Su, su, che el sol magna e ore! – li incalzava il padre quando li vedeva rallentare.
Il carretto era stato piazzato poco lontano. Riempirlo era stata una faticaccia.
Sotto, ben nascosti, il padre aveva sistemato i rami più robusti, quelli che non si sarebbero potuti tagliare, perché il proprietario dell’appezzamento aveva acconsentito alla raccolta delle ramaglie purché le piante non venissero spogliate. Sopra, stavano accatastate le fascine fissate con una corda perché non cadessero lungo la strada di ritorno.
Arturo non sentiva più le gambe a forza di piegarsi e raccogliere e ripulire. Il fratello, imbronciato, non parlava.
Era stato necessario abbandonare le bici e spingere forte il carretto sulle salite dell’argine: anche lui pareva esausto. Solo il padre si mostrava soddisfatto e, contrariamente al solito, non finiva di parlare. Aveva spiegato che, una volta seccata, avrebbero usato la legna per la stufa della cucina. Con diversi carichi come quello, l’inverno successivo sarebbe stato più facile da affrontare, dato che le spese erano tante e la pensione non bastava mai.
Vedendo i figli stanchi e immusoniti, aveva promesso che gli avrebbe dato una mancia per Natale. Aveva poi mantenuto la parola?
Arturo non lo ricordava, ma gli pareva di no.
Da quel momento in poi, Arturo fu sommerso da un’ondata di ricordi che finirono per invadere anche i sogni notturni. Il carretto scandiva le tappe successive della sua vita.
Come dimenticare certe domeniche lontane quando, poco prima di pranzo, il mezzo a due ruote portava in famiglia il nonno materno, ormai quasi infermo, ma ancora lucidissimo e allegro e prodigo di proverbi e aneddoti che i nipoti erano pronti a carpirgli.
Il nonno era rinsecchito, curvo, indossava strane pantofole e un abito ormai liso dal colore indefinibile, forse lo stesso del suo lontano matrimonio.
Veniva sistemato sulla sedia più comoda a capotavola e poco dopo sua madre scodellava il riso in brodo. Il vecchio era lentissimo. Indugiava a masticare il riso e sorbiva rumorosamente il brodo, risucchiandolo ad ogni cucchiaiata. Gli occhi dei ragazzi erano puntati su di lui in attesa che vuotasse il piatto, ma il vecchio, inconsapevole, procedeva metodicamente come se niente fosse.
Quanto si tratteneva di solito il nonno? Arturo non lo ricordava con precisione, pur tentando di ricostruire quella parentesi lontana. Di sicuro, a una certa ora del pomeriggio, prima che facesse buio, il carretto ripartiva col suo carico, pronto a percorrere i tre chilometri che separavano le abitazioni. Non una distanza enorme, che tuttavia, a quei tempi, in molti casi poteva diventare spesso insormontabile per ogni spostamento.
In terza media, mentre il suo corpo si stava trasformando e i segnali percepiti erano unicamente di disagio, suo padre aveva interpellato il preside della scuola, a quel tempo un’indiscussa autorità. Gli aveva chiesto consiglio sull’indirizzo di studi da fargli intraprendere. Pochissimi ragazzi, all’epoca, affrontavano la scuola superiore. Lo sbocco più ovvio e immediato era il lavoro in fabbrica. Della terra e del bestiame ci si liberava volentieri. Ma il padre, nello studio come lasciapassare per il futuro, credeva fermamente ed era pronto a investire i risparmi accumulati.
Il preside aveva alzato un sopracciglio con aria sprezzante. Il ragazzo proveniva da una famiglia numerosa e modesta. Perché coltivare inutili ambizioni?
- Cosa vorresti fargli fare – aveva considerato con aria di sufficienza. - Non è mica una cima. Mandalo in fabbrica, come tutti. E, se proprio vuoi che continui a scaldare il banco, iscrivilo a un corso professionale.
Suo padre, che più tardi aveva più volte rivangato quel momento, aveva incassato senza ribattere, ignorando il suggerimento. Arturo era stato iscritto all’Istituto di ragioneria della città più vicina, come già era stato deciso anche per il fratello maggiore.
A volte, il genitore amava lasciarsi andare a fantasticare. Non succedeva spesso. In quelle occasioni, di solito la domenica, mentre erano tutti a tavola, l’uomo autoritario e brusco che in famiglia conoscevano, pareva un’altra persona e tutti loro, forse proprio per questo, ascoltavano in silenzio, senza sognarsi d’interrompere o intervenire.
- … Si sa che avrei potuto restare qui a coltivare la terra come tanti. Come tutti, praticamente. Ma quel lavoro lontano, in miniera, mi pareva una buona occasione. E intanto che ero là sotto, sudato, coperto di polvere di carbone, sapete cosa pensavo? I miei figli, pensavo, avranno la possibilità di studiare e di farsi strada, potranno aspirare a una vita diversa e sarò stato io, a dargli quella possibilità…
Lo sguardo si accendeva di orgoglio, mentre Arturo doveva ricacciare le lacrime, fingendo di concentrarsi sul cibo. Gli tornava in mente una foto che sua madre conservava in una scatola e gli metteva davanti all’ennesimo mugugno sulle incombenze quotidiane da svolgere. Toccavano tutte a lui, gli pareva.
Porta il becchime alle galline, cerca l’erba per i conigli, bagna l’orto, vai a prendere il latte, aiuta tua sorella nei compiti…
- Guarda qui, questo è tuo padre, alla fine del turno di lavoro.
Solo il casco e il biancore della sclera facevano pensare a una persona. Il resto del corpo, nero e lucido, mostrava una bestia uscita da una tana sotterranea. No, all’inizio non aveva creduto a quanto aveva sotto gli occhi. Ma anni dopo, documentandosi, aveva realizzato che il prezzo da pagare per quella cifra consistente che giungeva puntuale dal Belgio in Italia, era stato altissimo. Non che avesse smesso di brontolare di fronte ai lavori che gli venivano imposti, però il ricordo di quella foto congelava ogni possibile ribellione e rendeva meno insopportabile l’ennesimo impegno domestico.
Fiocchi di lana candida simili a neve avevano pian piano ricoperto il carretto. Più Arturo e i fratelli si affannavano a liberarlo, più i batuffoli si accanivano.
Il ricordo del viaggio in bicicletta lungo l’argine del Piave, otto chilometri circa, diretto a un paese vicino, aggredì Arturo un mattino presto, nel dormiveglia, dopo un sogno tormentato.
Quella volta era partito col carretto carico di indumenti di lana smessi e accantonati da qualche anno, destinati al riciclo dopo la cardatura.
Una volta consegnato il carico, ricordava di essersi attardato a scambiare qualche parola – con grande fatica, combattendo un’atavica timidezza – con la figlia dell’artigiano, bionda e ciarliera. Quando gli aveva chiesto dove lavorasse e Arturo le aveva parlato dei suoi studi – a quel tempo frequentava i primi anni delle superiori – la ragazza lo aveva fissato in modo diverso. Non aveva saputo spiegarselo. Alcune settimane dopo era tornato a ritirare la lana cardata e destinata al materassaio per la confezione di due nuove trapunte: lei si era a malapena girata per salutarlo, intenta com’era a raccogliere le ciocche sparse per la stanza.
Solo in quel momento, rievocando l’episodio, tutto gli diveniva chiaro. Era stato come se tra loro, all’improvviso, si fosse creata una distanza incolmabile, che li rendeva estranei.
Nei giorni successivi e soprattutto nel fine settimana, col procedere dello sgombero, continuarono a visitarlo episodi del passato. Dov’erano rimasti, fino a quel momento? si domandava Arturo. Forse la nostra memoria è fatta di tanti cassetti, si diceva. Rimangono chiusi fino a quando cerchiamo qualcosa di particolare che potrebbe esservi riposto e allora eccoci intenti ad aprirli tutti, uno dopo l’altro, sorprendendoci di quanto contengano.
L’uso più intensivo del carretto avveniva indubbiamente durante la vendemmia.
Suo padre aveva ereditato un piccolo vigneto che amava curare personalmente e produceva quanto bastava per i consumi domestici. Era sufficiente qualche giorno – e le braccia di tutta la famiglia - per vendemmiare l’uva, ma il torchio bisognava chiederlo in prestito a dei conoscenti. Il carretto partiva, per rifare poi lo stesso percorso circa una settimana dopo.
Quando la maggior parte del lavoro era ormai alle spalle, restavano le vinacce da caricare e trasportare alla vicina distilleria. Per Arturo quello era l’impegno più gradito. Lo svolgeva con il fratello maggiore e lungo l’argine, mentre il carico si avvicinava alla distilleria, il discorso cadeva immancabilmente sulla fiera di San Donà ormai vicina: un avvenimento che coinvolgeva tutti i paesi dei dintorni, impossibile da ignorare. Le bancarelle esponevano oggetti meccanici introvabili per tutto il resto dell’anno e stupendi coltellini svizzeri. C’erano inoltre, a frotte, le ragazze, che sembravano essersi date appuntamento tutte lì, in quei giorni. Era impossibile mancare alla fiera. Le rare occasioni in cui era capitato – sempre a causa di qualche lavoro domestico che doveva assolutamente essere svolto in quel frangente – Arturo le ricordava a distanza di anni. Era il dispiacere pungente delle occasioni mancate, che pian piano si era poi stemperato senza sciogliersi mai del tutto.
Il ricavato della vendita delle vinacce, due o tre banconote da mille lire che i fratelli si dividevano, aveva il potere di conferire a entrambi sicurezza ed entusiasmo. Arturo non aveva mai dubitato di meritarla, quella mancia. Ricordava anche, però, di non aver mai comprato un granché. Gli oggetti più attraenti su cui puntava costavano troppo, le cianfrusaglie non lo interessavano e ai dolci ormai sapeva resistere.
Rammentava camminate di chilometri e soste interminabili alle bancarelle senza decidersi sugli acquisti da fare. Finiva per fermarsi al tiro a segno, comprare un sacchettino di mandorle per la sorella minore e mettere il resto da parte. Però tornava sempre contento, perché alla fiera era importante esserci stati.
Non finiva di stupirsi della quantità di materiali e prodotti che il carretto aveva trasportato nel primo tempo della sua vita. I fagioli secchi, comprati da una famiglia del paese. Le mele da consumare durante l’inverno. Le mattonelle ricavate dalle vinacce pressate da bruciare nella cucina economica. La crusca da ritirare al mulino. E chissà quanto altro giaceva nei magazzini della memoria, in attesa di riemergere.
Arturo e il carretto avevano intrapreso strade diverse all’inizio degli anni Settanta quando, con la maggiore età, aveva conseguito la patente e in famiglia era stato deciso l’acquisto di un’auto. Guidare la 124 Fiat gli aveva regalato emozioni indescrivibili. Ma la svolta più importante della sua vita era stata l’iscrizione all’Università Ca’ Foscari, con la possibilità di alloggiare a Venezia – grazie al presalario – tutta la settimana. La soddisfazione di suo padre, man mano che procedeva negli esami senza tentennamenti, era stata palpabile. La sua personale autostima aumentava in proporzione. Numerose esperienze separavano il brillante studente dal ragazzino goffo di un tempo: era come se fosse iniziata un’altra vita, colma di promesse.
Qualche anno dopo, mentre stava già pensando alla tesi, si era diplomata Rosetta, la sorella minore.
- A quale facoltà ti iscrivi? – aveva voluto sapere Arturo.
La ragazza aveva scosso la testa.
- Ha deciso che per me può bastare il diploma - aveva spiegato alludendo al padre.
- Scherzi? E perché mai?
- Non lo immagini? Perché sono una femmina! Le donne non studiano, si sposano e basta. È un pregiudizio duro a morire, questo. Almeno qui da noi.
Arturo, allibito, si era messo a riflettere. In effetti, la sorella maggiore, Elide, non aveva neppure un diploma: ancora adolescente aveva trovato lavoro in fabbrica e, nel giro di qualche anno, si era fidanzata e sposata. Vedendola contenta, Arturo non aveva mai approfondito la questione. Ma ora era arrivato il momento di farsi sentire.
Affrontare suo padre, opponendo a quello del capofamiglia il proprio punto di vista non sarebbe stato facile, ma occorreva farlo.
Era andato subito dritto al punto.
- Anche Rosetta deve andare all’Università! Come me, come Guido.
- E chi lo dice? L’ha ordinato il dottore?
- Lei lo desidera moltissimo. Vorrebbe iscriversi a Lettere, le piacerebbe insegnare. È sempre stata tanto brava in italiano.
Mani ai fianchi, sguardo duro, suo padre l’aveva squadrato.
- Be’, ragazzo mio. Rosetta ha già un diploma, può bastare per…
- Per una donna, vuoi dire? Papà, non sai quante donne ci sono, all’Università. I tempi sono cambiati, le donne hanno i nostri stessi diritti! Se Rosetta vuole continuare, è giusto darle la possibilità di farlo.
- Parli bene tu. Si sente che sei studiato. Ma la famiglia, finora, l’ho mandata avanti io. Lo sai, tu, cosa vuol dire tirar su cinque figli?
- Sì, papà, ma…
Era stato bruscamente zittito da una mano alzata a mo’ di congedo, ma era tornato più volte alla carica e qualche mese dopo, forse anche per un provvidenziale intervento di sua madre, il genitore si era improvvisamente ammorbidito e Arturo aveva esultato segretamente dentro di sé per essere riuscito ad abbattere un muro.
Rosetta, la piccola di casa, in seguito aveva conseguito una laurea in lettere, aveva insegnato a generazioni di studenti e ora era una pensionata come lui.
Per le operazioni finali di sgombero, i fratelli ricorsero a una ditta di traslochi.
Ora che le stanze erano vuote, percorrerle e sostarvi era diventato quasi impossibile. Si guardavano l’un l’altro e non parlavano. Ognuno si teneva stretti i propri ricordi: in famiglia non era mai stata data voce alle emozioni. Dolore, nostalgia, rimpianto, tristezza, ma anche gioia, entusiasmo, stupore erano rimasti imprigionati dentro uno spazio segreto che ognuno portava in sé. Ma ora che la vita era in buona parte trascorsa – Arturo a questo pensava spesso – era come se in quella cella interiore a tenuta stagna si fosse aperta una breccia e pian piano, una dopo l’altra, le emozioni uscivano, esigevano un nome preciso, pretendevano uno spazio nel catalogo dei ricordi. Chiedevano di entrare nella storia di vita di cui erano parte.
Mentre pedalava trainando il carretto verso casa, compiaciuto del fatto di riuscirvi senza grande sforzo, ad Arturo parve di essere tornato ragazzo. Intorno, l’immobilità delle ore più calde di una giornata di inizio estate. Sole accecante sul volto. Vento che accarezzava la pelle. Profumo di erba tagliata. L’abbaiare di un cane, in lontananza. Lungo la strada notò molte nuove abitazioni che non ricordava. Il paese in quegli anni si era espanso, ma c’era ancora, fortunatamente, abbastanza verde per chi, come lui, era cresciuto tra spazi aperti. Gli venne da sorridere pensando a com’era corsa avanti la sua vita da un certo momento in poi, tanto che gli avvenimenti precedenti si erano via via rimpiccioliti nel corso degli anni.
Prima il treno, poi l’aereo gli avevano consentito di viaggiare sia in Italia che all’estero. Aveva potuto scegliere il lavoro che più lo appagava. Era diventata un’abitudine puntare ogni volta più in alto negli obiettivi da conseguire: era sempre soddisfatto dei traguardi raggiunti e si era sentito a lungo realizzato.
Non aveva mai pensato, però, neppure per un attimo, di tagliare le proprie radici. Al momento buono, aveva deciso di costruire in paese la propria casa. Era là che voleva vivere: in mezzo alla gente tra cui era cresciuto, lungo l’argine che l’aveva visto bambino e poi ragazzo. Così aveva continuato a spostarsi anche per lunghi periodi, come esigeva il lavoro, per poi tornare nei momenti liberi.
Arrivò grondante, ma felice. Aveva riportato a casa un amico.
- Che roba è? – chiese la figlia con aria disgustata. Era intenta a esporsi al sole allungata su un lettino a bordo piscina.
- È una lunga storia. Forse un giorno te la racconterò.
- Ma non avrai intenzione di lasciare qui quella bruttura…
- Questo carretto mi è caro. Lo farò restaurare come si deve – spiegò Arturo, sganciando il mezzo dalla bicicletta. Stava già pensando a chi, tra le sue vecchie conoscenze, avrebbe potuto affidarlo. Non era difficile trovare qualche bravo falegname in paese e, in ogni caso, lui non disdegnava i lavori manuali e una prima sistemazione avrebbe saputo farla di persona.
- Intanto – continuò – resterà qui, nel nostro giardino.
La ragazza scosse il capo e si girò sul lettino, mentre Arturo entrò in casa a rinfrescarsi.
C’era una domanda ricorrente che aveva volutamente ignorato per diverso tempo e lo tormentava da un po’. Ho sacrificato qualcosa lungo il percorso?
D’un tratto ne ebbe la conferma, anche se in realtà già lo sapeva. Era solo difficile riconoscerlo. Soprattutto con sé stesso.
Sua figlia Giada. Che ne era stato di quella bambina che gli correva incontro allargando le braccia al ritorno da ogni viaggio di lavoro?
Aveva comprato per lei le bambole più belle, i giocattoli più costosi e libri, tanti libri… Libri che non abbiamo mai letto insieme, ricordò a sé stesso.
Fino a un certo punto della crescita tutto si era svolto nel migliore dei modi. L’incanto si era spezzato alle soglie della maggiore età, dopo il raggiungimento del diploma. O forse era stato prima, anche se nessuno se n’era accorto. Ricordava bene i discorsi di allora.
- Che cosa ti piacerebbe fare?
Alzata di spalle.
- Non so…
- Ci sarà pure un percorso di studi che ti attira di più. A quale facoltà vorresti iscriverti?
- Boh. Ci devo pensare.
Prima Giada aveva optato per la facoltà di lingue, quindi era passata a lettere moderne, poi aveva cambiato idea e si era iscritta a filosofia. Dopo qualche anno senza aver combinato niente si era dedicata a un corso di fotografia. Infine, più nulla, a parte computer, videogiochi e musica: solo occupazioni lavorative saltuarie in vista di qualche viaggio, da cui sembrava tornare rinvigorita per poi ricadere subito dopo nell’abituale apatia. Le relazioni – che lei chiamava storie – si susseguivano senza alcuna stabilità. Le si leggeva in faccia una perenne insoddisfazione.
Arturo era quasi sempre lontano, alle prese con un lavoro che adorava, ma che diventava sempre più difficile ed esigeva una dedizione totale.
Ho risanato molte aziende in crisi, ma non sono riuscito ad aiutare la mia unica figlia a uscire dal suo disagio, considerava nei momenti più bui.
Lo sentiva come uno smacco, il fatto che proprio sua figlia, a cui avrebbe potuto assicurare un percorso universitario di prim’ordine, con tanto di master e stage all’estero, non avesse voluto saperne di proseguire gli studi. E tutto gli tornava in mente: suo padre, i sacrifici passati e quella foto della miniera che lo aveva scosso, ma aveva fatto scattare in lui qualcosa. Era difficile però parlarne con chiunque. Anche sua moglie sembrava impotente e incapace di smuovere la ragazza. Tra loro si era pian piano creata una distanza incolmabile. Senza dubbio, questo non giovava a Giada, ma ormai era impossibile capire da quale momento preciso la situazione fosse degenerata.
Il carretto intanto giaceva sotto una tettoia accanto alla piscina, il luogo preferito da Giada durante l’estate.
- Quando ti decidi a portarlo via? – buttò là la ragazza un pomeriggio, vedendolo intento a studiarne per l’ennesima volta i dettagli.
C’era da levigare e riverniciare il legno delle sponde, occorreva rinforzare i bordi e il fondo. La ruggine dei cerchioni doveva essere tolta e le camere d’aria delle ruote sostituite.
- Vuoi dire quando lo porto al restauro – puntualizzò Arturo. – Sembra che i miei amici falegnami siano tutti impegnatissimi, in questo periodo.
- Certo che a vederlo così…
Arturo aspettò il seguito. – Fa schifo, vuoi dire?
Sua figlia non usava mezzi termini e lui era ormai assuefatto a un linguaggio che spesso lo infastidiva.
- No. Fa pena.
Giada lo guardò negli occhi e nel suo sguardo colse qualcosa di diverso dalla solita provocazione.
- Hai ragione. Pena. Sapessi quante ne ha passate questo carretto. È praticamente cresciuto con me.
- E adesso, cosa vorresti farne?
- Niente di particolare. Tenerlo qui. Rimetterlo a posto. Riempirlo di fiori, magari.
Strano, che sua figlia lasciasse trapelare un briciolo d’interesse. Per anni aveva disperatamente tentato di agganciarla, cercando la molla per scuoterla o almeno per ristabilire un minimo scambio comunicativo. Impresa fallimentare. La ragazza appariva irraggiungibile.
Giada sembrò riflettere.
- Ho un’amica restauratrice – buttò là tutto a un tratto. – Abita a qualche chilometro da qui. Che dici, glielo vuoi portare?
Arturo rimase per un attimo senza parole. Una proposta? Un miracolo.
Immediatamente iniziò a trafficare, agganciando il timone al bastone sottostante alla sella della bici.
- E adesso cosa fai?
- Ti propongo il viaggio più emozionante che potrai mai sperimentare – esplose Arturo, elettrizzato. – Sali. Si parte!
- Lì dentro? Sul serio? – Giada ridacchiò piuttosto titubante. – Ma… pensi di farcela?
- Ho un certo allenamento alle spalle, ragazza. È una lunga storia, te l’ho detto.
Con qualche timore, Giada si sistemò nello spazio che molto tempo prima aveva occupato il nonno. Erano trascorsi più di cinquantanni e ora, per un inspiegabile gioco della vita, tutto si ripeteva.
Fu il percorso più felice che il mezzo avesse mai affrontato.
- Più veloce, più veloce! – gridava la ragazza. E rideva, aggrappata alle sponde.
Arturo intensificò lo sforzo, che non gli pesava affatto. Avrebbe voluto volare, in realtà. E tutto a un tratto fu contagiato da un’allegria che non provava da tempo.
Risero insieme, fragorosamente, tanto che dopo un po’ gli toccò fermarsi perché aveva le lacrime agli occhi.
- Dai, riparti – gridò Giada. – È bellissimo!
Urla e risate continuarono. Qualcuno, lungo la strada, li segnò a dito. Arrivarono al laboratorio entrambi stremati.
Arturo scese dalla bici con le gambe molli, frastornato. Mentre Giada cercava l’amica restauratrice, ancora una volta la sua mano sfiorò la sponda del mezzo salvato dalla rottamazione. Dal profondo sentì traboccare qualcosa d’incontenibile.
Gratitudine.